Giampiero Gramaglia nel suo articolo “Lo stallo non frena i morti e protrae i due conflitti[1]“, osserva come “Dopo il conflitto in Ucraina, anche quello tra Israele e Hamas dà l’impressione di evolvere verso una guerra di attrito: il numero delle vittime al giorno diminuisce, anche se resta altissimo e se vi sono episodi estremamente cruenti”. Ma lo stallo, a Gaza, come in Ucraina, non è una buona notizia – aggiunge l’ex direttore dell’Ansa -: significa il protrarsi dei conflitti, e uno stillicidio di morti e di sofferenze, senza iniziative diplomatiche con prospettive di pace concrete. E, specie in Medio Oriente, lo stallo s’accompagna all’accendersi, tutto intorno, di focolai di tensione e di rischi d’escalation, non solo in Cisgiordania e ai confini tra Libano e Israele, ma anche nel Mar Rosso e nello Yemen, in Siria e in Iraq, tra Iran e Pakistan”.
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Dopo il conflitto in Ucraina, anche quello tra Israele e Hamas dà l’impressione di evolvere verso una guerra di attrito: il numero delle vittime al giorno diminuisce, anche se resta altissimo e se vi sono episodi estremamente cruenti.
A 110 giorni dallo scoppio delle ostilità, innescate il 7 ottobre dai raid terroristici di Hamas e di altre milizie in territorio israeliano – 1200 vittime e oltre 250 ostaggi catturati -, i morti palestinesi hanno superato i 25 mila.
Nella Striscia di Gaza, dice l’Onu, la fame avanza “a una velocità incredibile”: “una grande maggioranza” dei palestinesi assediati, soprattutto donne e bambini, “non ha cibo a sufficienza”; e non è chiaro se gli aiuti umanitari, viveri e medicinali, raggiungano chi ne ha bisogno.
Ma lo stallo, a Gaza, come in Ucraina, non è una buona notizia: significa il protrarsi dei conflitti, e uno stillicidio di morti e di sofferenze, senza iniziative diplomatiche con prospettive di pace concrete. E, specie in Medio Oriente, lo stallo s’accompagna all’accendersi, tutto intorno, di focolai di tensione e di rischi d’escalation, non solo in Cisgiordania e ai confini tra Libano e Israele, ma anche nel Mar Rosso e nello Yemen, in Siria e in Iraq, tra Iran e Pakistan.
Da metà gennaio 2024, le punture di spillo si sono susseguite quasi ogni giorno: attacchi degli Huthi dallo Yemen a navi in navigazione nel Mar Rosso; raid anglo-americani su postazioni degli Huthi; provocazioni contro basi statunitensi in Siria e Iraq e risposte; la reazione del Pakistan a un bombardamento dell’Iran in Belucistan, dopo un attentato in Iran firmato Isis. Azioni che – scrive Nathalie Tocci[2], direttore dell’Istituto Affari Internazionali – prendono di mira i sintomi dei problemi e non le cause: ad esempio,
“Se ci fosse un cessate-il-fuoco a Gaza, gli attacchi degli Huthi diminuirebbero drasticamente”.
Ma gli Stati Uniti d’America non riescono a moderare Israele e l’Europa è divisa e non ha un piano che blocchi la spirale di violenze, nella settimana in cui la ricorrenza della Giornata della Memoria acuisce l’attenzione sui rischi di anti-semitismo.
Un altro fronte di alta tensione geo-politica è quello sul futuro della Striscia, che divide sempre più il premier israeliano Bibi Netanyahu dal presidente americano Joe Biden, per il no netto ad ogni scenario di Stato palestinese nel dopo guerra.
Incoraggiato dall’andamento delle primarie negli Stati Uniti – Donald Trump ha vinto anche il New Hampshire, dopo lo Iowa -, Netanyahu punta a non cedere fino all’avvicendamento alla Casa Bianca, se mai ci sarà il 5 novembre. Ma, in realtà, lui non è affatto sicuro di arrivarci, perché il suo governo traballa e nuove elezioni gli sarebbero probabilmente fatali.
Secondo informazioni del New York Times, smentite dalle fonti ufficiali, comandanti israeliani ammettono che i due principali obiettivi del governo nel conflitto sono incompatibili: eradicare Hamas da Gaza e liberare gli ostaggi. Perseguire il primo comporta una guerra di lunga durata, che probabilmente costerebbe la vita agli ostaggi.
Contestualmente, il Wall Street Journal scrive, citando stime dell’intelligence statunitense, che l’esercito israeliano ha eliminato solo il 20-30 per cento dei combattenti di Hamas, che disporrebbero ancora di munizioni a sufficienza per continuare a colpire Israele e le forze israeliane per mesi e che starebbero cercando di riorganizzarsi in alcune parti di Gaza City.
Gli sviluppi militari e politici del conflitto
La cronaca della guerra di Israele e Hamas è discontinua, fatta di notizie talora contraddittorie. Così, la giornata del 22 gennaio 2024 ha visto il singolo episodio più cruento per le forze israeliane, con l’uccisione di 24 soldati riservisti che stavano preparando esplosivi per demolire edifici nel centro di Gaza City. Un militante di Hamas ha tirato una granata contro un carro armato lì nei pressi: l’esplosione che ne è conseguita ha innescato crolli e provocato la strage. Il totale dei militari israeliani caduti s’aggira, ormai, sui 220.
Nella stessa giornata, l’esercito israeliano ha ripreso l’offensiva su Gaza City, a Nord della Striscia, dove, secondo gli analisti, Hamas si sarebbe parzialmente reinsediata dopo lo spostamento dell’azione a Sud. E i militari israeliani hanno pure annunciato di avere circondato con unità di terra la seconda città della Striscia, Khan Younis, dopo furibondi combattimenti in cui sono stati uccisi centinaia di palestinesi. La popolazione è stata invitata a spostarsi ancora più a Sud, verso il valico di Rafah con l’Egitto.
Il pesante bilancio per i militari israeliani dell’attacco – incidente del 22 gennaio aumenta le sollecitazioni su Israele e in Israele per una pausa, o uno stop, nell’offensiva: il numero delle perdite subite e l’imperativo di liberare gli ostaggi, che sarebbero circa 130, sono fattori che inducono a una tregua. Ma questa non sembra l’intenzione del governo, nonostante l’irruzione nella Knesset compiuta lo stesso giorno da familiari dei rapiti. Dopo la settimana di tregua di fine novembre, durante la quale oltre un centinaio di ostaggi erano stati liberati, in cambio di tre volte tanti detenuti palestinesi usciti dalle carceri israeliane, nessuna delle persone sequestrate ha più fatto ritorno a casa.
L’indomani 23 gennaio Hamas ha respinto la proposta israeliana di un cessate-il-fuoco fino a due mesi, in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi (e dell’uscita dalla Striscia di capi di Hamas che organizzarono i raid del 7 ottobre). I fondamentalisti sono convinti che Israele a un certo punto negozierà: deve cessare l’offensiva e lasciare la Striscia, se vuole che gli ostaggi ritornino a casa. Il quotidiano Haaretz riferisce la drammatica la testimonianza di Aviva Siegel, rapita il 7 ottobre e liberata a novembre:
“Uomini e donne subiscono violenze. I terroristi fanno delle ragazze le loro bambole”.
Netanyahu alle strette sul fronte interno
Il premier Netanyahu è sempre più alle strette sul fronte interno.
La gestione della guerra scontenta gli avversari politici e le famiglie degli ostaggi, che, da domenica, hanno montato le tende di fronte alla sua residenza a Gerusalemme, per contestargli il rifiuto di un accordo con Hamas. Netanyahu respinge le critiche, attribuendo ad Hamas la colpa del mancato ritorno degli ostaggi, mentre Israele ha elaborato una propria “iniziativa”, cioè la proposta di tregua di due mesi in cambio del rilascio degli ostaggi.
Sul piano politico, l’opposizione insiste per nuove elezioni, che Netanyahu non vuole perché potrebbero segnare la sua fine – molti israeliani gli contestano pure l’impreparazione agli attacchi del 7 ottobre2023 – . “Sediamoci e fissiamo una data” propone al premier Yair Lapid, secondo cui il voto è inevitabile:
“Alla fine le elezioni ci saranno in ogni caso”.
E Ben Gvir, ministro dell’ultra destra radicale, avvisa Netanyahu:
“Se finisce la guerra. il governò cadrà”.
Sul piano diplomatico, gli Stati Uniti restano attivi, in contatto con Egitto e Qatar, nonostante l’andamento burrascoso delle telefonate tra Netanyahu e Biden. Il ministro degli Esteri israeliano Alex Katz fa una comparsata disastrosa al Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Unione europea, dove propone la creazione di un’isola artificiale dove trasferire i palestinesi di Gaza e la realizzazione d’una linea ferroviaria da Israele all’India allo stesso scopo, suscitando il gelo in sala.
Josep Borrell, il capo della diplomazia europea, commenta:
“Ci ha fatto vedere due video che non c’entravano niente”;
e indica la strada verso la soluzione dei due Stati, conferenza di pace e riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente.
Medio Oriente: la guerra a pezzi
L’espressione di Papa Francesco di una “guerra mondiale a pezzi” si attaglia a pieno a quanto sta avvenendo in Medio Oriente. Israele attacca nel Sud del Libano per rispondere ai razzi di Hezbollah e colpisce anche in Siria: un missile raggiunge un palazzo di Damasco uccidendo quattro consiglieri militari iraniani (o agenti dell’intelligence, a seconda delle fonti) e almeno altre sei persone.
Teheran accusa Tel Aviv, che non rivendica mai i bombardamenti all’estero, e minaccia reazioni.
E, come già detto, Stati Uniti e Gran Bretagna bombardano nello Yemen postazioni degli Huthi, che, a loro volta, prendono di mira cargo ship in navigazione nel Mar Rosso.
E ci sono i colpi incrociati, ma forse coordinati, di Pakistan e Iran sul Belucistan, dove sono presenti gruppi islamisti sunniti invisi a entrambi i regimi.
Sembra intanto precisarsi il quadro di una missione europea nel Mar Rosso, cui l’Italia parteciperà. Si chiamerà Aspis e sarà “essenzialmente difensiva” – parole della premier Giorgia Meloni -, distinta quindi dalla Prosperity Guardian anglo-americana, che non si limita a intercettare droni e missili degli Huthi, ma ne bombarda le postazioni in territorio yemenita. Restano, però, da definire le regole d’ingaggio della missione.
Il commissario europeo Valdis Dombrovskis quantificato il problema dal punto di vista economico: tra il 25 e il 30 per cento dei container mondiali passano attraverso il Mar Rosso e in questo mese il traffico è diminuito del 22 per cento.
“Per ora – dice – non ci sono impatti visibili sui prezzi energetici, o di beni, ma vediamo già effetti sui prezzi dei trasporti: maggiori impatti dipendono dalla durata della crisi”.
Nato più larga e più prodiga di munizioni tranquillizza i Paesi Baltici
In Ucraina, la guerra d’inverno si riduce a cronache notturne di raid, droni e missili. Kiel è sul chi vive, preoccupata che la ripresa delle ostilità la colga a corto di armi e munizioni. Mosca è sorniona: il presidente russo Vladimir Putin, come Netanyahu, attende di vedere se Trump ritornerà o meno alla Casa Bianca. E, contrariamente a Netanyahu, lui è sicuro di esserci, nonostante le presidenziali in Russia del 17 marzo – una formalità -.
Dopo 20 mesi di traccheggi, la Nato brinda al via libera della Turchia all’ingresso della Svezia, ora appeso solo alle riserve dell’Ungheria. Con la Finlandia già dentro l’Alleanza, la Nato si rafforza sul fronte nordico, per prevenire e dissuadere eventuali intenzioni aggressive russe. Anche se c’è sempre qualche voce discorde: il premier slovacco Robert Fico giunge a negare che vi sia la guerra in Ucraina e contende a quello ungherese Viktor Orban il titolo di più filorusso dei 27.
Preoccupazioni in tal senso ci sono, specie da parte dei Pesi Baltici, anche se gli analisti avvertono che un’aggressione russa potrebbe “non avvenire con i carri armati” – le armi dell’informatica possono essere devastanti, senza essere letali -. In una conferenza stampa a Bruxelles, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg si mostra, però, rassicurante:
“Non vediamo alcuna minaccia diretta o imminente contro alcun Paese alleato. Monitoriamo da vicino ciò che fa la Russia, abbiamo aumentato la nostra vigilanza e la nostra presenza nella parte orientale della nostra Alleanza, ma l’idea è quella di prevenire un attacco”.
Un’esercitazione condotta questa settimana è la più grande della Nato degli ultimi decenni: 90 mila gli uomini coinvolti.
”Lo facciamo – spiega Stoltenberg – per essere preparati alle aggressioni ed eliminare ogni spazio per errori di calcolo o incomprensioni con Mosca sulla nostra prontezza”.
Resta però il problema del sostegno all’Ucraina con gli aiuti degli Stati Uniti d’America ancora bloccati in Congresso da beghe interne. Unione europea e Nato varano piani per produrre munizioni di artiglieria destinate a Kiev e per acquistare centinaia di migliaia di proiettili da 155 millimetri per un valore di 1,2 miliardi di dollari (dieci i miliardi già spesi dallo scorso luglio):
“La guerra in Ucraina – dice Stoltenberg – è diventata una battaglia di munizioni”.
[1] Scritto per The Watcher Post, 24 gennaio 2024. Cf. https://www.giampierogramaglia.eu/2024/01/25/guerre-ucraina-israele-hamas/.
[2] Nathalie Tocci, “Red Sea: Time to threat the cause, not the symptom”, Politico, 16 gennaio 2024. Cf. https://www.politico.eu/article/red-sea-houthi-middle-east-gaza-israel-palestine-yemen-europe-us-uk/.