Internet governance. R. Barzanti: ‘Una Magna Charta per la rete che non confonda libertà con caos

di di Roberto Barzanti (Docente di Istituzioni e politiche audiovisive nella Ue - Università di Siena) |

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Roberto Barzanti

È convinzione sana e universale che Internet abbia bisogno di un governo democratico e multilaterale, di un coerente sistema di garanzie. Qualche passo in avanti è stato fatto, ma ancora assai minimo, quasi impercettibile e solo sul piano tecnologico.

Quando si dice governo, soprattutto per questo gigantesco fenomeno, non si deve intendere, ovviamente, un esecutivo che autorizzi, blocchi e censuri. Codici di condotta stilati autonomamente da chi si serve della rete saranno, come sono, essenziali. Comportamenti soggettivi corretti, sostenuti da una cultura condivisa del web, decisivi. Ma la legislazione, per quanto soft, flessibile, consapevole delle differenziazioni necessarie e disponibile ad una revisione continua, non può essere totalmente assente: né sul piano nazionale, né, più ancora, su quello sopranazionale, tendenzialmente globale.

Internet non è uno spazio di libertà svicolato da qualsiasi condizionamento, da obblighi e rischi: questa è l’illusione che origina, con una derivata ideologia anarcoide. Che una sinistra demagogica e approssimativa fa propria con incredibile (elettoralistica?) disinvoltura. A tal punto ormai i ragionamenti sono rovesciati e le categorie di analisi smentite o abbandonate.   

La canizza che si è scatenata a proposito del corposo disegno di legge, finalmente presentato, sull’editoria ha avuto e sembra avere di mira solo un tema, di grande ascolto. Il grido d’allarme a effetto prevale sul resto. La deformazione caricaturale sul ritratto, la becera ironia sul motivato discorso.

Un vero guaio.

Il tema, dunque, che più – finora – ha agitato gli animi è l’estensibilità della iscrizione in apposito registro, il Registro degli operatori di comunicazione (Roc), delle testate che in forma di sito svolgono attività editoriale via Internet. Nessuno si oppone – credo – a che tale procedura sia osservata per i soggetti che esercitano attività editoriale in senso stretto. Tanto più che il futuro sarà sempre più caratterizzato dalla moltiplicazione delle tipologie di servizi affidati alla rete: forse non hanno torto coloro che intravedono per i quotidiani un destino tutto immateriale, digitale, veicolato dalla rete.   

Che senso ha acquistare in edicola un ingombrante fardello di carta che reca notizie già bruciate nel giro di poche ore? E i blog che fioriscono meravigliosamente, offrendo un convulso ed eccitante panorama di opinioni, idee, immagini, articoli e improperi?

Vanno trattati alla stregua dell’intangibile corrispondenza privata o, taluni almeno e dal punto di vista della loro gestione, sono assimilabili ad un organo destinato alla pubblica fruizione e quindi per certi profili apparentabili ad un prodotto editoriale? “L’esercizio dell’attività editoriale – si legge all’art. 5 del disegno succitato – può essere svolto anche in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative”. È uno dei passaggi che hanno fatto drizzare le orecchie. Incrociandolo con il successivo art. 7, nel quale si prescrive che nel magno Roc si debbano ricomprendere i “soggetti che svolgono attività editoriale su internet” e che ciò “rileva anche ai fini dell’applicazione delle norme sulla responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa”, ne scaturisce un panorama piuttosto complicato.

Il giovane creativo – ci si rifugia sempre dietro simpatiche immagini quando si vogliono prospettare argomenti persuasivi – che costruisce e alimenta un blog, o un attempato comico che si diverte a spararle grosse (Grillo) è obbligato a dirsi responsabile – attraverso una qualche modalità pubblica di formalizzazione, magari semplificata – dell’attività che svolge? E questa registrazione non è già uno strumento di controllo?

Non rischia di preludere a censure e imposizioni di vario tipo?

Di fronte agli attacchi e ai dubbi il sottosegretario Ricardo Franco Levi è battuto in ritirata e ha presentato un ingegnoso emendamento che tira fuori blog , et similia, da ogni peripezia burocratica, da ogni esplicitazione di responsabilità.

Infatti è escluso l’obbligo di iscrizione per “i soggetti che accedono a Internet o operano su Internet in forme o con prodotti, come i siti personali ad uso collettivo che non costituiscono un’organizzazione imprenditoriale del lavoro”. Formula tortuosa che già non soddisfa: l’incompetente Grillo già urla che vuole seccamente la cancellazione dell’intero art. 7.   

Prima di procedere a questo numero di prestidigitazione, cercando la scorciatoia di un accomodamento di non limpida interpretabilità sarebbe stato meglio ragionare e far ragionare a lungo.

Perché il problema esiste.

Anzitutto: un conto è pretendere una dichiarazione di responsabilità, un conto censurare o bloccare.

La richiesta di un’evidenziazione di responsabilità per chi colloca in rete il prodotto – o l’opera – del suo del suo estro in sé non è affatto bislacca, se si vuol ottenere qualche risultato in fatto di trasparenza e di legalità.   

È vero senz’altro che nel nuovo panorama dentro il quale ci troviamo la distinzione tra forme di comunicazione equiparabili all’espressione individuale del pensiero (in termini tipici di una vera e propria comunicazione privata) e forme le quali, per l’accesso che consentono e la diffusione che hanno, si configurano come comunicazione pubblica, con tutte le regole e i criteri che ciò comporta è maledettamente difficile a stabilirsi.    
La lotta alla criminalità in rete, a siti, ad esempio, che diffondono illegalmente messaggi lesivi della dignità e della privatezza della persona – non faccio il solito esempio della pedofilia, scontato – non si può condurre correttamente e celermente se non si ha una qualche codificazione che faccia emergere dall’ombra e dall’anonimato tutti gli attori di una gigantesca macchina mediatica.   

Anche la prossima direttiva europea che dovrà aggiornare e ammorbidire quella già varata sul rispetto dei diritti della proprietà intellettuale (la direttiva 2004/48/CE) non potrà non soffermarsi su – o richiamare: già lo fanno altri testi comunitari – una questione cruciale: un’accresciuta responsabilità dei fornitori di servizi in rete. D’accordo: è altra cosa rispetto alla gestione di un blog o di un’attività artigianale non lucrativa ma chi ritiene che le distinzioni siano tanto semplici o pecca d’ingenuità o chiude gli occhi dinanzi a un tema enorme.

Nessuna tutela di nessun diritto – alla privacy, al pluralismo, all’accesso – è concretamente realizzabile se non si trovano modi efficaci, modulati e leggeri di responsabilizzazione, e non si assicura così la trasparenza desiderata. Certo: in primo luogo si tratta di accrescere lo spazio dei codici di autoregolamentazione, ed escludere ogni attentato censorio alla libertà d’espressione costituzionalmente sancita (e limitata), ma la libertà di un blog che abbia un’accertata dimensione pubblica può essere affrancata da qualsiasi dovere? E la formazione di una cultura condivisa potrà avvenire senza una seria e scomoda discussione?

Giustamente c’è chi – Stefano Rodotà con autorevole insistenza – ha da tempo individuato la necessità, per la rete e per Internet, di una di una sorta di Carta costituzionale, che configuri principi e stabilisca orientamenti di generale interesse. L’aria che tira pare del tutto ostile a qualsiasi passo in questo senso.

I più identificano libertà con caos.

E si rifiutano perfino di prendere in considerazione il tema.

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