La Procura di Milano ha notificato la chiusura delle indagini nei confronti di Meta Platforms Ireland, la società che gestisce Facebook e Instagram, accusata di aver evaso oltre 887 milioni di euro di IVA tra il 2015 e il 2021. Secondo i magistrati, Meta avrebbe omesso di dichiarare un imponibile pari a quasi 4 miliardi di euro, derivante dal modello di business basato sull’utilizzo dei dati personali degli utenti delle sue piattaforme.
Meta: per la Procura i dati il vero servizio di business
L’indagine, condotta dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Milano, si concentra sull’idea che l’apparente gratuità dell’iscrizione a Facebook e Instagram nasconda, in realtà, uno scambio economico: gli utenti non pagano con denaro, ma con i loro dati personali. Questi dati, raccolti e gestiti da Meta per scopi commerciali, costituirebbero il corrispettivo per l’uso dei servizi, configurando un rapporto economico di tipo “sinallagmatico” (cioè uno scambio di prestazioni proporzionali). In base a questa interpretazione, l’operazione andrebbe tassata con l’IVA, che la società avrebbe invece omesso di versare.
Questa visione non è nuova: sia l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, sia il TAR del Lazio (nel 2020) e il Consiglio di Stato (nel 2021) avevano già riconosciuto la natura economica dei dati personali nello scambio tra utenti e piattaforme digitali. Inoltre, l’indagine ha trovato riscontri nelle attività ispettive della Guardia di Finanza e negli atti dell’Agenzia delle Entrate.
Meta respinge le accuse
Dal canto suo, Meta ha respinto con forza le accuse. Un portavoce della società ha dichiarato che non condivide l’interpretazione secondo cui l’accesso gratuito alle piattaforme debba essere soggetto a IVA, ribadendo che Meta ha sempre rispettato le normative fiscali nazionali ed europee e che continuerà a collaborare con le autorità. La società sottolinea inoltre che paga tutte le imposte richieste nei Paesi in cui opera.
Big tech ed evasione fiscale
Questo caso solleva una questione cruciale nel panorama fiscale e digitale: il valore economico dei dati personali e la loro possibile assimilazione a una forma di pagamento. L’esito della vicenda potrebbe avere implicazioni significative per il settore delle piattaforme digitali, ponendo le basi per un nuovo approccio normativo al trattamento fiscale dei modelli di business basati sui dati.
Big tech come Meta, Google, Amazon e Apple sono spesso al centro di controversie fiscali in Italia e in Europa, accusate di pagare imposte molto inferiori rispetto a quanto ci si aspetterebbe in relazione ai loro guadagni. L’uso di complesse strategie di ottimizzazione fiscale, spesso legali, consente a queste aziende di ridurre al minimo il carico fiscale nei Paesi in cui operano.
Le stime di Google, Apple, Amazon e Netflix
L’entità dell’evasione o elusione fiscale delle big tech è difficile da calcolare con precisione, ma alcune stime forniscono un quadro significativo:
Nel 2017, Google ha patteggiato con l’Agenzia delle Entrate un pagamento di 306 milioni di euro per imposte non versate tra il 2009 e il 2013. Anche qui, la questione ruotava intorno alla dichiarazione dei profitti derivanti dalla pubblicità digitale.
Apple
Nel 2015, Apple ha accettato di versare circa 318 milioni di euro al fisco italiano per sanare la situazione fiscale tra il 2008 e il 2013. La società aveva trasferito i profitti italiani in Irlanda, dove il regime fiscale è molto più vantaggioso.
Amazon
Nel 2021, la Commissione Europea ha contestato ad Amazon un accordo fiscale con il Lussemburgo, considerato come aiuto di Stato illegittimo. L’Italia, nello stesso periodo, ha avviato accertamenti per stabilire l’entità dei ricavi non dichiarati. Tuttavia, non esistono ancora cifre definitive sugli importi evasi nel nostro Paese.
Netflix
Nel 2021, Netflix è stata indagata dalla Procura di Milano per non aver dichiarato i propri ricavi italiani, nonostante milioni di abbonati nel Paese. Anche in questo caso, la questione riguarda l’attribuzione dei profitti a Paesi con fiscalità più bassa.
Modalità di elusione fiscale
Le big tech spesso sfruttano regimi fiscali favorevoli. Molte aziende dichiarano i profitti in Paesi come l’Irlanda, il Lussemburgo o i Paesi Bassi, dove le aliquote fiscali sono molto più basse. Transfer pricing, trasferiscono ricavi tra società dello stesso gruppo situate in Paesi diversi per spostare gli utili dove la tassazione è minore oppure sedi fantasma: alcune società stabiliscono sedi legali in Stati con tassazione minima, pur operando concretamente in altri Paesi.
Risposte normative
Secondo alcune stime, l’Italia potrebbe perdere diverse centinaia di milioni di euro ogni anno a causa di queste pratiche. Tuttavia per contrastare queste pratiche è stato introdotto il Digital Services Tax (DST) in Italia, che prevede un’aliquota del 3% sui ricavi generati da servizi digitali, anche se l’impatto è limitato. A livello globale, l’OCSE sta promuovendo un accordo per una minimum tax globale del 15% sui profitti delle multinazionali, che potrebbe ridurre significativamente queste discrepanze fiscali.
Gasparri: “Basta allo strapotere dei giganti della rete”
“Questa indagine dimostra come i colossi del web non siano ‘intoccabili’ come credono. Oggi più che mai è ora di dire basta allo strapotere dei giganti della rete, che non pagano tasse ed alterano il mercato”, ha commentato il presidente dei senatori di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri.
“Secondo l’accusa sarebbe stata omessa la dichiarazione di oltre 3,9 miliardi di euro fra il 2015 e il 2021, evadendo l’Iva per un totale di 887 milioni di euro. Una cifra vergognosa. Se venisse accertato quanto ipotizzato dagli inquirenti”, ha aggiunto, “saremmo di fronte ad uno scandalo che non potrebbe rimanere impunito. Anche perchè si andrebbe ad aggiungere a numerosi altri casi, a conferma di come i giganti della rete ottengano enormi proventi senza pagare mai nulla. Per questo è indispensabile insistere sulla ‘web tax’, come sta facendo Forza Italia. Se i colossi della rete credono di poterci condizionare facendo leva sullo strapotere accumulato negli anni a scapito delle piccole e medie imprese sbagliano di grosso. Siamo stanchi dell’impunita’ dei banditi fiscali del web, e’ tempo di agire”, ha concluso Gasparri.