Italia
L’articolo che segue, a firma di Carlo Cambini, è tratto da la-rete.net (www.la-rete.net), il nuovo sito che intende sostenere il dibattito sulla società dell’informazione in Italia.
Il Ministero delle Comunicazioni, congiuntamente al Consiglio dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha recentemente concluso un importante passo avanti verso una corretta e efficiente gestione dello spettro frequenziale italiano.
Tenendo conto delle esigenze di coordinamento internazionale deciso a Ginevra nel 2006, si è definito che la tv digitale sarà isofrequenziale (una sola e identica frequenza ovunque) così da garantire un utilizzo più efficiente dello spettro e l’eliminazione dei problemi d’interferenza e ridondanza.
Allo stesso tempo, grazie al primo “catasto” delle frequenze ad uso televisivo, è stata decisa la ripartizione dell’etere italiano in 14 frequenze nazionali e 7 locali, per un totale di 21 canali ciascuno dei quali darà origine ad un multiplex in grado di trasmettere da 4 a 6 canali ciascuno. Insomma, una vera riorganizzazione delle frequenze televisive che riduce il cosiddetto far west a cui abbiamo assistito fino ad oggi e che auspicabilmente potrà garantire un miglior funzionamento del mercato televisivo negli anni a venire.
Questo importante passo avanti sul riordino dello spettro frequenziale non deve però far credere che tutto sia stato già fatto ed esaurito, ma al contrario molto ancora è da fare per migliorare, una volta per tutte, l’efficienza nell’utilizzo dello spettro per un qualunque utilizzo.
Lo spettro radio resta, infatti, una risorsa scarsa che, in quanto tale, ha un notevole valore economico e che risulta essenziale per la fornitura di molti servizi di comunicazione ed intrattenimento: ne è evidenza il fatto che il contributo da esso derivante è almeno pari al 2% all’interno della UE, sia in termini di GDP sia anche di occupazione.
La corretta gestione dello spettro, non solo in termini di efficienza spettrale, ma anche di adeguata valorizzazione economica, rappresenta un obiettivo prioritario delle politiche del settore nel prossimo futuro. Mentre in passato, infatti, si concedevano parti dello spettro ai primi operatori che ne facevano richiesta, dato che gli utilizzi erano molto ridotti e i bacini d’utenza poco numerosi, oggi tale meccanismo appare del tutto fuori luogo e non più economicamente sostenibile, in ragione della crescente domanda di spettro necessaria per l’erogazione dei moderni servizi di radiocomunicazione e per l’elevata redditività che da questi deriva. Le imprese che intendono utilizzare una porzione di spettro dovrebbero quindi ottenere diritti proprietari per tale risorsa, che – in funzione del pagamento di un prezzo, necessario a calmierare la domanda e ad attribuirne l’uso a chi è disposto a pagare di più – permettano di utilizzare le frequenze nel modo più redditizio. Quale conseguenza, dovrebbe essere incoraggiata la nascita di mercati secondari dello spettro nei quali gli operatori possano scambiare i diritti d’uso, scegliere le tecnologie utilizzabili e i servizi da offrire ai propri clienti.
Tuttavia, l’attuale gestione dello spettro appare oltremodo inefficiente in Italia.
In primo luogo, non esiste ancora un catasto completo delle frequenze – ossia un elenco del patrimonio frequenziale italiano e del suo utilizzo, a oggi limitato come visto sopra alle sole frequenze televisive – che è ovviamente alla base di ogni ragionevole politica di gestione dello spazio hertziano.
A ciò si aggiunga che lo spettro è al momento utilizzato in modo asimmetrico e quindi inefficiente, con alcuni servizi (pochi) per i quali è prevista una remunerazione in funzione delle frequenze utilizzate, come avviene per la telefonia mobile, e molti altri che invece non prevedono alcun pagamento (le frequenze utilizzate dal Ministero della Difesa, ad esempio, pari a circa i due terzi del totale delle frequenze utili a fini commerciali) o pagamenti assai modesti rispetto all’impiego delle risorse pubbliche.
Oltre ad un’accurata mappatura dello spettro in cui si evidenzi non solo l’ampiezza – già fornita dal Ministero delle Comunicazioni – ma anche il numero di frequenze in uso (ossia i canali), è altresì prioritario introdurre meccanismi di valorizzazione dello spettro, unitamente all’introduzione di regole di mercato efficaci per l’allocazione di frequenze (come le aste e il trading) senza alcun vincolo di destinazione circa la tecnologia da impiegare.
Particolarmente interessante è la questione dei cosiddetti prezzi incentivanti per l’uso dello spettro (Administered Incentive Pricing – AIP) introdotti in Gran Bretagna come strumento fondamentale per determinare il valore pubblico dello spettro e incoraggiare un aumento dell’efficienza di uso dello spettro a tutti i suoi utilizzatori. Gli AIP si basano sulla definizione di un prezzo di uso dello spettro in base al costo opportunità sottostante. In altre parole, si effettua un calcolo su quale dovrebbe essere l’alternativa next best se quel particolare spettro non fosse disponibile. Questo costo opportunità è calcolato come la variazione dei costi degli input che verrebbero sostenuti qualora ad un utilizzatore dello spettro venisse negato l’accesso ad una piccola frazione di spettro. Tali costi addizionali dipendono dal tipo di applicazione e tecnologia utilizzata e sono valutati come il costo minimo stimato delle possibili alternative di uso da parte dell’utilizzatore dello spettro.
I livelli di prezzo determinerebbero così un segnale circa il valore della risorsa e garantirebbero una migliore allocazione e utilizzo della frequenza in base a considerazioni di mercato: se l’AIP di una frequenza è considerato troppo elevato, chi detiene la risorsa potrebbe essere indotto a rilasciare le frequenze; tali frequenze potranno così essere rimesse nel mercato e attribuite a chi è in grado di utilizzarle in modo più efficiente e quindi presumibilmente a chi è disposto a pagare di più. Gli AIP sono uno strumento quindi che tende ad attribuire un valore vicino a quello di mercato per l’uso di una risorsa scarsa ed è oggi molto utilizzato in Gran Bretagna per la definizione di prezzi incentivanti per l’uso di spettro non allocato tramite sistemi d’asta.
Gli interventi (di mercato e non) volti a definire un valore economico per lo spettro sono non solo importanti ma soprattutto auspicabili anche in ragione degli ingenti valori finanziari in gioco: si consideri che l’Ofcom, nel suo Spectrum Framework Review (2005), ha pianificato di mettere all’asta nei prossimi quattro anni 277 MHz (fino a 2690 MHz), unitamente a 112 MHz derivati dallo switchover televisivo dall’analogico al digitale, per un totale di 389 MHz. Secondo Cave (2005, Independent Audit of Spectrum Holdings, London), l’assegnazione tramite asta di queste frequenze garantirebbe al governo inglese circa £4,1 miliardi di sterline nei prossimi 4 anni, circa £1 miliardo l’anno. Se a questi valori si aggiungono gli introiti che già oggi il governo inglese percepisce con l’imposizione di prezzi incentivanti sull’uso delle frequenze utilizzate dal Ministero della Difesa e dagli operatori TV, si può stimare che il cash flow annuo generabile da una migliore uso dello spettro (attraverso prezzi incentivati e meccanismi d’asta) è pari circa a £1,55 miliardi per anno, ossia circa 2 miliardi di , una cifra considerevole per le politiche economiche di qualunque governo e, soprattutto, per i relativi bilanci di cassa.
Certo, l’implementazione di regole di mercato e prezzi incentivanti richiede del tempo, ma anche solo la volontà di portare avanti un processo di riordino e razionalizzazione dello spettro per attribuirne anche un adeguato valore economico sarebbe di assoluta importanza in un contesto in cui per anni questa risorsa è stata sostanzialmente dimenticata.
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Per un’analisi più estesa sui meccanismi di gestione dello spettro frequenziale si rimanda a
C. Cambini, A. Sassano e T. Valletti (2007), Le concessioni sullo spettro delle frequenze, in U. Mattei, in E. Reviglio e S. Rodotà (a cura di), Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Il Mulino, Bologna.