Conflitti

Democrazia Futura. Niente (o, comunque, troppo poco) di buono sul fronte occidentale

di Giampiero Gramaglia, giornalista, co-fondatore di Democrazia futura, già corrispondente a Washington e a Bruxelles |

Da questi due pezzi di Giampiero Gramaglia, emerge un bilancio a tinte fosche di come si sta concludendo questo difficile 2023.

Giampiero Gramaglia

L’’ex direttore dell’Ansa analizza per Democrazia futura  dapprima il voto non vincolante dell’Onu del 12 dicembre che chiede un cessate-il-fuoco nella guerra tra Israele e Hamas e le “Incrinature e stanchezze nel campo occidentale” che emergono di fronte alle due guerre in Medio Oriente e in Ucraina, poi, tre giorni giorni dopo, i magri risultati del vertice Europeo di Bruxelles del 14-15 dicembre con “L’Ucraina [che] inizia il viaggio, [mentre] l’Unione resta ferma” con, al contempo, “il via libera ai negoziati per l’adesione all’Unione europea dell’Ucraina” ma anche il “blocco degli aiuti di cui Kiev ha subito bisogno – come di quelli americani, del resto, anch’essi bloccati -”.  
Da questi due pezzi di Giampiero Gramaglia, emerge un bilancio a tinte fosche di come si sta concludendo questo difficile 2023. Parafrasando Erich Maria Remarque, potremmo dire che alla vigilia di un anno molto delicato per le scadenze elettorali al di qua e al di là dell’Atlantico (ovvero le elezioni europee e il successivo rinnovo della Commissione e dei vertici dell’Unione europea da un lato, le elezioni presidenziali negli Stati Uniti dall’altro,  alle quali per la verità si dovrebbero aggiungere le elezioni generali per il rinnovo della Camera dei Comuni nel Regno Unito) non sembra si stia delineando “Niente (o, comunque, troppo poco) di buono sul fronte occidentale”.

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Di fronte alle due guerre fra Israele e Hamas e in Ucraina

1. Incrinature e stanchezze nel campo occidentale[1]

Il tabellone del voto dell’Assemblea generale sul cessate-il-fuoco a Gaza (Fonte: Youtube)

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite chiede a larghissima maggioranza un cessate-il-fuoco nella guerra tra Israele e Hamas. Ma il voto non è vincolante, dopo che gli Stati Uniti hanno messo il veto a un’analoga risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – quella sì vincolante, se approvata -.

Martedì 12 dicembre in serata, l’Assemblea generale ha manifestato il suo desiderio che la guerra finisca, o almeno s’arresti, con 153 voti a favore, 10 contrari e 23 astenuti. I Paesi dell’Assemblea sono 193.

A votare no, con Israele e gli Stati Uniti, solo Austria, Rep. Ceca, Paraguay, Guatemala, Liberia, Micronesia, Nauru e Papua: segno palese del crescente isolamento di Gerusalemme e Washington.

L’Europa s’è disintegrata: due no, qualche astenuto, fra cui Italia e Germania, molti sì. Il documento esprime “grave preoccupazione” per “la catastrofica situazione umanitaria a Gaza”.

Ma l’appoggio degli Stati Uniti d’America all’Onu non basta a Israele.

In sortite pubbliche, il presidente Joe Biden e il premier Benjamin Netanyahu fanno emergere divergenze sulla guerra nella Striscia e, soprattutto, sul futuro di Gaza. Netanyahu non prende in considerazione la soluzione dei due Stati ed esclude che, esaurito il conflitto, l’Autorità nazionale palestinese, che ora governa la CisGiordania, gestisca la Striscia – soluzione non gradita neppure ai palestinesi -.

“Gaza – dice il premier israeliano – non sarà un Hamastan e nemmeno un Fatahstan. Non permetterò che Israele ripeta l’errore di Oslo, non consentirò che resti a Gaza chi educa al terrore, chi lo sostiene, chi lo finanzia”.

Biden lo ammonisce:

“Con i bombardamenti indiscriminati, stai perdendo il sostegno dell’opinione pubblica internazionale”,

che è sotto shock per le immagini e i numeri della guerra; e rinnova l’invito a non ripetere gli errori fatti dagli Stati Uniti e dai loro alleati dopo l’11 Settembre 2001.

Ma, nello stesso tempo, e come i voti all’Onu dimostrano, Biden conferma “l’incrollabile sostegno” degli Usa a Israele, parlando a una celebrazione di Hanukkah alla Casa Bianca, presenti 800 invitati fra cui superstiti dell’Olocausto e leader ed esponenti della comunità ebraica degli Stati Uniti.

Per guadagnare tempo, Israele afferma che Hamas è a “un punto di rottura”. Ma, più che Hamas, sono i palestinesi sull’orlo di una crisi umanitaria. “La situazione è oltre l’immaginabile”, dice l’Organizzazione mondiale della Sanità.

Israele e Ucraina, l’Occidente vacilla

In Occidente, incrinature nel sostegno a Israele s’accompagnano a stanchezze in quello all’Ucraina. La guerra tra Israele e Hamas sottrae attenzione ed energie, in termini di aiuti militari e umanitari e di lavorio diplomatico, per altro inefficace, all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Prova ne è il fatto che il monito a Netanyahu ‘fa titolo’ nella conferenza stampa congiunta fatta da Biden con il presidente ucraino Volodymyr Zelen’skyj, in visita negli Usa come esattamente un anno fa, prima di Natale.

E’ la terza volta di Zelenskyj a Washington dall’inizio dell’invasione – ci venne anche a settembre, dopo avere parlato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite -. Ma il clima dei colloqui è diverso. Zelen’skyj fa la questua di armi e di aiuti per il suo Paese, proprio mentre l’esercito ucraino fa sapere che le truppe russe attaccano su tutto il fronte e che quelle di Kiev devono “fare quanto necessario per salvare vite e risparmiare munizioni”. Parole che esprimono una situazione al fronte difficile e una carenza di mezzi.

Del resto, le fonti ucraine riconoscono il fallimento della controffensiva, che mirava a riconquistare ampie aree del territorio occupato dalla Russia e a raggiungere il Mar d’Azov – obiettivi non raggiunti -. Per il New York Times, Washington e Kiev

“cercano una nuova strategia da attuare all’inizio del 2024 per risollevare le sorti della guerra e il sostegno in calo”.

Oltre a Biden, Zelen’skyj incontra i leader del Congresso: lì ci sono riluttanze ad aiutare ancora l’Ucraina. A Zelen’skyj, leader repubblicani ‘trumpiani’ dicono che la sicurezza degli Stati Uniti d’America non dipende dall’Ucraina, ma si gioca ai confini con il Messico, sul fronte dei migranti. E c’è chi dà esplicitamente per perduti i territori occupati dalla Russia. Ma il presidente dice di avere ricevuto “segnali positivi”.

I negoziati sugli aiuti tra Congresso e Casa Bianca sono in stallo, così come la linea al fronte, dove le notizie dei bombardamenti notturni russi sulle città ucraine sono ormai diventate routine. Mentre Zelen’skyj perora la causa a Washington, il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba, parlando a Politico, chiede agli europei di non star ad aspettare le decisioni americane:

“Il prossimo Paese che la Russia attaccherà sarà un Paese europeo”.

Ma c’è poco da attendersi dal Vertice europeo del 14 e 15 dicembre 2023: Ungheria, Austria e Slovacchia sono contro un’adesione dell’Ucraina all’Unione europea a tappe serrate: i ministri degli Esteri dei 27 lasciano ai capi di Stato e/o di governo la definizione di una posizione comune. Le sanzioni alla Russia fanno acqua: Usa e Ue denunciano le forniture cinesi, ma le componenti più delicate dell’arsenale russo sono prodotte da aziende occidentali.

Israele – Hamas, a Gaza si percepisce la morte come imminente

Nella Striscia di Gaza, dove oltre due milioni di persone sono intrappolate, la morte – riferiscono fonti delle organizzazioni umanitarie – è percepita come imminente dalla popolazione civile. Dopo una tregua durata una settimana a fine novembre, i combattimenti sono ripresi e i bombardamenti sono incessanti. Cibo e acqua scarseggiano, E non c’è nessun posto dove sentirsi sicuri: “I civili vivono l’inferno in terra”, dice una fonte dell’Onu.

Mentre l’esercito israeliano allarga il raggio d’azione nella Striscia, la situazione umanitaria continua a deteriorarsi. Il World Food Program, un’agenzia dell’Onu con sede a Roma, calcola che il 97 per cento dei nuclei familiari a Nord e l’83 per cento a Sud non abbiano cibo a sufficienza.

E l’agenzia dell’Onu per i rifugiati sostiene che Israele vuole espellere da Gaza tutti i palestinesi: nella Striscia, che prima del conflitto aveva oltre due milioni di abitanti, ci sono ora 1,8 milioni di sfollati. Le vittime civili, secondo le fonti palestinesi, sono circa 18.500, i feriti oltre 46 mila. L’esercito israeliano dichiara 112 caduti e 1.600 feriti.

Israele nega di avere piani del genere, ma risponde alle crescenti pressioni per un cessate-il-fuoco intensificando i combattimenti. Ogni giorno, sono centinaia gli obiettivi di Hamas colpiti: dopo avere ordinato l’evacuazione del Nord della Striscia, adesso l’esercito israeliano chiede ai residenti della principale città del Sud, Khan Younis, di andarsene. Non è però chiaro quanto i palestinesi siano al corrente degli inviti loro fatti, perché le comunicazioni sono difficili nella Striscia.

La decisione di Washington di porre il veto sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza ha attirato molte critiche internazionali sugli Stati Uniti. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres non cessa di chiedere un cessate-il-fuoco, ma teme che l’ordine pubblico nella Striscia collassi a breve.

Il veto è stato giustificato dal vice-rappresentante degli Usa all’Onu Robert A. Wood con il fatto che la mozione era “frettolosa” e avrebbe lasciato Hamas “sul territorio, capace di riorganizzarsi e di ripetere quel che ha fatto il 7 ottobre”, quando migliaia di miliziani di Hamas e di altre sigle terroristiche si sono introdotti in territorio israeliano, hanno ucciso oltre 1200 israeliani e preso centinaia di ostaggi – 137 restano nelle loro mani, ma si teme che alcuni siano morti sotto le bombe e nei combattimenti -.

L’atteggiamento dell’Onu irrita Israele, ma, nel contempo, il presidente turco Racep Tayyip Erdogan definisce il Consiglio di Sicurezza “il Consiglio di Protezione” israeliano.

Israele – Hamas, la situazione nella Striscia, in CisGiordania, altrove

Mentre Dipartimento di Stato e Pentagono cercano escamotage per rifornire d’armi Israele, ci sono polemiche per l’uso, da parte di Israele, nel Sud del Libano, di munizioni al fosforo bianco fornite dagli Stati Uniti: difensori dei diritti umani chiedono un’indagine, denunciano un crimine di guerra. Le convenzioni internazionali prevedono usi legittimi delle munizioni al fosforo bianco, ma fissano limiti. Le munizioni fanno parte degli aiuti militari che ogni anno gli Usa forniscono a Israele: valgono miliardi di dollari.

Il Governo Netanyahu accusa i fondamentalisti di usare zone umanitarie, come scuole e ospedali, per lanciare razzi verso Israele: ordigni sarebbero stati sparati da dove si ammassano gli sfollati, nell’area di Muwasi, vicino Rafah. E l’esercito israeliano mostra immagini di armi e ordigni nascosti dentro pupazzi e tra giochi per bambini

L’ambasciatore Francesco Bascone constata:

“Mentre Stati Uniti d’America e Unione europea stanno a guardare, le prospettive d’una pace tra Israele e Palestina diventano sempre più complicate […]. Gli Stati Uniti assecondano il rifiuto israeliano di una tregua, limitandosi ad auspicare pause umanitarie. Gli europei – giova ripeterlo senza mezzi termini – non hanno voce in capitolo. Israele lascia loro al massimo il compito di sostenere l’onere finanziario degli aiuti umanitari e della ricostruzione (riservandosi di tornare a demolire o bombardare, se del caso, quelle case e scuole ricostruite)”.

Restano aperti anche gli altri fronti: il confine col Libano, la Cisgiordania, le incursioni sulla Siria per distruggere i depositi di armi di Hezbollah, la milizia filo-iraniana. E c’è fermento anche lato politica interna: a due mesi dall’inizio della guerra, sette israeliani su dieci ritengono che il premier dovrebbe rassegnare le dimissioni, secondo un sondaggio di Canale 13; il 31 per cento vuole che se ne vada subito; il 41 per cento a fine conflitto. Netanyahu, però, ha ancora l’appoggio dei sostenitori del suo partito, il Likud: il 70 per cento vuole che resti in carica.

Altrove nel Golfo, una nave cisterna con bandiera norvegese, la Strinda, è stata colpita, al largo dello Yemen, nel Mar Rosso, da un missile forse sparato dagli Huthi, uno gruppo sciita appoggiato da Teheran, che non ha però rivendicato l’azione. E in Iraq il contingente militare americano ancora di stanza nel Paese subisce attacchi da milizie filo-iraniane.

Ucraina, Putin non vince il conflitto, ma si attrezza per vincere le elezioni

Riducendo l’attenzione dell’Occidente per l’Ucraina, la guerra tra Israele e Hamas ha rivitalizzato l’attività internazionale del presidente russo Vladimir Putin, che viaggia nella penisola araba, vede esponenti iraniani e prende di petto, in una telefonata, il premier Netanyahu, che gli contesta l’appoggio alla causa palestinese.

Putin ha appena ufficializzato la sua candidatura alle prossime elezioni presidenziali russe, fissate al 17 marzo 2024. Pochi dubbi che le vincerà. E Biden, parlando accanto a Zelenskyj, avverte che le esitazioni dell’Occidente nel fornire aiuti all’Ucraina rafforzano il leader russo e incoraggiano altri potenziali aggressori.

L’Unione dopo il Consiglio europeo di metà dicembre 2023

2. L’Ucraina inizia il viaggio, l’Unione resta ferma

Nelle cronache del Consiglio europeo del 14 e 15 dicembre, l’attenzione s’è concentrata sul sì – non scontato – all’avvio dei negoziati per l’adesione all’Unione europea dell’Ucraina. E’ un risultato per molti versi positivo, ma che non basta a promuovere i leader dei 27: la stragrande maggioranza delle decisioni sono state rinviate ed è emersa la tentazione di annacquare in un allargamento dai tempi incerti qualsiasi prospettiva di approfondimento dell’integrazione europea.

Il premier ungherese Viktor Orban, lasciando la sala al momento del sì ai negoziati con l’Ucraina, ha dato via libera alle trattative, ma ha però bloccato, subito dopo, gli aiuti di cui Kiev ha subito bisogno – come di quelli americani, del resto, anch’essi bloccati –. La decisione sul bilancio pluriennale dell’Unione europea slitta a gennaio 2024, quella sul Patto di Stabilità sarà di nuovo discussa dall’Ecofin – ma, dice il premier italiano Giorgia Meloni, che si tiene in mano la carta del Mes, “le posizioni sono distanti” -.

Nelle conclusioni del Consiglio europeo, l’ultimo del 2023 e l’ultimo della presidenza di turno spagnola del Consiglio dei Ministri dell’Unione, c’è scritto che i capi di Stato e/o di governo dei 27 hanno

“adottato conclusioni sull’Ucraina, il Medio Oriente, l’allargamento e le riforme, il quadro del bilancio pluriennale 2021-’27, la sicurezza e la difesa, l’immigrazione e altri temi, le relazioni con la Turchia, la lotta contro l’anti-semitismo, il razzismo e la xenofobia e l’agenda strategica”.

Ma, in realtà, le conclusioni adottate sono, quasi sempre, dichiarazioni senza concretezza o rinvii. Un esempio: sul Medio Oriente, il capo della diplomazia europea Josep Borrell alza le mani: dopo settanta giorni di guerra tra Israele e Hamas, l’Unione europea non ha una posizione comune. Del resto, il voto dell’Assemblea generale dell’Onu il 12 dicembre ne era stata plateale conferma: la maggior parte dei 27, fra cui Francia e Spagna, favorevoli a un cessate-il-fuoco; alcuni astenuti, fra cui Germania e Italia; due contrari, Rep. Ceca e Austria.

Le prospettive dell’allargamento

Il sì all’avvio dei negoziati di adesione dell’Ucraina è “un segnale di speranza per gli ucraini e tutto il nostro Continente”, dice Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, mentre la guerra va stancamente avanti, fronte in stallo, bombardamenti ogni notte, la paralisi dell’inverno alle porte e il sostegno dell’Occidente che s’attenua. Chi prevedeva che Orban mettesse in ginocchio l’Unione e che il presidente russo Vladimir Putin facesse sentire il suo peso al tavolo dei 27 è stato smentito. Ma il premier ungherese, bloccando gli aiuti, conserva – scrive Eunews – “la possibilità di ricattare l’Unione europea”.

Il sì ai negoziati con l’Ucraina è parallelo a quello per la Moldavia. La Georgia s’è visita attribuire lo statuto di Paese candidato, che prima avevano Kiev e Chisinau. Le trattative con la Bosnia sono più vicine: partiranno quando Skopje avrà completato le riforme – domani o mai, chi lo sa -.

Ora, ci sono dieci Paesi alle porte dell’Unione, nove se si considera che la pratica della Turchia è da tempo su un binario morto: i sei dei Balcani occidentali – Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Bosnia, Albania e Kosovo – e Ucraina, Moldavia, Georgia.

Scrive Politico:

“La spinta all’allargamento conferma che l’Ue conserva e utilizza il suo maggiore asset politico, il potere di attrazione”.

E’ una calamita di Paesi bisognosi di ancoraggio democratico e sostegno economico. Ma, attirandoli, logora il suo potere di coesione interna.

Il via libera ai negoziati per l’adesione dell’Ucraina è salutato dal presidente ucraino Volodymyr Zelen’skyj come “una vittoria per tutta l’Europa”. Zelen’skyj era reduce da colloqui frustranti a Washington, dove i leader repubblicani del Congresso gli hanno detto che per la sicurezza dell’America i confini con il Messico contano di più di quelli dell’Ucraina,

Alla vigilia del Vertice, Zelen’skyj aveva chiesto ai leader europei di “non tradire la parola data”: dopo l’invasione, la teoria di esponenti dei 27 giunti a Kiev a promettere sostegno ed aiuti è stata quasi incessante. Le più presenti, le presidenti della Commissione europea Ursula von der Leyen e del Parlamento europeo Roberta Metsola, ormai rivali nella corsa a guidare l’Esecutivo comunitario dal 2024 al 2029.

I 27 tra allargamento e approfondimento, con il rovello migranti

Secondo la Cnn, che fa eco a pareri espressi da leader europei, ma che talora analizza i fatti europei in modo non molto articolato, la decisione “

manda un forte messaggio al presidente Vladimir Putin, mentre stava diffondendosi la sensazione che il sostegno occidentale all’Ucraina stesse stemperandosi”.

Ma l’apertura dei negoziati di adesione non significa che l’Ucraina stia per entrare nell’Unione: la strada è ancora lunga e gli ostacoli non mancano, a partire dalle riforme necessarie per garantire la stabilità economica e una democrazia funzionale nel Paese profondamente segnato dalla corruzione.

Ci vorranno anni perché l’adesione diventi effettiva”,

riconosce la Cnn, mentre c’è voluta l’invasione russa perché l’Ucraina fosse accettata come Paese candidato: Kiev ci puntava da almeno un decennio, dai tempi del rovesciamento del presidente filorusso Viktor Janucovich.

Nell’immediato, però, l’Ucraina ha “disperato bisogno” – scrive l’Associated Press – dei 55 miliardi circa di euro di aiuti finanziari congelati dal veto ungherese per tirare avanti un altro anno di economia di guerra (così come ha bisogno degli oltre 60 miliardi di aiuti militari americani bloccati dai repubblicani). Michel assicura che il Vertice si riunirà di nuovo a gennaio 2024 per stanziare i fondi.

Più che dalle guerre, molti leader europei paiono ossessionati dai migranti: assecondano le paure degli elettori senza avere soluzioni da offrire. Negli Stati Uniti Donald Trump, nipote di migranti, dice che “gli immigrati avvelenano il sangue dell’America”; e il presidente Joe Biden patisce l’attenzione per un problema che non sa come risolvere.

Lo stesso avviene in Europa: in Francia, Emmanuel Macron avverte il suo consenso erodersi, mentre l’opposizione cavalca, da destra, ma anche a sinistra, la questione.

In Italia, il governo di destra ne fa un cavallo di battaglia, nonostante che, in un anno al potere, non abbia affatto migliorato la situazione. Il Vertice europeo non produce né idee né decisioni.

Per l’Italia, checché ne dica, non è un ‘momento tricolore’

L’Italia come ne esce? Giorgia Meloni parla di “bilancio in chiaroscuro” del Consiglio europeo e ammette:

“Non abbiamo ottenuto tutto quello che volevamo”,

anche se sostiene che, sui migranti, gli altri leader la stanno seguendo. A parte la retorica filo-governativa del ‘siamo i meglio’, la stagione internazionale non è tricolore: l’Italia prende scoppole nella corsa all’Expo Universale 2030 – terzo posto, quando il secondo pareva scontato – e nella corsa alla presidenza della Bri – terzo posto, dietro ai candidati spagnolo e danese -. E la Corte costituzionale albanese sospende la ratifica dell’intesa con l’Italia sui migranti, in attesa di pronunciarsi sul ricorso dell’opposizione, secondo cui l’accordo viola la Costituzione e le convenzioni internazionali sottoscritte da Tirana.

Secondo la Ragioneria generale dello Stato, l’intesa con l’Albania costerebbe all’Italia almeno 300 milioni di euro, cinque volte più dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) sul suolo italiano. La commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovi, chiede all’Italia di

“difendere meglio i diritti dei migranti, delle donne e dei richiedenti asilo” e di abolire le norme “che ostacolano la ricerca e il salvataggio da parte delle Ong”.

Alla vigilia del Vertice, le risoluzioni della maggioranza al Senato e alla Camera non ripropongono la questione della revisione dei Trattati posta dal Parlamento europeo, perché il governo esprime parere negativo su quel punto. Ai leader dei 27, Metsola ricorda l’esigenza di fare le riforme, come chiede l’Assemblea di Strasburgo.

Non del tutto negativa la valutazione del Movimento europeo che, alla vigilia, insisteva sul fatto che

“un’Unione europea efficace democratica e solidale deve essere fondata su tre pilastri finora assenti nell’azione delle istituzioni europee e dei governi nazionali: creazione di beni pubblici europei, superamento dei Trattati di Lisbona e ampio consenso popolare”.

Il Movimento europeo si attende che questi concetti siano iscritti nell’agenda strategica 2024-’29, da varare dopo le elezioni europee del giugno prossimo.

Le conclusioni del Vertice sono giudicate “un piccolo passo” nella direzione auspicata, ma la strada è lunga e non è affatto detto che la direzione sia quella giusta. La richiesta è di riaprire, subito dopo il voto, il cantiere della conferenza sul futuro dell’Unione nel quadro di una fase costituente.


[1] Scritto per The Watcher Post, 13 dicembre 2023. Cf https://www.giampierogramaglia.eu/2023/12/14/guerre-israele-hamas-ucraina/.

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