Beppe Attene torna con alcune “Considerazioni di un laico sulla tragedia storica che viviamo in Medio Oriente” in un pezzo “Noi, tutti ebrei[1]” cercando di smontare vecchi e nuovi pregiudizi a cominciare dall’idea che Gesù Cristo fosse palestinese: “Tutta la breve vita di Gesù si svolge all’interno del percorso identitario ebraico, a cominciare dai primi dodici anni sotto la guida della madre, sino al Bar Mitzvah (la presentazione al Tempio) dopo cui inizia la predicazione […] Insomma, quando un grande Pontefice si rivolge al Rabbino Capo di Roma e gli dice “Siete i nostri fratelli maggiori” sa esattamente cosa sta facendo”. Per poi rievocare come questa “deformazione storiografica di Gesù, molto più diffusa di quanto non sembri, è molto grave anche sotto un altro aspetto. Essa tende ad attribuire al Popolo Ebraico nella sua totalità una natura pericolosamente tendente al genocidio e, comunque, alla sopraffazione” come avviene quando la polizia zarista pubblica nel 1903 un falso documento I Protocolli dei savi Anziani di Sion che “attribuisce al movimento sionista un segreto progetto di dominio sul mondo. Ovviamente il testo venne largamente utilizzato dai nazisti e, nonostante la sua più volte accertata falsità, viene stampato e diffuso ancora oggi in tutti i Paesi Islamici” – ricorda l’autore, prima di affrontare la questione storica della Palestina e dei palestinesi: “La vittima di questo doloroso cammino è in primo luogo proprio il popolo in nome del quale si sostiene di combattere. I palestinesi non hanno avuto la possibilità di costituirsi in libera Nazione perché i loro presunti alleati lo hanno sistematicamente impedito. Da circa vent’anni si trovano nelle mani di organizzazioni militar terroristiche che, nel nome della distruzione di Israele, rifiutano di riconoscere anche l’Autorità Nazionale Palestinese. Oltre alla assoluta assenza di democrazia quello stesso popolo vive utilizzato come carne da cannone”, osserva Attene per afrontare infine il tema complesso dei rapporti fra “Ebrei e Israele”: “Si può non condividere o addirittura condannare la strategia di Tel Aviv nei confronti della questione palestinese. Non si può e non si deve farne una questione di razza. Gli atti in tal senso stanno invece crescendo – osserva Attene -. Essi, fingendo di avere come obiettivo il Governo Israeliano, colpiscono indiscriminatamente tutti gli Ebrei e tendono a favorire e giustificare aggressioni nei loro confronti. Ciò risulta ancora più paradossale se si considera che così viene dimenticata la natura di unico Paese democratico di quell’area a favore di sistemi autoritari. L’avere frustato a sangue una giovane donna per una foto senza velo è certamente meno importante della guerra, ma forse occorrerebbe chiedersi come mai quella Nazione armata di frusta sostenga e difenda terroristi e assassini che operano in nome dell’Islam”.
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Attorno alla tragica vicenda storica che, ancora una volta, coinvolge il Medio Oriente si va disseminando una sequela di approssimazioni, opinioni in libertà, opinioni teleguidate, fantasticherie innocenti o non.
La densità di questo fiorire non deve stupire. È, purtroppo, un fenomeno ricorrente nei confronti sia del Popolo Ebraico che dello Stato d’Israele.
Le righe che seguono sono un modesto tentativo di porre ordine in questo universo, nutrito oggi ulteriormente dai social.
Per favorire e semplificare eventuali contestazioni mi sono permesso di organizzare le parole per punti. Sarà così più semplice indicare con esattezza cosa non si condivide.
Nell’ultimo punto mi concederò, invece, alcune osservazioni assolutamente personali.
Punto 1. Gesù Cristo era palestinese
Inizio da questo punto che è quello apparentemente meno provocatorio ma più sgradevole ed insultante per i cristiani.
Ricade qui la memoria del Marchese del Grillo, che non paga il falegname Aronne Piperno perché gli Ebrei hanno ucciso Gesù e dunque lui non caccia i soldi. Per fare giustizia, insomma.
A parte l’effetto comico, tuttavia, questa sciocchezza riduce la Crocifissione (con tutto ciò che essa significa per i credenti) a un episodio di un massacro bi – millenario che oggi continuerebbe e verrebbe anzi confermato ed esteso.
Nella realtà dei percorsi storici Gesù non poteva essere Palestinese per il semplice motivo che la Palestina non esisteva, nemmeno in embrione.
Ad avvicinarsi con il giusto rispetto a quel passaggio storico epocale non può sfuggire come tutta la vita e la predicazione di Gesù si collochino all’interno della cultura e della tradizione ebraica.
Non si tratta soltanto della impostazione messianica, costruita attorno alla ferma aspettativa di una conclusione finale del percorso dell’uomo sulla Terra.
L’idea di una palingenesi, basata sul nuovo Avvento, che ristabilisca la Giustizia premiando i buoni è, in quel momento, totalmente e solamente ebraica.
Tutta la breve vita di Gesù si svolge all’interno del percorso identitario ebraico, a cominciare dai primi dodici anni sotto la guida della madre, sino al Bar Mitzvah (la presentazione al Tempio) dopo cui inizia la predicazione.
Né si può dimenticare che per un lungo periodo una parte fondante del Cristianesimo (quello legato a Giacomo) mantenne il culto gerosolimitano con l’intento di non estendere la predicazione ai Gentili.
Fu Paolo di Tarso a introdurre e diffondere la predicazione universale senza riserve di religione o razza.
Insomma, quando un grande Pontefice si rivolge al Rabbino Capo di Roma e gli dice “Siete i nostri fratelli maggiori” sa esattamente cosa sta facendo.
Punto 2. Ebrei nel mondo
La deformazione storiografica di Gesù, molto più diffusa di quanto non sembri, è molto grave anche sotto un altro aspetto.
Essa tende ad attribuire al Popolo Ebraico nella sua totalità una natura pericolosamente tendente al genocidio e, comunque, alla sopraffazione.
Si tratta di un percorso che data da molti secoli.
Trova la sua formalizzazione nel 1903 attraverso la pubblicazione, a cura della polizia dello Zar, di Protocolli dei savi Anziani di Sion.
Il falso documento attribuisce al movimento sionista un segreto progetto di dominio sul mondo.
Ovviamente il testo venne largamente utilizzato dai nazisti e, nonostante la sua più volte accertata falsità, viene stampato e diffuso ancora oggi in tutti i Paesi Islamici.
Siamo di fronte a uno dei passaggi più importanti e insieme più complicati della storia plurimillenaria dell’Ebraismo nel suo rapporto con il mondo non ebraico.
Abbiamo un popolo che, in seguito alla devastazione del Tempio attuata dai Romani nel 70 d.C., vive l’esperienza della diaspora trasferendosi e sparpagliandosi negli altri Paesi.
L’abbandono della Giudea non comporta però un corrispondente abbandono della specifica dimensione religiosa e della organizzazione famigliare e sociale che ne deriva.
Le Comunità Ebraiche si costituiscono e vivono intorno alla Sinagoga che ha un significato e un ruolo maggiori di quello strettamente religioso.
All’interno della Comunità si vive rispettando le regole sia religiose che civili della stessa.
Questa forte affermazione di specificità non comporta tuttavia una contrapposizione e un’estraneità rispetto alle regole del Paese ospitante.
Nonostante momenti di discriminazione e vere e proprie espulsioni (come dalla Spagna nel 1492) l’Ebreo evita di scontrarsi con il mondo esterno al suo.
Del resto, non è interessato a fare del proselitismo nei confronti delle altre fedi religiose. Paradossalmente, come nella esperienza italiana, la edificazione dei ghetti comporta, oltre alla funzione discriminatoria, anche una protettiva che permette alle Comunità di vivere seguendo le regole interne.
Si tratta di una dinamica peculiare.
Si basa fondamentalmente sulla convinzione che il “vero Israele” è soltanto quello che comprende Gerusalemme e il vero Tempio ma che, nello stesso tempo, occorre vivere coscientemente dove si è ospitati diventando cittadini e impegnandosi per il bene comune.
Solo riconoscendo e accettando questa peculiarità si può comprendere come l’Ebraismo abbia fornito valori e contenuti alle culture dei vari Paesi ospitanti.
Ancora, come abbia espresso ovunque una parte rilevante della classe dirigente, delle strutture militari, degli apparati di Stato.
Naturalmente questo spiega anche la presenza in gran parte dell’Europa di forme di antisemitismo nutrite anche da falsificazioni come quella dei Protocolli.
Si fonda ulteriormente sulla idea, diffusa e mai estirpata, che gli Ebrei siano capaci di collaborazioni tra loro che escludono automaticamente i non aderenti alla loro Religione.
Non necessariamente questi atteggiamenti sono sfociati in vere e proprie azioni di carattere antisemita.
Nella maggior parte dei casi l’antisemitismo sembra fermarsi alle battute ironiche, alla diffidenza spesso condita di malcelata invidia.
Naturalmente, però, quando esso viene giustificato e gestito dallo Stato la musica cambia e quella che era parsa una società tutto sommato tollerante si rivela di colpo pronta ad approfittare della situazione per vendicarsi di torti immaginari disponibile ad accettare quella che il nazismo chiamò “soluzione finale”.
Punto 3. La Palestina
I Romani (dopo la conquista, la distruzione del Tempio e l’avvio della diaspora) la chiamarono Palestina.
Il nome ricordava, nella tradizione greca, i Filistei che ne avevano in precedenza occupato una parte rilevante.
Prima di allora, nella tradizione biblica, predominava il nome Canaan.
Oggi la designazione geografica comprende lo Stato d’Israele e i territori sottoposti formalmente alla Autorità Nazionale Palestinese.
Si tratta, nell’insieme, di territori che hanno sempre destato l’attenzione sia delle vicine Nazioni Arabe sia della Gran Bretagna e della Francia.
Ciò in virtù delle peculiarità della posizione geografica.
Per la Gran Bretagna in particolare per l’accesso al Mediterraneo e, contemporaneamente, per una possibile funzione offensiva – difensiva nei riguardi della dominazione inglese sull’India.
Dopo la fine del periodo giudaico la Palestina oscillò, anche con momenti di forte sviluppo, tra il dominio egiziano e quello ottomano che durò sino alla Prima Guerra Mondiale.
Alla caduta dell’Impero ottomano il mandato sulla Palestina fu affidato alla Gran Bretagna, ma naturalmente questa responsabilità (peraltro assai gradita dagli inglesi) non diminuì la pressione sull’area delle circostanti nazioni musulmane.
Ovviamente in questo lunghissimo periodo non venne mai costituito e riconosciuto uno Stato di Palestina. La lingua diffusa fu, ed è, un dialetto arabo – palestinese.
Gli Ebrei non avevano mai rinunciato alla speranza e alla volontà di poter tornare in quella che era stata la loro terra.
Per di più essa, in base al racconto dell’Esodo, era stata loro assegnata dal Signore in un drammatico percorso di riconoscimento reciproco e di sottoscrizione di una Alleanza eterna.
Su questa base si era costituito il movimento sionista che invocava la costituzione di uno Stato d’Israele in Palestina.
Nel 1917 Arthur Balfour, ministro degli esteri britannico, dichiarò che la Gran Bretagna avrebbe promosso la creazione di “un focolare nazionale ebraico” in Palestina.
Nel 1947 l’ONU deliberò a larghissima maggioranza la costituzione in Palestina di due zone separate, araba l’’una, israeliana l’altra.
Gerusalemme sarebbe restata come zona autonoma super partes.
Gli arabi contestarono violentemente la decisione ma David Ben Gurion il 17 maggio 1948 proclamò la fondazione dello Stato di Israele.
Nel frattempo molte migliaia di ebrei si erano già mossi verso la Palestina, generalmente passando per l’Italia.
Taranto e La Spezia erano così diventate le “porte di Sion”.
È di assoluta evidenza come questo straordinario percorso storico sia stato in gran parte frutto della vergogna della intera Europa non soltanto per le leggi razziali ma soprattutto per il progetto di sterminio sistematico e di massa su base razziale che era stato concepito e portato avanti nel cuore del Continente.
È altrettanto vero che non fu, e purtroppo non sarà, l’unico come ben dimostrò l’azione dell’Unione Sovietica nei confronti del popolo ucraino.
Ma l’esaltante momento del possibile ritorno a casa di un popolo condannato sino a poco prima alla forzosa estinzione non è il frutto dei segreti poteri ebraici.
È un breve istante in cui l’Umanità fa credere e sperare di poter perseguire obiettivi di giustizia.
Ma, naturalmente, le cose non potevano essere così semplici e belle.
Le Nazioni Arabe non potevano accettare l’esistenza (così vicino, poi!) dello Stato d’Israele.
A loro volta i governanti israeliani non potevano accettare di gestire e rappresentare una Nazione in cui la maggioranza degli abitanti appartenessero ad un’altra comunità e professassero una differente fede religiosa.
Erano molto lontani i tempi della tolleranza reciproca e, semmai, prevaleva il recente ricordo della Handschar, la divisione di fede islamica delle Waffen SS.
L’equilibrio avrebbe potuto essere raggiunto solo attraverso la costituzione di un vero Stato Palestinese, completamente autonomo da Tel Aviv ma anche sufficientemente autonomo dalle circostanti Nazioni Arabe.
Questa prospettiva di effettiva autonomia e separazione venne accettata da Israele, ma decisamente respinta dall’altra parte.
Iniziò un drammatico cammino che ci conduce sino ad un oggi ancora più preoccupante.
Un cammino composto da guerriglie ed attentati, pieno di tradimenti reciproci sorretti da fortissimi interessi pecuniari.
In esso ogni momento di possibile superamento della conflittualità veniva immediatamente abbattuto ed impossibilitato ad operare.
Chi scrive è stato personalmente presente a uno di questi momenti di distruzione della speranza.
Nel 1983 l’Internazionale Socialista aveva ottenuto la presenza al proprio Congresso (che si svolgeva in Portogallo, ad Albufeira) di Issam Sartawi in rappresentanza dell’OLP.
Vi era molto ottimismo alla luce della sua disponibilità a partecipare e alla funzione di mediazione che l’Internazionale avrebbe potuto svolgere in un dialogo con il Partito Laburista Israeliano.
Sartawi venne ammazzato nella hall dell’albergo che ci ospitava.
Il suo assassino si chiamava Yousef Al Awad e il delitto venne rivendicato dalla organizzazione palestinese Abu Nidal.
Il criminale fu rilasciato due anni dopo.
Non è possibile ricostruire qui questi oltre settant’anni di alternanza fra guerra e speranze di pace.
Una sola cosa appare però chiara.
La vittima di questo doloroso cammino è in primo luogo proprio il popolo in nome del quale si sostiene di combattere.
I palestinesi non hanno avuto la possibilità di costituirsi in libera Nazione perché i loro presunti alleati lo hanno sistematicamente impedito.
Da circa vent’anni si trovano nelle mani di organizzazioni militar terroristiche che, nel nome della distruzione di Israele, rifiutano di riconoscere anche l’Autorità Nazionale Palestinese.
Oltre alla assoluta assenza di democrazia quello stesso popolo vive utilizzato come carne da cannone.
Come carne da cannone viene spinto a freneticamente riprodursi.
Nel frattempo altre organizzazioni similari nascono e vengono foraggiate nei Paesi vicini.
Truppe mercenarie, super ideologizzate pronte ad essere utilizzate nei momenti di allargamento dei conflitti.
Non è facile comprendere cosa abbia determinato o favorito l’incapacità dell’Occidente, compresi ormai gli Stati Uniti d’America, ad agire efficacemente in questa situazione per il raggiungimento dell’obiettivo “due Popoli, due Stati”.
Si tratta, probabilmente, di una miriade di fattori che si alternano e si sommano in maniera differente momento per momento.
Nell’insieme si deve dire che la speranza del post ’45 di poter finalmente disporre di una politica internazionale capace di governare le contraddizioni si è rivelata un’illusione. Bella ma fasulla.
Ciò non vale, naturalmente, soltanto per la questione palestinese.
Più si va avanti più appare evidente che praticamente nessun genere di tensione relativo ai rapporti internazionali è stato superato o governato. Che si tratti di questioni razziali, religiose, culturali poco importa. Nella Storia e nella coscienza degli uomini nulla va perduto. Le contraddizioni e le tensioni si ripresentano anche a distanza di molti anni e in seguito a grandi cambiamenti. In assenza di una capacità o volontà di governo possono essere utilizzate per miscele esplosive differenti fra loro ma sempre mortali.
Nei prossimi anni potremo verificare come queste condizioni sottostanti si comporranno con la finanziarizzazione dell’economia e con le nuove tecnologie e possibilità militari. È evidentemente in crisi l’equilibrio basato sul concetto di Stato Nazione. Esso non è stato sostituito né dall’Unione Europea né dagli strumenti di concertazione internazionale. In un contesto in cui la Politica appare per la prima volta in ritardo rispetto all’Economia anche turbolenze ed azioni ristrette possono avere esiti clamorosi.
Punto 4. Ebrei e Israele
Come resistere, anche personalmente, in questa condizione?
Come evitare di cadere nell’isterico “qui ed ora” che ci sta sommergendo e che ci impedisce di leggere realmente il senso dei processi in corso riducendoci a una reazione momentanea dietro sollecitazione?
Per quanto riguarda la “questione Palestina”, essa è tanto complessa ed offre tanti possibili e contraddittori appigli da rimettere a ciascuno la ricerca di un senso condivisibile.
Gli errori certamente commessi dai governi israeliani sono giustificati dalle rappresaglie subite? Oppure il terrorismo appare come l’unica forma di resistenza contro un potere militare ed economico sovrastante?
Penso che la scelta debba essere compiuta in chiave prevalentemente etica, avendo come unico riferimento il diritto di entrambi i popoli a effettivamente e liberamente autogovernarsi.
Vi è, però, una questione più vasta sulla quale è necessario e giusto avere chiarezza. Si tratta della sistematica e ferrea distinzione fra Ebrei, in qualunque parte del mondo si trovino, e Israele in quanto Stato con le sue strategie e politiche. Qualunque valutazione si possa dare (e concluderò queste righe con le mie) non può assumere una dimensione razziale, religiosa o culturale. Assistiamo invece continuamente a un trasferimento di responsabilità e di giudizio dal livello dello Stato a quello del singolo cittadino.
Si può non condividere o addirittura condannare la strategia di Tel Aviv nei confronti della questione palestinese. Non si può e non si deve farne una questione di razza. Gli atti in tal senso stanno invece crescendo. Essi, fingendo di avere come obiettivo il Governo Israeliano, colpiscono indiscriminatamente tutti gli Ebrei e tendono a favorire e giustificare aggressioni nei loro confronti. Ciò risulta ancora più paradossale se si considera che così viene dimenticata la natura di unico Paese democratico di quell’area a favore di sistemi autoritari.
L’avere frustato a sangue una giovane donna per una foto senza velo è certamente meno importante della guerra, ma forse occorrerebbe chiedersi come mai quella Nazione armata di frusta sostenga e difenda terroristi e assassini che operano in nome dell’Islam.
Punto 5. Considerazioni Personali finali
Provo, di seguito, ad esporre velocemente i presupposti a cui cerco di attenermi nel mio personale rapportarmi con questa complicata e dolorosa questione.
In primissimo luogo, ritengo fondamentale sostenere il pieno e totale diritto alla difesa da parte dello Stato di Israele contro qualunque attacco o aggressione. Non si tratta soltanto di un atteggiamento giustificato dal tragico ricordo della Shoah. Purtroppo esso va adeguato alla consapevolezza che esistono Nazioni che fondano la loro identità anche sulla volontà di cancellare Israele.
Non si tratta, per gli anti israeliani, di momenti o di passaggi tattici. Al contrario tale volontà risulta talmente determinante da essere mantenuta anche in danno della propria comunità. Pensare che in virtù di buoni e saggi accordi economico finanziari queste Nazioni smettano di voler distruggere Israele è un errore clamoroso. Penso che l’attacco ad Israele copra e insieme anticipi un attacco molto più vasto all’intero nostro mondo.
Ripeto che nella Storia nulla va perduto e penso che ancora agisca il ricordo dell’inutile assedio di Vienna del 1683 cui seguirono, per l’Impero Ottomano, le perdite di importanti e sempre rimpianti territori.
Si fa inoltre crescente la divaricazione fra le libertà personali conquistate progressivamente dall’Occidente e la assoluta e violenta negazione di esse da parte dei Regimi che agiscono sulla Palestina e sulla pelle dei Palestinesi. Agli occhi di questo mondo l’esistenza di Israele con le sue libertà e la sua democrazia risulta intollerabile. Anzi, quello Stato viene vissuto come un avamposto dei veri nemici da abbattere successivamente.
Difendendo sé stesso, insomma, Israele difende anche noi. Se dovesse venire sconfitto e travolto, prepariamoci al peggio. Penso, infine, che sarebbe nostro interesse studiare ed approfondire meglio la continuità che ci lega attraverso una splendida osmosi con la cultura e la tradizione ebraica. Non parlo adesso “soltanto” dei garibaldini ebrei o dell’arte e della filosofia. Penso alla attuale elaborazione di scuola ebraica attorno alle questioni dell’Intelligenza Artificiale e del rapporto con la nostra vita sia materiale che spirituale.
Non considero un caso che questi approfondimenti si collochino all’Università di Tel Aviv come non considero un caso che Karl Marx fosse anche lui ebreo. Penso piuttosto che gli Ebrei siano stati e siano portatori di un approccio laico e particolare che diventerà sempre più importante e prezioso.
Ma di questo, se si vorrà, ne scriverò in un’altra occasione.
[1] Qualunque opinione se ne abbia, questo pezzo è dovuto anche al prezioso aiuto della mia amica Maria Carla Lanciotti