Le prime analisi a disposizione confermano quanto il buon senso e le evidenze empiriche ci dicono da tempo. Nelle presidenziali americane – e sempre più accadrà in futuro ad ogni consultazione elettorale nell’Occidente democratico – i social e le piattaforme digitali hanno giocato un ruolo determinante quale fattore di formazione, aggregazione e orientamento dei consensi e delle opinioni.
L’atterraggio di Donald Trump su Tik Tok (a giugno) con l’obiettivo di raccogliere l’attenzione dell’elettorato più giovane si è rivelato una scelta vincente, anche grazie al supporto della nipote Kai, la cui partita a golf in compagnia del nonno ha spopolato. Col senno del poi possiamo dire che dell’unico confronto televisivo tra i due candidati, stravinto – a detta di tutti i commentatori – dalla Harris, ciò che più ha funzionato alla fine è stata la battuta di Trump sugli immigrati haitiani che rapiscono e mangiano i cani e i gatti dell’Ohio, battuta che ha generato un meme e una canzone divenuti virali proprio su Tik Tok. Per la cronaca, a Springfield (Ohio), la città “pietra dello scandalo”, Trump ha trionfato col 64% dei voti, come si sono affrettati a sottolineare tutti i media.
Naturalmente anche per la Harris si può fare un discorso analogo. Il post Instagram di Taylor Swift (283 milioni di follower) a sostegno di Kamala subito dopo il dibattito tv ha raccolto milioni di like e prodotto quasi mezzo milione di click sul link governativo segnalato dalla star con l’invito agli elettori a registrarsi per andare a votare (anche se probabilmente ha avuto ragione l’Economist nel commentare a caldo che più che spostare orientamenti, l’endorsement è piuttosto servito ad incoraggiare al voto un po’ di elettori riluttanti).
Entrambi i candidati hanno utilizzato a piene mani i cinque maggiori strumenti a disposizione (Facebook, You Tube, X, Instagram e Tik Tok). Trump ci ha aggiunto di suo Telegram, Rumble e Truth. Gli account Instagram e Tik Tok dei due candidati hanno moltiplicato i follower. Nei tre mesi precedenti le elezioni, secondo quanto riportato dai media statunitensi, l’account Instagram di Trump ha totalizzato qualcosa come 138 milioni di interazioni e l’account Tik Tok della Harris 117 milioni. Una audience digitale imponente, per lo più caratterizzata da un basso grado di engagement (pochi argomenti seri, zero approfondimenti, un dilagare di battute) e da un alto tasso di polarizzazione (per sua natura divisiva e poco o niente dialettica).
Insomma, è pacifico che gli orientamenti delle pubbliche opinioni si consolidano e si spostano ormai assai più sulla spinta di social e piattaforme, che non dei media tradizionali.
Aggiungiamo una seconda considerazione. Nei commenti del post-voto una delle osservazioni più ovvie e condivise riguarda il ruolo che giocherà Elon Musk a fianco di Trump. Circola l’idea che avremo un vero e proprio Presidente aggiunto, con responsabilità formali e un ruolo reale ben più pesante del vice ufficiale. Il problema è che Musk – come sappiamo tutti – è un visionario post-politico di indiscutibile capacità e intelligenza che smuove risorse economiche immense, e che, nel momento in cui si accinge ad assumere più poteri e responsabilità, propone apertamente una rilettura a dir poco irrituale dei principi di democrazia e libertà sui quali da qualche secolo si sono faticosamente costruiti e articolati i nostri ordinamenti e i nostri assetti istituzionali.
Qui, l’evidenza del ruolo crescente dei social e delle piattaforme globali quali crocevia della formazione delle opinioni e degli orientamenti, si intreccia con il tema di chi muove, gestisce e orienta tali mezzi.
Sullo smottamento dei principi di autorità e sovranità, nell’epoca delle big tech trionfanti, si interrogano con preoccupazione e da tempo tutte le menti più brillanti del pianeta. C’è una diffusa consapevolezza in ordine al problema della sottrazione di sovranità nazionale di cui la piccola Europa, e la piccolissima Italia, sono vittime per effetto della crescente dipendenza tecnologica da USA e Cina; ma non si vede in giro altrettanta capacità nel trovare le (certamente difficilissime) soluzioni al problema.
Eppure, siamo dinanzi ad uno dei temi nodali su cui si gioca la qualità dei nostri ordinamenti, atteso che tutti i fenomeni che investono il sistema dell’informazione – a partire dalla credibilità, dalla trasparenza e dall’autorevolezza delle notizie e delle sue fonti – hanno effetto sulla formazione delle opinioni pubbliche, sulla ricerca e la costruzione del consenso, sul grado di trasparenza dei pubblici poteri, e, in definitiva, sulla saldezza e la qualità delle nostre democrazie. Nella nostra parte di mondo, i media (e internet e i media digitali non fanno eccezione) sono, tradizionalmente e al tempo stesso, strumento e termometro della democrazia, e l’informazione si dibatte da sempre tra la vocazione a qualificarsi come cane da guardia del potere e l’accusa ritornante di essere ancella del potere.
Sono cose che sappiamo da tempo. Norberto Bobbio già a metà degli anni ’80 – una stagione d’oro per i giornali e l’informazione qui in Italia, ma anche l’epoca della formazione del duopolio tv e del costituirsi di anomalie strutturali nel mercato televisivo e pubblicitario che avrebbero pesato per i decenni successivi – si interrogava criticamente sui limiti della nostra democrazia, sollevava lo sguardo sulla persistente «invisibilità» del potere, anche nei regimi democratici, e metteva in guardia sulla tenace resistenza delle oligarchie, sulla ritornanti chiusure corporative, sull’inadeguatezza del grado di formazione civile della massa dei cittadini (Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, 1984). E Stefano Rodotà non diceva, a ben vedere, cose troppo diverse dieci anni dopo con la sua Tecnopolitica (Stefano Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Bari, Laterza, 1997).
Il fatto nuovo cui assistiamo da alcuni anni è la velocità con cui gli stessi fenomeni ed i medesimi rischi si palesano nell’ecosistema digitale, determinando un mutamento di paradigma e il travolgimento di modelli consolidati con una rapidità senza precedenti. L’ultimo fatto nuovo è lo sbarco diretto in politica dei signori che governano le tecnologie, la conoscenza e – sempre più – le opinioni del pianeta. Musk potrebbe essere solo l’avanguardia di uno scenario inedito.
Sentire il “Presidente ombra” degli USA – l’uomo più ricco del mondo, uno dei padroni dell’IA planetaria, il dominus della più grande flotta privata di satelliti, lo stesso che ha ideato una lotteria da un milione di dollari al giorno per costruire consenso attorno alla candidatura di Trump, colui che il giornalista britannico Gideon Rachman ha difinito sul Financial Times “un missile geopolitico senza bussola” – tratteggiare una sua molto personale filosofia sui principi di democrazia e libertà di parola (una circostanza su cui abbiamo una tale messe di documenti e commenti che è del tutto superfluo richiamare), mette più di qualche brivido.
Le diplomazie europee al lavoro per ora si limitano, come è anche ovvio, a complimentarsi e a richiamare gli antichi e gloriosi legami transatlantici quale testimonianza di un futuro di amicizia e collaborazione. La realtà è ben altra, come tutti sanno, a cominciare dal ventilato proposito di sganciamento USA dalla Nato, e da un sostanziale pre-giudizio di irrilevanza che qualifica, nelle teorizzazioni trumpiane, l’Europa e le sue istituzioni.
Purtroppo, non saranno i pur pregevoli sforzi regolamentari che l’UE ha faticosamente messo a punto in questi anni (l’IA Act, il DSA e il DMA per citare i più importanti) la carta per giocare davvero la partita del futuro nel confronto competitivo con le big tech e le superpotenze vecchie e nuove. L’Europa non ha più molto tempo a disposizione per mettere a punto un progetto politico capace di prefigurare in materia di ricerca e innovazione, difesa e sicurezza, una vera strategia comune. O si decide in tal senso o il confronto competitivo è perso in partenza.
L’Europa dovrebbe tornare ad essere davvero, come nei sogni di chi l’ha pensata nei decenni passati, una “comunità di destino”, pena l’autocondanna all’irrilevanza. Il problema è che molti nemici dell’Europa abitano l’Europa stessa, rivestono responsabilità di governo o si affermano e si rafforzano un po’ ovunque, in Germania come in Francia, in Spagna come in Italia. Sarebbe compito delle forze democratiche europee di ispirazione liberale, cristiana e socialista costruire una reazione adeguata a queste derive.
Se l’Europa vuole davvero essere all’altezza della sfida per l’affermazione dei valori che stanno scritti nelle sue carte fondative, non c’è altra soluzione che questa.
In caso contrario, il dubbio seminato quattro anni orsono dal Piano d’azione per la democrazia europea, secondo cui “la democrazia non può essere data per scontata”, si vestirebbe di una sua sinistra carica premonitrice. E l’idea che non è la democrazia a doversi rendere compatibile con i mercati, ma piuttosto il contrario, perderebbe inesorabilmente la partita di fronte al prevalere di un pensiero di segno opposto, frutto dell’ineffabile saldatura tra un nuovo capitalismo globale ed elitario, insofferente alle regole, e plebi senza bussola e senza domani.
Non possiamo davvero permetterci che prevalga un pensiero che si alimenta del dubbio che forse non è vero che la democrazia politica sia il migliore dei mondi possibili.
La guerra nel cuore dell’Europa, il perdurante rebus mediorientale, il genocidio dei palestinesi, i rischi che ne derivano per l’intera area circostante, il tutto nella conclamata sostanziale irrilevanza dell’ONU e della Unione europea, sembrano sempre più questioni la cui soluzione è affidata a leader autoritari (Xi Jinping, Putin) o la cui cultura politica si nutre di una sostanziale indifferenza verso il principio democratico (Trump). L’assalto al Congresso del gennaio 2021 non dovremmo mai dimenticarlo.
E se al vertice europeo di Budapest, che si è tenuto ieri 7 novembre, è Orban a dichiarare che “il successo di Trump è un successo per il mondo intero”, allora ci sono davvero molte buone ragioni per pensare il contrario.