Una “ragazza per bene, una ventenne come tante”, studentessa di pedagogia, babysitter modello come è potuto succedere che avesse due gravidanze in sequenza portate fino alla fine in totale solitudine e con un esito terribile? Fatto tragico che si somma ad altri con coinvolgimento diffuso di adolescenti e anche bambini già ampiamente illustrati sulla stampa.
Qualche dato è utile: solo in Lombardia quasi 140mila bambini e adolescenti solo nel 2022 si sono rivolti al servizio sanitario per problemi psichici (dai 5 ai 19 anni significa circa l’11%), un dato abnorme e probabilmente sottovalutato come punta di un iceberg.
Gli psichiatri ci dicono che disturbi mentali e del comportamento sono già visibili oltre i 12-14 anni e anche prima nei casi più gravi. Dunque un fenomeno sociale come patologia diffusa del presente e di una “modernità monca” tra sofferenza, solitudine, indifferenza e – paradossalmente – iper-connettività, perché spesso silenziosa che solo dopo anni “esplode” e non solo frutto di ignoranza e/o povertà o di aree di disagio sociale, ma certo di “povertà emotiva”.
Perché soprattutto dopo il Covid riscontriamo – ci segnalano psicologi e psichiatri di scuole varie freudiane o junghiane – una difficoltà a dare risposte ad una società che spinge sulle performance ( spesso declinate nell’apparenza) e una genitorialità con altissime aspettative prestazionali (scuola, impegno, rigore, sport, musica) con comportamenti spesso sempre più accudenti e iper-protettivi (fino alla “selezione forzosa” dei gruppi di amici) ma spesso in condizioni di “sordità emotiva” che producono fratture e squilibri percettivi da parte dell’adolescente in cortocircuiti familiari o amicali dei quali rimangono in ostaggio sul filo di un equilibrio precario e instabile, anche affettivamente.
Diseducando di fatto o sottovalutando la percezione della propria identità e il riconoscimento delle pulsioni distinte dalle emozioni (negative o positive) e (spesso per i maschi ) con difficoltà conseguenti nella loro gestione ed espressione, da cui difficoltà enormi nell’identificazione delle gerarchie dei bisogni e dei sentimenti morali da scegliere con i quali costruire la propria autonomia e formare la propria crescita adulta.
Dunque – come ben rilevato dagli psichiatri – vivendo in un caos emotivo-sentimentale-affettivo aggrovigliato, sconosciuto, fragile e spesso vissuto in silenzio tra paure e sensi di colpa che possono esplodere con conseguenze imprevedibili, in tempi e modalità inattese perché incastrate nelle routine di una quotidianità in perenne disequilibrio e fratturata dove la sofferenza scorre lentamente e inesorabilmente scavando come un fiume carsico distanze e buio nell’incapacità di raccontare o confidarsi ad amici, parenti, fidanzati/e nel terrore di essere giudicati (nel terrore delle “basse performance”, spesso più percepite che reali) anche per la povertà di parole e linguaggi espressivi appropriati o affettivamente poveri (anche di una genitorialità anaffettiva e più sensibile alle performance e/o all’apparire).
Ecco perché dalla scuola dovremo ripartire ma non solo con sportelli di ascolto individuali certamente utilissimi ma anche con dialoghi e scambi collettivi di piccoli gruppi di classe partendo dall’autoanalisi dei problemi e dalla loro espressione per esplorare soluzioni possibili di un complesso mondo interiore al quale questi ragazzi non sono abituati che li rende insicuri e distratti.
Magari teatralizzando quei problemi per coinvolgere e includere ed educando alle emozioni. Insicurezza e distrazione enfatizzata e riverberata da social intrusivi, spesso violenti e diseducativi sensibili essi stessi esclusivamente al “traffico” (numero di follower dai quali dipendono le montagne dei loro profitti da monopolio).
Ragazzi insomma – come noto – schiacciati tra adulti che richiedono risultati rapidi e in senso verticale, una scuola che spesso sa solo maneggiare una asticella selettiva fingendo di non vedere o ascoltare il disagio e i social che invece spostano l’attenzione su un confronto esterno e orizzontale che tutto mescola e confonde in un incedere competitivo.
La Tragedia Greca di Traversetolo (tra le tante, troppe di questi giorni e mesi o anni ) è allora innanzitutto la dimostrazione plastica di questa complessa e multifattoriale patologia del presente – se ancora cercavamo prove – di torsione e ritorsione tra solitudine (verticale) e indifferenza (orizzontale) incistate in un quadro di relazioni sociali malate e deviate da una società prestazionale da una parte e dell’apparire e dell’apparenza dall’altra.
Segno ennesimo di una totale assenza di dialogo e di una profonda distanza tra giovani e tra questi e gli adulti fino ad un isolamento solipsistico con esiti tragici non sapendo più distinguere tra rispetto formale della legge e senso etico che la precede portando all’abisso della assoluta assenza del senso di colpa o della vergogna (come dice Recalcati).
Una esplosione di effetti psicologici e comportamentali in forza anche di una potenza tecnologica tascabile che ci ha illuso e ci illude (qui Leopardi fu visionario pu senza tecnologia) con una comunicazione vuota e orizzontale che sottrae significato, incapace di coinvolgere, di includere ed educare dunque impotente (tra incapacità, anaffettività e non volontà) nella costruzione di relazioni di senso.
Canali comunicativi social che producono diseducazione emotivo-sentimentale e dis-informazione, che negano umanità e che sono decostruttivi di relazioni familiari, scolastiche e amicali perchè iniettori di incapacità di ascolto e di dialogo essendo spesso di puro rinforzo a identità claniche e chiuse. Non è casuale che il 45% dei giovani americani si senta spesso solo eppure con un cellulare in mano (ma come una clava?), prima e dopo il Covid in crescendo.
Che fa dire all’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che la solitudine è una patologia e purtroppo diffusa che genera stress e burnout, e ancor più – sorprendentemente – tra giovani e giovanissimi che non tra adulti (comunque altissima) e che accompagna all’infelicità. Dal 1550 al 1800 – secondo il libro di Fay Bound Alberti, 2019 – la solitudine era sconosciuta se non entro una dimensione romantica o eroico-mitologica, mentre dagli anni ‘20 dell’800 schizza geometricamente in alto (guerre, metropoli, mobilità familiare, industrializzazione e poi la radio) e nel ‘900 nel picco si aggiungono divorzi, famiglie mononucleari, automobile, individualismo e ancora guerre e TV e poi PC e cellulari verso oceani di impoverimento relazionale.
Relazioni frammentate e ammalorate dall’apparire e dall’apparenza che “scivolando su uno schermo vuoto e buio” occultano le possibilità di soluzioni emotivamente/affettivamente sostenibili e compatibili con la protezione della privacy, della dignità umana e del rispetto di noi stessi oltre che della vita umana e ancor più di quella nascente.
Vite nascenti che nel caso di Parma sarebbero potute affiorare semplicemente andando in un ospedale per lasciare quei poveri piccoli al loro accudimento e a famiglie accoglienti che numerose ne attendono e ne desiderano la cura. Immergendoci invece – paradossalmente – nella “Grande Frattura” tra libertà assoluta, colpa e collassamento del senso di responsabilità che ci conduce alla crisi del discorso educativo e alla dissezione dell’anima (secondo psicanalisti di Harvard e ancora Recalcati). Dove erano (e dove sono) famiglia, scuola, amici, fidanzati, comunità? Ma dove sono i social che leggono “in chiaro” quotidianamente le ricerche (cronologia) di questi “poveri disperati/e” quali le soluzioni alle loro disperazioni e cosa fanno per fare luce nel buio emotivo-sentimentale , cosa per educare? Perchè già mezzo secolo fa Marshall McLuhan ci indicava che il mezzo è il messaggio e dunque non può essere “neutrale”, contribuendo al fallimento delle reti relazionali e all’implosione dei corpi sociali intermedi.
La “difesa della privacy” come del “free speech” impongono regole, moderazione e attenzione ben prima della legge e certo ben prima della montagna dei profitti da miliardi di follower che imporrebbero responsabilità e attenzione selettiva. Attenzione e sensibilità da promuovere in tutte le loro forme, soprattutto di fronte a fenomeni endemici di solitudine e disperazione, consapevole e – più spesso – inconsapevole, mescolate a timidezze, introversioni, estroversioni squarciate da hybris tossiche immerse in oceani di indifferenza e ignoranza emotivo-sentimentale? “Vite spezzate” e in-comunicanti tra una dimensione pubblica e una privata e intima di una quotidianità frammentata e liquida dove i social diventano un rinforzo a volte costruttivo ma più spesso distruttivo soprattutto nei confronti di soggetti fragili e di una emotività e di sentimenti instabili incapaci di illuminare virtù e competenze utili, affettivamente attive.
Che fare allora, come agire? Provare a infrangere i vetri di cristallo dell’indifferenza, dalla famiglia alla scuola al gruppo di amici facilitando il racconto, a rompere i muri del silenzio non temendo la “parola buona”, il saluto accogliente, il piccolo gesto di gentilezza e del sorriso, esercitando la comprensione, costruendo l’incontro con l’Altro in gruppi di ricerca della mindfulness. Distribuendo in tutte le occasioni (dall’oratorio, alla squadra di calcio, dall’assemblea di classe alla famiglia fino all’ultimo uomo dell’angolo raccolto dalla Caritas) un esperimento di dialogo nel rispetto della diversità e dell’alterità come opportunità e protezione attiva educando all’affettività e alla gentilezza. Diventiamo leader gentili e le nostre organizzazioni cresceranno.
In particolare, nel quadrilatero critico tra scuola, famiglia, comunità e piattaforme tecno-social. Certo la scuola è luogo primario di custodia e manutenzione di queste “reti di reti” di gesti, parole, comportamenti, sensibilità che si mescolano e ibridano per contaminarsi in una “cultura materiale” dell’incontro, da promuovere ogni giorno. La famiglia pure se capace di accogliere dialogo e diversità può e deve continuare in questa funzione di “guida e orientamento” non cercando solo prestazioni ma racconto e ascolto senza giudizio.
La comunità quale luogo di incontro esperienziale e di sperimentazione di relazioni di senso dove apprendere “buone pratiche” per una convivenza civica nel rispetto e nella responsabilità come vincolo etico ad una libertà mai assoluta. I tecno-social dovrebbero svolgere funzioni connettive di senso, monitorando e sanzionando le devianze e segnalando i reati, non rinunciando mai ad educare. Così nelle imprese e nelle organizzazioni affermando diritti e superando discriminazioni (da gender gap e oltre). Nel complesso abilitare il quadrilatero del senso dove formare l’uscita dalle pulsioni per riconoscimento delle emozioni e per distinguere le buone dalle cattive e dunque poter poi scegliere quei sentimenti morali che costruiscono le basi della nostra identità come unica e irripetibile nella conquista di una autonomia forte e riconoscibile, di una indipendenza matura e libera in quanto scelta consapevole.
Tutto ciò che a Traversetolo (e in tutti gli altri luoghi di questi tragici giorni) è mancato appunto tra indifferenza, isolamento e assenza di dialogo avendo scavato il buio nella coscienza di una povera ragazza in frantumi (eppur “normale”) che nessuno ha saputo riconoscere e dunque nessuno ha potuto (o voluto) aiutare senza con questo trasformarla in una vittima. Tuttavia, “costringendola a fare tutto da sola” nel buio della coscienza di un sé vitale.
La giustizia dovrà fare il suo corso ma non rinunciando ad aiutarla ora e subito a comprendere e a comprendersi nel tragico che stà attraversando resistendo alle forze che risucchiano in un complesso vortice emotivo e spirituale con diversi e possibili intrecci de-costruttivi dell’essere tra famiglia, comunità, scuola e social.
Non abbandoniamola perché siamo parte di quel buio dell’umano sul quale dobbiamo provare insieme a fare luce perché possa non ripetersi almeno con quei devastanti esiti su corpi, menti e coscienze. Perchè speranza, perdono, compassione e perseveranza nell’ascolto non ci abbandonino anche qui seguendo Plutarco nei dialoghi Sull’Amore nella sua complessità per un essere solidale e mai indifferente come ripete Francesco senza sosta. Ma ne saremo capaci? Dovremo !