Salvatore Sechi nel suo editoriale a chiusura del primo tomo Hermes, dedicato alla geopolitica, del dodicesimo fascicolo di Democrazia futura traccia un quadro della situazione politica internazionale a due anni esatti dalla invasione russa dell’Ucraina e a quattro mesi e mezzo dall’attacco sanguinario di Hamas che ha dato vita ad un secondo conflitto in Medio Oriente con segnali pericolosi di rischi di estensione in tutta l’area. “Purtroppo c’è una grande resistenza a renderci conto che il sistema democratico è sotto attacco, e arretra, su scala planetaria ormai – sottolinea lo storico sardo – Non solo da parte di chi non l’ha mai amato, e anzi l’ha sempre osteggiato come Russia e Cina, ma anche al proprio interno, a cominciare dagli Stati Uniti”.
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Il desiderio ansioso di stabilità in cui si muovono i governi dell’occidente è la metafora di una finta pace. In realtà si vive in un clima di guerra non dichiarata, ormai sull’uscio di casa. Ci si illude tortuosamente che non sia imminente.
Ma ormai i segnali non sono ambigui.
Dagli Stati Uniti non scatta più un baluardo di solidarietà nei confronti della vecchia Europa piagnona e periclitante. Washington è impegnata in due guerre che si annunciano lunghe e dispendiose. Da una parte il sostegno all’Ucraina che sta soccombendo sotto l’attacco massiccio di Mosca. Non si vede come potrebbe Kiev far fronte alla nuova e più efficace strategia militare (con armi di intercettazione e distruzione ancora più micidiali) e con la quasi impossibilità di sostituire con nuove e più addestrate unità di combattimento i vecchi reparti logorati da oltre un anno di spietata guerra.
Dall’altra il fronte aperto in Medio Oriente con un alleato sempre più riottoso e ostile come il premier israeliano Benjamin Netanyahu. La difficoltà di distinguere tra la barbarie terroristica di Hamas dal popolo palestinese ha come esito un vero e proprio genocidio.
La tentazione di praticare l’isolazionismo è più forte della volontà di dichiararlo. Per i repubblicani è un vecchio, inossidabile rifugio. Per Biden è il risultato dei fallimenti registrati in continuazione dal coraggioso e paziente segretario di Stato Antony Blinken.
Putin sta a guardare ormai sicuro che, grazie alla Cina, all’India e alle monarchie arabe, il suo isolamento sia, se non finito, contenuto. Non si spiegherebbe senza questo d’animo la sfida – di uno spessore criminale finora inedito – lanciata al mondo con l’assassinio del suo maggiore e più eroico oppositore Aleksej Naval’nyj.
Questa crudele spudoratezza ha dietro di sé un evento recente che si tende a sottovalutare o tacere. Mi riferisco all’arma anti-satellite segreta che da Washington il Pentagono ha accreditato come la raggiunta possibilità dei russi di usare l’energia atomica come arma anti-satellite, e per uno scopo non difensivo. Da Mosca si sarebbe realizzato per la prima volta nella storia il superamento della linea rossa spaziale che permette di portare in orbita le armi nucleari, e per scopi offensivi.
Il lancio nello spazio, il 9 febbraio, della navicella Soyuz con un tale carico nucleare ‘top secret’, trova gli Stati Uniti incapaci di fronteggiare un tale attacco. In realtà ad essere rovesciato radicalmente è l’intero sistema degli equilibri e dei rapporti di forza tra Russia, Stati Uniti e la catena dei rispettivi alleati.
A saltare in aria, come un torsolo, sarebbe il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967, che vieta lo stazionamento nello spazio di mezzi di distruzione di massa.
Mike Turner, il repubblicano che presiede la commissione di intelligence della Camera degli Stati Uniti, il 21 febbraio ha lanciato l’allarme sulla “seria minaccia alla sicurezza nazionale”, chiedendo a Biden di condividere i dettagli di questo pericolo col Congresso e con i Paesi alleati.
Questi ultimi hanno appena avviato una discussione non facile e non breve sulla creazione di un organo dell’Unione europea per la difesa comune.
Come si potrà dopo le elezioni europee dare vita allo ‘zar Per la Difesa’, cioè un Commissario che si occupi dei problemi della sicurezza e della economia di guerra, quando l’Europa non è stata in grado di fornire all’Ucraina le munizioni sul fronte e gli altri elementi di un sistema di aiuti da emergenza bellica che aveva annunciato fin da subito come una realtà?
Tant’è vero che Zelen’skyj sta facendo il giro delle capitali europee (a cominciare da Parigi e Londra) per accordi bilaterali di cooperazione. Si cerca in questo modo di rimediare – come ha precisato la Germania – alle deficienze dei Paesi che intendono ridimensionare gli aiuti a Kiev.
Come emerge dal recente studio dell’European Council on Foreign Relations, gli europei non amano un appeasement con Putin, ma sono dominati dallo scetticismo sulla possibilità che l’Ucraina la spunti sulla Russia. Se alle elezioni negli Stati Uniti vincesse Trump e rivedesse l’attuale sostegno all’Ucraina, non possono esserci dubbi che i Paesi europei lo seguirebbero. Che cosa potrebbero fare di diverso dal momento che l’Europa deve ancora dotarsi di una produzione industriale e di una strategia idonea a combattere una guerra contro la minaccia totale lanciata da Putin?
Il ministro degli esteri lituano, Gabrielius Landsbergis è stato esplicito:
“Non possiamo avere mezze misure. Se l’Ucraina cade, noi saremo i prossimi, Putin non ha intenzione di fermarsi e non saremo in grado di fermarlo”.
Non sarà in prima linea il governo italiano.
Il vice premier Matteo Salvini ha ribadito fino all’impudenza il tipo di legami che lo tiene avvinto alla rete Gulag putiniana. Il premier Giorgia Meloni deve ancora spiegare come fa ad essere una inesausta sodale dell’ungherese Viktor Orbán dal momento che “egli è la voce di Putin in Europa”, come ha detto il leader del Partito Popolare Europeo, il bavarese Manfred Weber.
Insieme al problema della difesa europea, della battaglia per un regime fiscale comune, l’Italia è esposta sul piano della stabilità dell’Esecutivo. Il progetto di riforma (il cosiddetto premierato) cerca di giustapporre obiettivi inconciliabili come quelli della Lega e di Forza Italia sull’elezione diretta del Primo Ministro.
E’ ancora irrisolto il nodo del sistema elettorale.
Meloni non ha finora dato segni – anche per il conservatorismo costituzionale oltranzista di Elly Schlein – di voler aprire un dialogo con la minoranza riformista della sinistra per l’elezione diretta del premier. Anche per evitare il referendum e coinvolgere nel dialogo col governo forze diverse dalla sua ibrida e confusa maggioranza, come ha proposto Michele Salvati in un bell’intervento su Il Foglio.
Purtroppo c’è una grande resistenza a renderci conto che il sistema democratico è sotto attacco, e arretra, su scala planetaria ormai. Non solo da parte di chi non l’ha mai amato, e anzi l’ha sempre osteggiato come Russia e Cina, ma anche al proprio interno, a cominciare dagli Stati Uniti.
Il settimanale inglese The Economist ha curato l’edizione 2023 del Democracy Index. Il risultato è che la democrazia nel mondo non gode di buona salute. Solo il 7,8 per cento della popolazione mondiale (rispetto al 12,3 per cento del 2010) vive in regimi “pienamente democratici” (sono quelli del Nord Europa caratterizzati da redditi pro capite elevati e da dimensioni territoriali relativamente ridotte).
Le famiglie delle “democrazie imperfette” occupano il 37,6 per cento della popolazione mondiale. L’Italia vi figura insieme agli Stati Uniti. Risulta, invece, in aumento la quota degli abitanti che vivono in regimi autoritari (39,4 per cento) o regimi cosiddetti ibridi (15,2 per cento). Sono il 54,6 per cento
Dunque la porta si è fatta sempre più stretta.