Pubblicata a Francoforte sul Meno nel 1970 dall’editore Suhrkamp, tradotta nel 1986 in italiano per i tipi di Einaudi, “La fornace” è oggi riproposta da Adelphi nella traduzione originale di Magda Olivetti. “La fornace[1] descrive un mondo, un paesello, una società, un uomo, una casa, una violenza, una sottomissione, una frustrazione, un’inquietudine, una maledizione – scrive l’autore del pezzo per la rubrica “Riletture” di Democrazia futura aggiungendo: “Ci occupiamo di cose che vanno dall’inferno in giù. E La fornace è un inferno. E, nella fornace, c’è l’inferno. Si sa. E qui ce ne sono due. C’è anche l’inferno dei rapporti umani, l’inferno della solitudine, della fame, della povertà, delle stanze disadorne e senza arredi, ma di una grandezza enorme. E del silenzio”.
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Indebitarsi per comprare l’inferno, ecco cosa ha fatto l’uomo che sta dentro questo libro. Ha distrutto il proprio patrimonio per acquistare una fornace da un parente che lo odia. L’edificio è lontano dal mondo, la sua architettura è il risultato di “millenni di calcoli”, la sua costruzione “è stata studiata mirando all’inganno”. E Konrad vi si trasferisce con la propria moglie invalida. Lei sta su una carrozzella ed è costretta in una stanza, poiché non può fare le scale. Lei vive con un fucile agganciato allo schienale della sedia a rotelle. Ed è costretta a leggere a lui passi di un libro che lui ama e lei odia. E si vendica chiedendo a lui di leggerle un libro che lei ama e lui odia. E, ogni tanto, indossa una vecchia e preziosa camicetta, per il solo piacere di guardarsi. E, la notte di Natale, è stata uccisa a fucilate.
Non leggo più romanzi in cui l’espediente è la morte ma, tempo fa, qualcuno mi ha scritto:
“Se vuoi conoscere Bernhard, leggi Estinzione e La fornace”.
Sono andato in libreria e ho aperto il primo. Non ho neanche letto tre righe: l’ho preso.
Estinzione è una parola che mi piace. È programmatica. È un pronostico facile. Si vince la schedina del totomondo, con la parola estinzione. E io, che sono sfortunato al gioco e fortunato in umore, volevo vincere. E vincerò questa scommessa. Devo solo aspettare o aspettarmi. Intanto, ho vinto la scommessa di Estinzione[2] (perché è un’opera che, se fosse una persona, andremmo a passeggio abbracciati) e forse vincerò anche la scommessa dell’estinzione (perché ci sono uomini che vogliono estinguere gli altri e io faccio parte della schiera disarmata e non violenta, che verrà estinta).
Poi, ho preso in mano La fornace. Non mi fido della parola fornace. Impossibile che un titolo talmente circoscritto descriva un mondo. Che una parola così tecnica mi irrigidisca i muscoli. Non si chiama “L’edificio”, “La costruzione”, o “Il palazzo”. No: la fornace. Come dire “Il posto auto coperto”: chi se lo compra un libro intitolato così? Ho approfondito, quindi. Ho messo le mani nella fornace. L’ho guardata bene. Ho applicato il mio criterio scientifico per la decisione sull’acquisto di un libro. E ho scommesso. E ho vinto anche questa scommessa: la fornace descrive un mondo, un paesello, una società, un uomo, una casa, una violenza, una sottomissione, una frustrazione, un’inquietudine, una maledizione.
Se cominciate a leggere La fornace e vi sentite male, non lamentatevi. Non scrivetemi. Non fatemi perdere tempo: non sono qui per consigliarvi libri delicati e patetici. Morbidi e consolanti.
Io leggo solo libri tagliacuore. Gli altri cercateli nelle botteghe dipinte pastello, gestite da commesse sorridenti e con la vocina tenera. Che, al minimo errore, scatenano il dobermann che c’è in tutti quelli che aspirano alla santità. Io ho fatto le superiori in una scuola che stava a venti metri da un carcere di massima sicurezza. E, per tornare a casa, facevamo l’autostop. L’asterisco noi non lo sappiamo usare.
Ci occupiamo di cose che vanno dall’inferno in giù.
E La fornace è un inferno. E, nella fornace, c’è l’inferno. Si sa. E qui ce ne sono due. C’è anche l’inferno dei rapporti umani, l’inferno della solitudine, della fame, della povertà, delle stanze disadorne e senza arredi, ma di una grandezza enorme. E del silenzio. Ma, al protagonista, quel silenzio non basta, perché ha un progetto: scrivere un saggio sull’udito e per questo si è ritirato in un posto infame. Eppure, ogni tanto – troppo spesso secondo lui – qualcuno bussa alla porta: turisti, gente che s’è persa, il sindaco, l’assessore, i cacciatori, il guardaboschi, il vicino – che poi è lontanissimo, ma è vicino. E interrompono il lavoro di redazione del suo magnifico saggio, che rivoluzionerà tutto ciò che si sa sull’argomento dell’udito, ma di cui non ha ancora scritto una parola. Ce l’ha tutto in testa e, se lo lasciano in pace, comincerà a scrivere. Ma solo se lo lasciano in pace. E visto che in pace non è, ciò che gli esce è un lunghissimo monologo che a voi sembrerà una relazione intima e precisissima su come ci s’invortica in una mania ossessiva che conduce infallibilmente alla pazzia. Pazzia che si delinea chiaramente mentre leggete alcuni passi come:
“I rapporti che, come tu sai, non hanno nulla a che vedere con il rapporto, ma che stanno nel più delicato dei rapporti con i rapporti del rapporto che non ha nulla a che vedere con il rapporto”.
Questo è pazzo, penserete voi. Il protagonista e pure lo scrittore, certamente, è uno squilibrato. E lo penserete nonostante nel testo si trovi questa riga:
“Non poteva che sembrare un pazzo che scrive, mentre era proprio tutto il contrario di un pazzo”.
Eppure, non riuscirete a gettare via il libro. Neanche a reimpacchettarlo e regalarlo a qualche intellettuale amico vostro. Perché quella pazzia la volete conoscere. Vi repelle all’inizio, ma più tardi la vorrete conoscere. Vi ci troverete anche della vostra, di pazzia. Perché un po’ ne avete. Lo dimostra il fatto che una volta vi siete presi un amante perfido che vi ha fatto male – non del male, ma male. O un’amante egoista che vi ha fatto del male e che voleva che le faceste male. Voi siete state e siete stati al guinzaglio e avete tenuto il guinzaglio e ora volete precipitare nel crepaccio scritto. Che è meno eccitante, ma più preciso. E un libro è il mezzo più semplice: dieci euro e non dovete neanche fare la fatica di cercare qualcosa nel guardaroba. Perciò, avrete sufficiente coraggio per bussare anche voi alla porta della fornace. L’uomo che aprirà è uno che ragiona come segue:
“Mentre un tempo non mi addentravo indifeso nei pensieri, ora nei pensieri mi addentro completamente indifeso, non protetto, benché armato fino ai denti, completamente disarmato, mentre un tempo nei pensieri mi addentravo completamente disarmato, non indifeso”.
Egli è pazzo. Sicuro. E vi odierà, perché avete bussato e avete disturbato. Ma, in virtù di un’inspiegabile cortesia, vi offrirà qualcosa da bere, mentre aspetta solo che ve ne andiate.
Non pensiate di farmi appunti su ciò che ho scritto: forse ci sono imprecisioni, ma accade perché scrivo sempre a distanza. Leggo e, molto dopo, scrivo. Tutto il tempo che passa fa sì che io perda i dettagli, sbagli i verbi, comprima i sostantivi ma, al contempo, fa un’altra cosa: filtra il superfluo, lascia scorrere sul fondo il nucleo dell’opera. Se ci sono errori, che importa? Nel libro non c’è una trama e non c’è un finale (come peraltro prescrisse Čechov)? Che importa, visto che Konrad ha dichiarato che chiunque si dedichi alla scrittura rischia di fallire?
Vi ho rattristato? Che importa. Volevate una favola? Oggi, niente. Il giorno in cui a Bernhard fu consegnato il premio letterario della città di Brema, disse al pubblico:
“Vivere senza favole è più difficile, perciò è così difficile vivere nel ventesimo secolo; ormai ci limitiamo a esistere; noi non viviamo, nessuno vive più; ma è bello, nel ventesimo secolo, esistere; tirare avanti; avanti dove? Io non vengo da una favola, lo so, né vado verso una favola”.
[1] Thomas Bernhard, Das Kalkwerk, Frankfurt-am-Main, Suhrkamp, 1986, 1970, 269 p. Traduzione italiana di Magda Olivetti: La fornace, Torino, Einaudi, 1984, 212 p. Oggi, Milano, Adelphi, 2022, 225 p.
[2] Thomas Bernhard, Auslöschung : ein Zerfall, Frankurt am Main, Suhrkamp, 1986, 650 p. Traduzione italiana di Andreina Lavagetto: Estinzione. Uno sfacelo, Milano, Adelphi, 1996, 493 p.