Su quanto “sgangherata” sia questa anti-riforma di autonomia differenziata lo dicono i fatti prima di autorevoli costituzionalisti (Zagrebelsky, Cassese, Ainis pur con toni diversi). Autonomia Differenziata che si potrebbe anche fare sapendo dove ci porta e purchè incardinata per via legislativa alla definizione di specifici e ben definiti LEP (livelli essenziali delle prestazioni) che garantiscano uniformità presente e convergenza futura e dimostrino di superare le scandalose iniquità del divario regionale attuale, stampate da decenni nelle dolorose migrazioni per sanità, studio e lavoro. Ma la domanda è: serve? Basterebbe seguire quanto si fa già in Europa: (A) definire standard uniformi per spingere verso la riduzione delle diseguaglianze per la “Grande Convergenza tra Paesi “, mettendo ordine innanzitutto nel caos burocratico-normativo, giurisprudenziale, normativo-disciplinare accumulato in oltre mezzo secolo senza aver mai razionalizzato nè semplificato; (B) partendo – per definire i LEP – dagli esiti delle politiche pubbliche in primis dai livelli di povertà, sanitari, educativi, gender, infantili, di vulnerabilità (dove siamo stati bacchettati dalla Commissione UE negli ultimi mesi e anni) con un report comparativo annuale sulle prestazioni regionali per fotografare criticità e soluzioni possibili.(C) Definendo un quadro di indicatori di qualità da applicare ad un gruppo di “Regioni/Comuni pilota” che la UE già offre e potrebbe essere utilizzato per fotografare scostamenti di qualità ed efficacia delle prestazioni offerte per migliorarle verso superiore omogeneità che è il cuore di una cittadinanza attiva non riducibile alla negoziazione contrattata di risorse tra Nord e Sud distorte peraltro da asimmetrie politiche tra amministrazioni di destra e sinistra. (D) Analisi e calcoli da affidare ad una Agenzia Indipendente, magari nominata dal Presidente della Repubblica che duri in carica 7 anni e sottratta ad influenze politico-ideologiche.
Dunque strumenti e azioni di “allineamento” inter-regionale/intra-regionale per produrre una integrazione dinamica (“e non disintegrazione del già disintegrato”) per omogeneità convergenti nella pluralità per fare system building interregionale tra più regioni entro confini macro-regionali.
In primo luogo, perché in un mondo globalizzato conta la forza sistemica di territori integrati e uniti proprio nella loro diversità plurale e ricchezza differenziata. Territori che cooperano localmente per competere globalmente – non tra loro ma – verso competitors globali come USA e Cina, oltre che “contare” di più in Europa, cosa che non può fare ogni regione in solitudine, nemmeno le più ricche e forti, visto il gioco allargato che è intervenuto negli ultimi 50 anni (nelle strategie commerciali, sulle frontiere tecnologiche, nelle competenze estese, ecc.) .
In secondo luogo, per la posizione geo-strategica che fa dell’Italia più un’isola che una penisola nel mezzo di un “lago semi-chiuso” Mediterraneo che fa da ponte logistico, economico e culturale tra est e ovest, e tra Nord e Sud, come dice Lucio Caracciolo. Unico paese fondatore dell’Europa mediterranea non bagnata da acque atlantiche. Dunque in una posizione geo-strategica fondamentale che connette Colonne d’Ercole a ovest e Mar Rosso a est nel mezzo delle grandi linee di navigazione che consentono di tagliare la circumnavigazione dell’Africa che costerebbe al pianeta 8-10 gg in più per ogni viaggio come mostrano i tragici war games attuali e le minacce Houti dalla Porta dello Yemen robotizzata dall’Iran.
Per questo e in terzo luogo, anche se non siamo (ancora) un paese marittimo nonostante gli oltre 8mila km di coste appoggiate nel cuore del Mediterraneo come una portaerei terrestre prima o dopo dovremo diventarlo, perché non dimentichiamolo mai che siamo un paese manifatturiero, agro-industriale e turistico-culturale insieme: le merci e le persone viaggiano (e viaggeranno ancora) su navi innanzitutto e poi anche su treni oltre che su gomma. Dunque a tutti coloro che si sciacquano la mente con il Made in Italy diciamo che questo non si fa con la somma di 20 Made-in-Italy Regionali ma con la coesione integrata della pluralità e diversità di queste regioni integrandone i loro portafogli produttivi e commerciali locali/ multi- locali (dal food al turismo, dalla casa alla cantieristica, dall’arredo al calzaturiero all’abbigliamento, dall’high tech alla cultura materiale), come ricchezza e opportunità, come fonte di creatività e innovazione sociale tanto più potente quanto più condivisa territorialmente e sistematizzata in un quadro di politica industriale (di breve e medio-lungo termine) di cui non vediamo traccia alcuna ( se non con divieti come la carne coltivata) e imposta dalle traiettorie di di convergenza tra digitale e sostenibilità.
Ciò significa unità nelle diversità delle loro reti produttive e commerciali che saranno valorizzate se produrremo l’integrazione delle infrastrutture (macro-regionali e nazionali integrate nell’Europa allargata anche ai paesi dell’Est, Ucraina compresa) trasportistiche, energetiche, educative e sanitarie, ambientali (così come di sicurezza, difesa e commercio estero) che non possono essere “affettate e delegate” alle regioni ormai troppo piccole per governare tali complessità e realizzare capacità di resilienza diffusa. Per evitare l’esplosione di duplicazioni, inefficienze, burocratizzazione (ma anche carenza di competenze) già pesanti in un paese come l’Italia dove il “regionalismo” ha fallito, a Nord e a Sud e dove ora ci si vuole mettere “una toppa”…( “che se peso del buso come i dise a venesia“) come nel disastro sanitario di un universalismo assistenziale sempre più “monco” (da privatizzazione) e degli annunci (come per gli Ospedali di Comunità, “idea preziosa” per una medicina di prossimità se dotata di risorse umane , finanziarie e tecnologiche che però non si vedono). Essendosi accresciute tutte le diseguaglianze territoriali che conosciamo: educative, sanitarie infrastrutturali e ambientali che ne bloccano la crescita (produttività) da oltre 30 anni. Per i bassi e insufficienti investimenti in ricerca e sviluppo, il calante sviluppo del numero di imprese e relativo tasso di imprenditorializzazione, per i bassissimi tassi di attività femminile e giovanile, per i tragici dati sui NEET (tra gli ultimi Europa) e per i “dannati” dati sull’evasione fiscale usati come leva di campagna elettorale con le tasse viste come “pizzo”(saldando no tax e no vax con no science e no pax). Non siamo più la “palestra imprenditoriale” degli anni 60 e 70 del secolo scorso in condizioni di produttività calante spinta dalla fragilità delle sue infrastrutture (fisiche e digitali, educative e formative, sanitarie ed economiche).
Dunque un paese che può ripartire e riformarsi se saprà unirsi e non dividersi in 20 staterelli inconsistenti e ininfluenti. Ecco perché dovremmo invece pensare ad andare in una direzione fortemente ” ricompositiva” (senza essere centralistica) del tessuto economico-territoriale e culturale del paese con macro-regioni e non micro-regioni che “chiuse nelle loro mura medioevali” rischiano di diventare nano-regioni, visto il calo demografico e d’imprenditorialità, i bassissimi tassi di attività femminile e giovanile e l’assenza di politiche familiari serie (nidi solo per il 25% della popolazione di nati 1-3 anni in media nazionale e al sud anche meno) e di integrazione migratoria accogliente e formativa per essere trasferita nei mercati del lavoro con efficacia vista la domanda urgente delle imprese (magari con un salario minimo ” umano e civile”). Definendo in questo modo una cornice federalista compatibile e complementare al contesto europeo emergente che dovremo provare a rafforzare con le elezioni prossime trasformando l’Europa in una Federazione forte con una difesa autonoma (+ NATO) e una politica estera (e dunque commerciale) comuni qualunque sia l’esito delle elezioni americane, ancora una volta unendo e non frammentando come vogliono gli autocrati interni ed esterni all’Unione Europea che ne attendono la disintegrazione. Infatti è paradossale che i “nostri nazionalisti-sovranisti” siano tra i fautori di questa “autonomia differenziata”, isolazionista e auto-sufficiente nonostante e anche attraverso i fondi PNRR.
Si va in Europa con il Sud e non contro il Sud attraverso un “avventurismo ideologico senza visione”. Il civismo federalista europeo delle macro-regioni è allora l’antidoto: economico, storico e culturale, certamente etico e spirituale. Un testamento da consegnare alle nuove generazioni…per trattenerle e dando loro un futuro in una società democratica accogliente e sostenibile, aperta e solidale. Unendo la politica di macro-territori regionali per una cittadinanza dei diritti e dell’accesso attraverso un Civismo Europeista per un “risveglio di tutti i sud” – perché tutti siamo figli di un qualche sud e proveniamo da un qualche Nord – senza i quali rimarremo fermi nella migliore delle ipotesi.