Passato il Santo Natale e iniziato il nuovo anno si torna come sempre a riflettere sulla famiglia e soprattutto ai nostri anziani in condizioni sempre più fragili e non aiutati nemmeno dall’ultima Legge di Bilancio. Perché le nostre società invecchiano – come noto – per denatalità e medicina (e non solo) e i grandi anziani non autosufficienti aumenteranno del 48% entro il 2060 (con forte tensione del sistema pensionistico con 1 anziano su 4 lavoratori nel 2014 e 1 su 2 nel 2060).
Eppure la terza età si “riformula e si riposiziona” dato che età media e speranza di vita avanzano sfuggendo a quella linearità che la marginalizza come un pezzo di vita “improduttiva o inefficiente”. Infatti, il pregiudizio umano più antico, quello verso le persone anziane persiste e – potremmo dire – peggiora e da qui il dibattito sull’ageism.
È altrettanto chiaro che finché la differenza tra giovani e anziani era di 20-30 anni fino a 150-200 anni fa prevalevano rispetto o anche venerazione (pur in un quadro patriarcale), mentre da quando questa è salita a 50-60 e oltre il pregiudizio si è approfondito in forme insidiose nonostante la “ricorsività” del fenomeno, per motivi molteplici – fisici, cognitivi, psicologici, emozionali, comportamentali, ma anche etici ed estetici – non sempre fondati né tantomeno giusti. Come nell’eterno ritorno “forza e debolezza” si confrontano e spesso scontrano, venendo a mancare una etica della responsabilità, con consapevolezza, saggezza, rispetto che dovrebbero unire le generazioni coniugando freschezza e creatività (dei giovani) ad esperienza e visione d’insieme (dei “diversamente giovani”).
Un’alleanza inter-generazionale guidata dalla condivisione delle esperienze di cui le nuove generazioni (adolescenti, teen-agers, millennials) hanno forte bisogno soprattutto in una società sempre più “istruita ma anche virtualizzata” ed erosa nella memoria inchiodata in un eterno presente senza una idea di futuro. Figli di “generazioni digitali senza esperienza” e ora chiusi in bolle illusoriamente (iper)connettive di social a-esperienziali e a-valoriali dove si pattina inconsapevolmente su strati di ghiaccio fragilissimi esposti a crolli e fratture emotive e comportamentali (vedi diffusione patologica di farmaci antidepressivi e/o di droghe tra giovani e giovanissimi ed esplosione dei NEET).
Ecco allora perché “superare” – come suggerito da geriatri ed esperti di terza/quarta età – gli stereotipi di visioni negative dell’anzianità. Anche di quelli che vi ricorrono come repository di attività di baby sitter e/o sostegno di welfare familiare a giovani che studiano-lavorano e poi ritardano l’ingresso nei mercati del lavoro per insostenibili livelli di salario per cost of living eccessivi.
E’ altrettanto chiaro – infatti – che l’ageism non è innato ma lo apprendiamo da stereotipi che si “tramandano” culturalmente comprese le paure ancestrali (di invecchiamento, della malattia e dunque della morte) trasferite poi in avversione e sfiducia verso le persone anziane che poi divengono riflessive.
Certo funzione anche di una società “giovanilista” che fa poco per mantenere gli anziani in attività e coinvolti socialmente costringendoli in un più o meno “volontario isolamento” sottraendo intelligenza e saggezza sociale. Perchè se da una parte la speranza di vita si è allargata (Italia è prima dopo il Giappone), dall’altra non avviene anche per “qualità della vita” soprattutto dei nostri “grandi anziani” (per es. peso dei “cronici gravi” sulla popolazione).
Cosi come avviene per ruoli e aspettative di genere differenziamo quanto avviene per maschi e femmine. I primi si confrontano sul tasso di testosterone o forza sessuale da sostenere eventualmente con le “pillole blu” e trasferendo un’idea di gap del quale vergognarsi come per le rughe o i capelli grigi.
Un incrocio deleterio e depressivo tra ageismo e sessismo espanso da media e marketing irresponsabili (nonostante l’esplosione di prodotti e servizi per la terza o quarta età) che va contrastato per una idea più dinamica e robusta di indipendenza e autonomia e con una visione più “laica” del declinare della potenza sessuale, vissuta in modo più realistico dalle donne meglio in grado di gestire emozioni e modulazioni del desiderio.
Distorsioni spesso figlie di una società dell’immagine dove l’estetica ha il sopravvento sull’etica e dove si continua a promuovere bellezza fisica, forza muscolare e sessuale con modelli per esempio di mascolinità fuori tempo e senza senso e di femminilità con ragazze che ancora giovanissime si consegnano al bisturi del chirurgo plastico per continuare ad essere desiderate anche in contesti a basso valore relazionale, oppure in scivolamento verso le tragedie di bulimia o anoressia.
Nell’illusione di “ritardare l’invecchiamento” con una “scienza della longevità” esplosa con l’epigenetica tentando di sconfiggere l’età cronologica con l’arma biologica e che solo nel 2022 ha acceso investimenti per 5 miliardi di dollari alla conquista dell’eterna giovinezza di quel Dorian Gray che è nascosto in ognuno di noi e afflitto da quell'”orologio epigenetico” che scandisce il degrado dei geni del corpo contrastato con test sempre più popolari.
Anche perché permane una mascolinità spesso troppo immersa in un “giovanilismo vitalistico ossessivo” schiacciato sui ruoli di lavoratore, riproduttore o padre di famiglia e che venendo meno innesca fratture relazionali e cognitive non sostituibili nemmeno da mogli, compagne o amiche premurose e supportive.
Una corrosiva dicotomia psico-sociale polarizzante tra giovani e anziani che sottrae intelligenza emotiva, riduce profondità spirituale e dunque ridimensiona le visioni di un invecchiamento realistico, intenso e dolce da inspessimento relazionale e riflessivo che sa accogliere e includere cambiando lo sguardo spesso troppo incardinato sul passato per continuare ad apprezzare la vita e il futuro con nuovi ruoli e progetti (famiglia, volontariato, viaggi, relazioni, arte, cultura, ecc.).
E lo si può fare diventando consapevoli delle trasformazioni innescate dall’invecchiamento come processo di cambiamento e di crescita e del quale non dobbiamo vergognarci nonostante rughe, capelli bianchi e qualche scarto di memoria, scegliendo cosa ci piace e quali relazioni danno felicità producendo senso pe sé, per la famiglia e/o per la comunità.
Dunque invecchiamento come opportunità sociale e relazionale dove prevalga il dono di sè agli altri oltre che a noi stessi esternalizzando quella esperienzialità accumulata professionalmente, socialmente, culturalmente e umanamente in tanti anni. Perché come dice in continuo Francesco non siamo “scarti” ma “umani” fino all’ ultimo respiro e anche dopo per ciò che consegniamo a tutti coloro che lasciamo e che vivranno con noi per sempre.
Ecco l’uscita dalla “linearità” per entrare nella “circolarità” della vita con forte consapevolezza verso una società più coesa e inclusiva, più solidale in senso inter-generazionale come chiave di valorizzazione dei potenziali inespressi di comunità e sempre più preziosi in mondi incerti, fragili e confusi che possono essere di aiuto ad una democrazia essa stessa sempre più debole e ad un welfare povero e fragile.