Stefano Rolando con “Il fiato sospeso per le iniziative negoziali messe in campo per evitare la catastrofe”, scrive un lungo pezzo “Israele-Palestina. La storia si ripete. Ma non è maestra di vita[1]“.
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Dopo il 7 ottobre, dopo la furia omicida del terrorismo di Hamas e i propositi di una reazione distruttiva israeliana contro Gaza (sempre possibile) il fiato sospeso del mondo per le iniziative negoziali messe in campo da Biden su Israele e dagli Stati arabi sulla Palestina per evitare la catastrofe.
Sono nato nel 1948, come lo stato di Israele. Come la guerra mossa allora dagli stati arabi contro quel drammatico ritorno alla “terra promessa”. Che costò anche ai palestinesi la prevista parallela costituzione del loro separato Stato. Una storia che i palestinesi chiamarono “Mokba” che significa “catastrofe”. Un datario impressionante. Quando prevalevano i moderati (le colombe di entrambe le parti) si tessevano i negoziati, si tentavano gli accordi, si provavano le convivenze. Quando vincevano gli estremisti (i falchi di entrambe le parti) la parola passava presto alle armi.
Questa la storia che provo a raccontare. Con qualche aneddotica personale, cioè di una generazione che ha visto in modo coinvolgente i due registri di una storia condannata a ripetersi e a non essere mai “magistra vitae’.
Al centro dell’agenda. Il ritorno del prevalere del fronte dei falchi
Dal 7 ottobre 2023 l’agenda è dominata dallo squarcio drammatico in Medioriente tra i palestinesi di Hamas e il governo nazionalista di Israele. Che continua a far notizia (dalle dieci alle quindici pagine al giorno lo spazio assegnato dai grandi quotidiani), induce a prendere posizione, pone la domanda di quale soluzione prevarrà.
La prima volta in cui sono stato indotto a farmi un’opinione sul conflitto tra Israele e i palestinesi concludevo il liceo, appartenevo alla gioventù repubblicana e avevo amici ebrei sensibili politicamente. Era scoppiata la “guerra dei Sei giorni” del giugno 1967.
Partecipai ad una serata ai Giardini della Guastalla a Milano non esacerbata ma dichiaratamente filo-israeliana e come fonte dei fatti disponevo della lettura di un editoriale di Alberto Cavallari sul Corriere della Sera che inquadrava i fatti nello schema che anche oggi domina la situazione e che vi sto per dire. L’ho ritrovato segnalato ora tra i pezzi giornalistici che hanno costellato la storia del conflitto.
Scriveva Cavallari:
“I falchi hanno sostituito le colombe. Entrano al potere politico gli uomini del 1956. Sono al potere i generali, le truppe sono entusiaste della nomina a ministro della Difesa del generale Moshe Dayan”.
L’argomento è simmetrico. Ed è questo. Sia i palestinesi che gli israeliani – da sempre – presentano un fronte di falchi e un fronte di colombe. Quando sono le colombe sui due fronti ad avere maggioranza e potere, procedono, anche se a fatica, i negoziati, si concludono accordi locali o internazionali, tendenzialmente si cerca di risolvere i conflitti in forma diplomatica. Quando prevalgono i falchi, in automatico lo schema relazionale si tende e si arriva all’uso delle armi, con maggiore o minore violenza. Che nel corso degli anni ha significato guerre tra Stati (Israele e il mondo arabo) e più recentemente situazioni di guerriglia (cioè, con in campo movimenti sia palestinesi sia arabi di tipo fondamentalista e con tendenze terroristiche).
Lo scontro tra estremisti (per Israele significa il patto tra militari e nazionalisti soprattutto quelli ultrareligiosi) ha la forza di compattare, volenti o spesso nolenti, attorno ai palestinesi tutti gli Stati Arabi vicini e lontani e in generale il mondo musulmano. E in Israele, di compattare una maggioranza di forze sia delle rappresentanze parlamentari che religiose.
Serve una condizione di odio.
Quello su cui scrive in questi giorni l’ultracentenario Edgar Morin:
“L’odio non è nuovo, ma ora è scatenato da entrambe le parti. Esso genera il delirio della colpa collettiva del popolo nemico”[2].
Con molte varianti lo schema si è rivisto in ognuna delle famose crisi di guerra (dal 1948 al 1949 durante e dopo la costituzione dello Stato israeliano alla guerra con l’Egitto del 1956; dalla citata guerra dei Sei giorni del 1967 alla guerra del Kippur del 1973) poi seguite da scatenamenti violenti e fasi di intesa nei rapporti diretti tra Israele e i palestinesi.
Lo spostamento di posizione dell’Arabia Saudita fattore di accelerazione dell’attacco di Hamas?
Non c’è osservatore internazionale che, in questo caso, non abbia colto la variante che si stava profilando, in un contesto di evidente prevalenza dei falchi sia sul fronte palestinese che su quello israeliano. Parlo di uno spostamento di posizione dell’Arabia Saudita verso possibilità di intese regolate dai rapporti con gli Stati Uniti. Mentre sull’altro fronte persiste la posizione dell’Iran maggiormente impegnata a sostenere Hamas.
La turbativa nel mondo arabo della posizione dei sauditi pesa come una bomba nel quadro dei rapporti politici convenzionali. C’è chi non esclude che ciò abbia costituito il movente o comunque un fattore di accelerazione dell’attacco, comunque in cantiere da due anni, di Hamas su territorio israeliano scatenato il 7 ottobre 2023.
Con Hamas condizionante, le posizioni estremizzate dei palestinesi, per svuotamento politico dell’Autorità Nazionale Palestinese e comunque in un quadro di delega senza elezioni da molti anni, e con il governo Netanyahu ritenuto il più a destra della storia israeliana (per giunta pressato da un anno di contestazioni politiche interne), non ci voleva un indovino a immaginare la conseguenza di un alto conflitto per sostenere o rilanciare la governance di entrambi i fronti.
Il tema, tuttavia, è diventato non solo “interno”.
Per le modalità, le implicazioni, i coinvolgimenti e il rilancio della guerra di propaganda e di rappresentazione delle rispettive condizioni (violenza, prepotenza, colonizzazione, diritti umani, eccetera) e anche per la forma crudele dell’ultimo attacco del 7 ottobre (sgozzamenti e rapimento di ostaggi), l’evoluzione di questo conflitto potrebbe anche incarnare la trasformazione dell’odio in una visceralità distruttiva che già in Ucraina ha avuto cantieri aggiornati e inedite implementazioni digitali.
Da qui i tre oggetti di indagine: l’agenda di guerra; l’agenda diplomatica e la percezione dell’opinione pubblica spesso condizionante le scelte della politica (almeno dove si vota). Opinione pubblica che costituisce il primo argomento su cui vorrei portare in evidenza i dati a disposizione.
La dinamica dell’opinione pubblica in Italia
Nei sondaggi, ci stiamo abituando ad andare a vedere per prima cosa quanti dicono “non so”. Un dato in crescita – dal voto ai conflitti piccoli e grandi che, dall’economia alla salute, ci circondano – perché ormai contenuto in quel perimetro eccessivo che è il 60 per cento dell’astensionismo.
- Per questo ho provato un certo stupore all’uscita del primo sondaggio (Antonio Noto, Repubblica del 14 ottobre) che limita gli italiani incerti di fronte al conflitto tra Israele e Palestinesi al 19 per cento. Sul nodo principale (solidarizza con lo Stato di Israele o con Hamas?) la risposta è inequivoca: 63 per cento contro il 18 per cento. Alto per tutti: chi vota Lega, chi Fratelli d’Italia, chi il PD e tutti gli altri (un po’ meno per chi vota 5 Stelle, molto meno per Sinistra italiana). Prevale anche chi pensa che Israele non deve invadere Gaza e cercare vie diplomatiche (55 per cento contro il 25 per cento che legittima l’eventuale e anche annunciata invasione).
- Poi arriva il sondaggio SWG per il tg della 7 (16 ottobre). Tra i molto preoccupati (33 per cento) e gli abbastanza preoccupati (48 per cento) fa 81 per cento il fronte di chi sta in allerta. Il 13 per cento si dichiara “poco preoccupato” e il 6 per cento “per niente preoccupato” (e buona notte per loro). Se si passa all’attacco di Hamas, lo considera “insensato” l’85 per cento, la stessa cifra (84 per cento) aggiunge anche che è un “atto terroristico di inaudita crudeltà”. Se la questione diventa “è una reazione comprensibile dopo anni di repressione da parte israeliana”, gli italiani si dividono al 50 per cento, cioè l’argomento così posto prende anche una quota di chi non lo ha considerato insensato o terroristico. Mentre se la definizione è “l’unico modo possibile per i palestinesi di far valere i propri diritti” l’accordo scende al 33 per cento e il disaccordo al 37 per cento. Complesso ma con un elemento che si afferma è il tema della “vicinanza”: agli israeliani 25 per cento (il doppio del 2021), ai palestinesi 10 per cento (dato dimezzato rispetto al 2021); a entrambi 30 per cento (con +9 per cento) a nessuno dei due 21 per cento (scende di 4 punti), Qui i ”non so” si limitano al 14 per cento (meno 19 rispetto al 2021).
- Sempre il 16 ottobre Sky Tg24 propone una propria rilevazione articolata, che parte da un 63 per cento degli italiani che considera questa la notizia della settimana e conferma la larga maggioranza di chi dice di “essere informato circa i fatti”. Qui il 66 per cento ritiene che l’Italia (il governo) non dovrebbe schierarsi, il 14 per cento è invece pro-Israele e il 6 per cento pro-Palestina. Il 15 per cento (sempre cifre contenute) dice “non so”. E se scoppia una “guerra aperta”? Sparpagliamento. Per Israele è la maggioranza degli elettori di FdI. Per la Palestina la maggioranza degli elettori di M5S. Il resto si articola. Siccome i paesi europei danno aiuti alla Palestina, dati i fatti noti, tali aiuti vanno tolti, almeno da parte italiana? Risposte divise a metà. L’attacco di Hamas è: terrorismo (il 48 per cento), un atto di guerra (39 per cento), una legittima difesa (6 per cento che per gli elettori di 5 Stelle arriva al loro 15 per cento). La risposta di Israele ad Hamas (bombardamenti): legittima rappresaglia 33 per cento; reazione eccessiva 28 per cento; aggressione 24 per cento. E ancora: sugli abusi nel tempo di Israele ai danni dei palestinesi che spiegano la violenza di Hamas: 38 per cento dice sì, 36 per cento dice no. Si va verso una guerra aperta? 59 per cento lo teme. 18 per cento dice che si conclude presto. 23 per cento non sa. E la soluzione? Fare finalmente i due Stati: lo dice il 64 per cento; fare uno Stato unico Israele-palestinese 18 per cento.
- Una slide di Ipsos – infine – è circolata sul ruolo degli americani confrontando questa situazione rispetto alla situazione del 2014. Gli Stati Uniti d’America come mediatore? dice sì il 27 per cento degli americani (era il 36 per cento); USA per niente coinvolti? il 21 per cento (era il 27 per cento); USA supporter di Israele? sale al 41 per cento (era al 22 per cento); USA supporter della Palestina? (era e resta al 2 per cento); non sa il 10 per cento (era il 12 per cento).
Nel quadro globale
Qualche elemento sull’immediato coinvolgimento del global players.
- Quest’ultima slide ha a che fare con lo straordinario coinvolgimento del presidente americano Biden nei giorni scorsi, che ha smentito la diceria di svolgere il mandato in modo sonnacchioso. Per ciò che ha detto (tra cui l’impensabile affermazione “non rifate i nostri errori”) e per come lo ha fatto. Alzando la tutela politico-militare di Israele sulla sua stessa vicenda identitaria in modo forte, ma al tempo stesso profilando la natura di un “consiglio” di saggezza che Netanyahu non può far finta di non aver sentito. Biden tenta insomma di contenere la reazione israeliana su Gaza, per proteggere anche la reputazione internazionale di Israele e per non modificare ulteriormente questo schema di tendenziale di favore che abbiamo visto in Italia e che più o meno riguarda tutto l’Occidente. Tutto l’Occidente significa anche gli Stati Uniti e sappiamo che Biden è in campo anche per la scadenza elettorale del 2024. Vedo che una certa stampa italiana orientata a sinistra non si fida e lo immagina invece a capo della nuova crociata dell’Occidente coprendosi a parole ma pronto a connettere le guerre regionali in un unico fronte. Per il momento questa lettura (che non arruola testate di tradizione progressista, da Le Monde a La Repubblica) non mi convince, a meno che si dimostri che, per togliere spazio a Donald Trump, Joe Biden sta per comprarsi i suoi contenuti e le sue parole d’ordine.
- Nello stesso giorno Vladimir Putin e Xi Jinping si presentano insieme in un bilaterale di immagine a Pechino. In cui ai giornalisti parlano di amicizia e di import export. Ma tra di loro è naturale che abbiano dato un’occhiata ai dossier spinosi. Anche per non lasciare l’agenda internazionale per giorni e giorni solo a Biden.
- Il mondo arabo – per iniziativa del paese confinante con Israele e con la Striscia di Gaza, cioè l’Egitto, promuove ora una sorta di iniziativa parallela nell’ottica “moderata” del sistema di alleanza della Palestina. È vero che non ci saranno americani, cinesi e russi (forse l’inviato di Putin per il Medioriente ci sarà). Ma lo scopo è di allineare il grosso del sistema mediterraneo che contiene la sua inquieta e ora drammatica fascia est, in cui creare un po’ simmetricamente a ciò che ha fatto Biden con il governo israeliano anche qui una moral suasion con chi rappresenta ora – in forma così radicalizzata – la Palestina. Per Spagna e Italia è un’opportunità di posizionamento. E in ogni caso il ristabilimento di un’area di dialogo e negoziato tra soggetti che hanno sempre avuto un ruolo e di soggetti che si stanno apprestando a nuovi ruoli (come l’Arabia Saudita) è cosa da guardare con interesse apprezzando anche che annunciata la conferenza si va sbloccando la colonna umanitaria ferma agli ingressi di Gaza e altre cose.
- Per l’Europa i media in questo periodo parlano di “ricerca di posizioni condivise”. Ci sono stati vari pasticci. Sugli aiuti alla Palestina ci sono state giravolte. Il viaggio a Tel Aviv dei vertici europei (von der Leyen e Metzola) è avvenuto ma con discussioni. Sugli equilibri tra condanna dell’attacco di Hamas e critiche per le condizioni dei palestinesi a Gaza pende l’incertezza della vicenda, credo tra le posizioni dei popolari e dei socialisti. Per noi comunque non è una sorpresa che la posizione europea resti di rimessa. Succede anche quando non dovrebbe succedere.
Spunti personali
Riprendo qualche spunto personale per segnalare il cambiamento di fondo del clima di una convivenza possibile che si è andato degradando nel tempo.
- Ho fatto cenno alla prima occasione della mia vita, nemmeno ventenne, era il 1967, in cui mi toccò parlare la notte dell’avvio della guerra dei sei giorni a nome di una piccola federazione politica giovanile di un argomento in cui ogni parola suonava difficile perché priva di esperienza personale. I luoghi erano quelli della Bibbia e del Vangelo. I riferimenti storici erano quelli alla guerra fatta dalla generazione precedente. Il rapporto tra difesa e sicurezza era quello del tutto inimmaginabile in Europa di uno Stato accerchiato in permanenza costruito in un territorio rispetto a cui le radici erano rivendicate da ebrei e palestinesi con riferimenti di millenni precedenti. Ma la pur frettolosa preparazione che hanno i ragazzi quando si cimentano con cose grandi aveva tre nodi già chiari: cosa, in vicende così intricate, è connesso a democrazia e cosa appartiene a poteri tribali in cui i popoli finiscono sempre per essere un oggetto; che ruolo ha la religione in contesti in cui essa è secolarizzata e luoghi in cui essa è teologizzata e ideologizzata come regola di potere (è Dio che mi comanda di ucciderti o di fare la guerra). Infine, lo schema simmetrico dei reciproci falchi che tiene in piedi e in complicità i reciproci estremismi.
- Pochi anni dopo, era il 1971, ero ai miei primi lavori ma con la grande opportunità di svolgere una missione di ricerca nei paesi del bacino del Mediterraneo, addirittura per una iniziativa del commissario europeo all’industria e alla tecnologia l’italiano (già mitico allora) Altiero Spinelli. Non racconto tutta la storia. Dico solo che mi trovavo ad Algeri nella stanza del segretario generale della Lega siderurgica araba, per avviare le rilevazioni sulle prospettive industriali decennali di tutti i paesi della riviera sud del Mediterraneo (attorno a cui il commissario avrebbe studiato piani commerciali legati al loro sviluppo dopo dieci anni non – cosa rivoluzionaria – rifilargli nei piani il nostro surplus). Un manager di famiglia borghese, non un mujahidin, terre di famiglia allo Stato in cambio di posti di potere economico, laureato in America e a Mosca, interlocutore abituale degli europei. Si chiamava Omar Grine. Stanza disadorna con una carta geografica appesa sghemba dietro la scrivania. Al posto di Israele un buco fatto con il sigaro che fumava come nei film americani. Gli chiesi (credo coraggiosamente); “ma quel buco lo ha fatto lei?”. E lui replicò:
“il mio problema è di tenere insieme una Lega di venti paesi arabi e islamici su una materia – l’acciaio, chi lo produce chi può solo comprarlo – che già per suo conto è fonte di conflitti”.
Da quell’epoca – soprattutto in anni di impegno in funzioni istituzionali – feci una decina di viaggi-missioni in paesi arabi e tre volte in Israele e Palestina. Tralascio i paesi arabi (basti qui aver detto la storia di Algeri). Brevi aneddoti, invece, sulla trincea tra Israele e Palestina.
Alla ricerca di una cultura organizzativa della convivenza fra palestinesi e israeliani
- Ero a Hebron mentre Netanyahu (suo primo governo) piazzava ondate di coloni dall’est europeo (tradizionalisti, ultrareligiosi, armati di kalashnikov), in case nuove di tre o quattro piani con scolpita la thorà, case avute gratis per svolgere quel ruolo di presidio in comuni appartenenti all’Autorità palestinese. Ogni tanto volavano i sassi dei palestinesi. Che a fronte del monumento storico in città caro agli ebrei (la tomba di padri e madri dell’ebraismo biblico) avevano fatto il loro monumento (all’Intifada) con un mucchietto di sassi in una piazza. Gli accordi di Oslo erano nelle mani disarmate di poliziotti del nord Europa. Difficile intermediazione. Ma straordinaria invece quella dei nostri carabinieri. Mediterranei, spesso meridionali. Come fossero al paese. Tornei di calcio tra israeliani e palestinesi. Karaoke insieme con Gianni Morandi. Corse campestri nei sacchi. E sostanziale rispetto del sistema di giustizia tribale gestito in modo invisibile dai palestinesi. Più che pace, era una cultura organizzativa della convivenza.
- Tra gli incontri a Tel Aviv viva impressione mi fece Shimon Peres. Uno della generazione che aveva insegnato alla nostra il riformismo, il dialogo, l’anti estremismo. Ma anche una generazione di veri patrioti. Era l’epoca in cui lavorando nelle istituzioni dei Paesi europei sarebbe stato normale stare spesso dentro piani e progetti legati al tema della convivenza operosa. Quindi asili previsti per farli crescere insieme (non come cose eccezionali), borse di studio per progetti integrati, e altro.
- Una rete – questa, di cui stiamo parlando – culturale, educativa, commerciale, tra cui colloco anche l’invito personale a un certo punto ricevuto dalla Associazione degli imprenditori palestinesi, credo a Ramallah per discutere il loro problema: firmare o no la ceramica e altri prodotti di buon artigianato che vendevano soprattutto a israeliani e americani? Mi spiegarono i rischi. Risposi con gli esempi studiati nei centri contro la tossicodipendenza dove si producevano generi alimentari e si ponevano lo stesso problema. Più o meno dissi: se rischiate qualche flessione nelle vendite a breve, costruite però la reputazione del vostro popolo e della vostra comunità e nel medio lungo ciò vi ripagherà anche economicamente. Ero per il sì al ‘made in Palestina’. Sarebbe diventato un modo di rispettarsi.
Racconto queste cose solo per dire che di quella stagione piena di segni di convergenze non c’è più l’ombra né a Gaza, né in Cisgiordania e forse nemmeno a Gerusalemme, fatti salvi certi ambiti diciamo elitari e altamente culturali.
Questo è il risultato del rapporto tolto alle colombe e messo in mano ai rispettivi “falchi”.
Un tessuto che andrebbe quasi interamente riconcepito e riprodotto.
Difficile allora. Adesso al centro di quel “E dopo?” a cui ha alluso Joe Biden e su cui c’è chi vede il baratro, chi non azzarda previsioni. In questo momento la sola iniziativa che potrebbe introdurre uno sguardo allungato al “dopo” è proprio quella promossa al Cairo ancora con una situazione di Gaza non irreversibilmente compromessa.
La rappresentazione delle vie d’uscita
Scusate la digressione su queste vicende. Volevo trapuntare questa lettura dei fatti di oggi, comunicando alcuni sentimenti di complessità di chi ha vissuto la parte sostanziale del lungo dopo guerra. Una parte che comprende anche la ragione della “colpa dell’Occidente” per lo sterminio degli ebrei – certamente problema dei tedeschi, degli italiani, degli austriaci, dei collaborazionisti francesi e di altri paesi occupati dai nazisti, non problema degli inglesi che alla fine furono decisivi nella operazione costitutiva di Israele – che portò nel 1948 alla fondazione dello Stato di Israele. E ciò nel contesto di una guerra voluta dagli Stati arabi che farà svanire il parallelo obiettivo, cioè la parallela costituzione dello Stato della Palestina e che per i palestinesi sarà ricordato come la “Mobka”, la catastrofe. Poi vi è un datario pieno di tragedie e di speranze con mille fatti scritti in quella storia che non va mai esclusa dalle nostre riflessioni anche quando essa si ripete dimostrando così di non essere sempre magistra vitae.
A questa complessità però dovremmo cercare di stare legati culturalmente ed emotivamente anche nel momento in cui rispondiamo a un sondaggio su Israele/Palestina. Anche quando vediamo una violenza intollerabile che trascinerà altre violenze uguali e contrarie. E ciò non per evitare di prendere posizione. Anzi. Ma per dare – come ha scritto Sergio Fabbrini su Il Sole 24 ore – “sostegno a Kiev e a Tel Aviv, ma senza tacerne gli errori” – era proprio questo il titolo dell’articolo[3].
Prendere parte, scegliere anche una parte, leggere bene le cose connesse, sviluppare domande e soprattutto mantenere un senso critico da non risparmiare verso chi sceglie la forma preferita dai falchi guerrafondai. Quella di incendiare con le parole le parole altrui, quella di immaginare che ogni atto di violenza sia una delega data da un popolo sofferente per decisione diretta di Dio ad una mano armata disposta alla vendetta.
Giovanni Cominelli, muovendosi in questa logica in cui mi riconosco, ricorda un passaggio essenziale dello scontro attorno a cui non possiamo dire che sia venuta meno la ragione storica dello sterminio del popolo ebraico parlando della difesa attuale di Israele. Cioè, il fatto che lo Statuto di Hamas e la costituzione di alcuni paesi islamici (tra cui l’Iran) continuano a prevedere la cancellazione con la forza di Israele[4]. Esattamente quel buco incendiario sulla carta geografica che mi resta in mente dal 1971 che ho prima citato.
È vero che l’evoluzione storica dei rapporti di mediazione ha portato – negli anni progettuali che ho ricordato – alcuni di quei paesi (certamente l’Egitto e la Giordania) a rimuovere dalle proprie regole costituzionali il proposito imperativo della distruzione di Israele. Un percorso decisivo che però si è fermato. Dopo di che arriva la lista anche sterminata di critiche, politiche, culturali, di metodo. Ma i nodi storici non devono essere omessi. E possono essere raccontati con la pedagogia civile che per queste cose le nostre democrazie devono avere. Ascoltando tutte le voci in campo.
Conclusioni
Le domande poste in questi giorni a coloro che sono considerati esperti di questo equo ascolto ruotano attorno alle forme della reazione israeliana nei territori governati da Hamas e alla pressione di contenimento del carattere distruttivo che americani da una parte e sistema euromediterraneo (comprensivo di stati arabi molto influenti) può essere esercitata per contenere la dinamica di scontro a livello locale senza ampliarne i coinvolgimenti su scala globale.
Con tutta una serie di derivate che riguardano assetti e posizionamenti dei due soggetti in campo che devono poi tornare a vivere in ambiti attigui e addirittura intrecciati e dei molti soggetti nazionali e politici che costituiscono il cerchio esterno della crisi mediorientale. Nel racconto fin qui fatto ci sono alcuni frammenti informativi per ricordare che queste risposte non dipendono solo dalla violenza scaturita dagli episodi del 7 ottobre ma dal lungo, lunghissimo processo che trasmette ormai a quasi quattro generazioni i suoi irrisolti.
Vi prego di accettare la mia onesta impossibilità di dare risposte valide ora a queste domande.
Pur essendo oggi chiari i venti di guerra che riguardano vari attori in campo (dalla portaerei americana attiva al largo di Israele ai missili che partono dal Libano) che possono indurre al pessimismo. Ma chiare anche le iniziative assunte per aprire un terreno di negoziato che potrebbe avere interferenza non marginale sulle poste in gioco.
Il mio compito è quello di dare alcune spiegazioni ai nodi problematici attraverso cui la rappresentazione del nostro tempo viene spesso imbastita non solo per impedirci di partecipare alle soluzioni ma proprio a monte, per impedirci, ancor prima, di capire di cosa si discute.
Non ho studiato dai gesuiti e per questo non ho l’abitudine di evitare le risposte ponendo a mia volta domande. Ma questa volta mi accontenterei di aver stimolato amici e ascoltatori a cogliere e leggere nello sviluppo del dibattito dei prossimi giorni (ma anche a più lungo termine dei prossimi mesi) elementi, se vi saranno, per favorire quelle risposte, che oggi credo nessuno abbia, agli argomenti qui presentati.
[1]“La storia non è maestra di vita”, Ilmondonuovo.club, 20 ottobre 2023 (versione audio).
Cf. https://stefanorolando.it/?p=8239.
[2] Edgar Morin, “La guerra in Israele. Respingere l’odio”, La Repubblica, 20 ottobre 2023.
[3] Sergio Fabbrini, “Sostegno a Kiev e a Tel Aviv, ma senza tacerne gli errori”, Il Sole 24 ore, 15 ottobre 2023.
[4] Nella Premessa dello Statuto di Hamas è scritto:
“Israele sarà stabilito e rimarrà in esistenza finché l’Islam non lo ponga nel nulla, così come ha posto nel nulla altri che furono prima di lui”.
E all’art. 7 è scritto:
“L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i musulmani non li uccideranno”.