Storia

Democrazia Futura. 8 settembre, 80 anni, interrogativi

di Stefano Rolando, insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM. Condirettore di Democrazia futura e membro del Comitato direttivo di Mondoperaio |

Perché la discontinuità interpretativa del passato prossimo della nostra storia si è fatta governo del Paese.

Stefano Rolando

L’ottantesimo anniversario dell’armistizio dell’8 settembre 1943 pone seri interrogativi non solo in sede storiografica ma anche perché negli ultimi anni “la discontinuità interpretativa del passato prossimo della nostra storia si è fatta governo del Paese”. Così Stefano Rolando in un pezzo intitolato “8 settembre, 80 anni, interrogativi[1]“. Le narrazioni di quattro punti controversi che hanno nutrito la formazione della nostra generazione nata nel dopoguerra (l’8 settembre 1943 e il crollo dello Stato, l’8 settembre e le istituzioni, l’8 settembre e l’armistizio.  l’8 settembre e la guerra) – scrive Rolando – “ci hanno avvilito, ferito, turbato. E tuttavia hanno contribuito ad una ricostruzione identitaria che era stata polverizzata. E su cui l’Italia ha fatto un grande cammino da quel 1943. Un cammino che contiene l’affermazione del pluralismo democratico, del rispetto dell’avversario politico, del diritto di parola, dell’importanza della ricerca della verità nel dibattito pubblico in cui la parola patria è sincera fin quando non nasconde la parola “nazionalismo” e l’espressione interesse nazionale è legittima fin quando non diventa “primatismo” anziché voce globale “alla pari”. Poi è arrivata la fase transitoria della seconda Repubblica – ricorda l’esperto di comunicazione pubblica –  Il populismo ha stemperato quasi tutto in una miscela di possibilismi. L’importante è stato abbassare la soglia critica, la razionalità, il rapporto tra diritti e doveri […] Lo scorso anno Fratelli d’Italia, il partito alla guida del governo, ha vinto tenendo nel simbolo la fiamma tricolore della continuità post-fascista, promessa di riscossa e rivincita, con la sola differenza che una volta poggiava sul rettangolo tombale di chiara memoria, ora su una semplice lineetta nera. Ma quello resta il simbolo di una storia non disconosciuta” osserva Rolando che, denuncia infine come “La discontinuità interpretativa del passato prossimo della nostra storia si è fatta così governo del Paese. E in questa curva di orientamenti che pesano nella vita collettiva prendono piede varie forme di delegittimazione del percorso di lettura della storia con i codici costituzionali a cui ho accennato.  Ogni giorno percepiamo che il “si ma” o il “distinguiamo” o il “ma anche” che sono le formule di prudenziale presa di distanza che si congiungono con elementi repressi o – come ha scritto nella sua trilogia Antonio Scurati – depositati nella pancia degli italiani, creando condizioni che erano inaspettate riguardo al datario ufficiale e anche quello ufficioso delle celebrazioni repubblicane […] Quindi fenomeni di rilettura e di riscrittura. la vetta delle classifiche (100 a 10, sul secondo in classifica) per la domanda del libro del generale Roberto Vannacci [pone] un interrogativo non solo sulla cultura politica che governa, ma anche su un cambiamento di base della domanda di cultura politica che serpeggia nel Paese.  Perché anche l’8 settembre fu il problema della frattura tra Paese e Istituzioni. E forse anche qui si va aprendo una divaricazione tra società e vuoto della pedagogia sociale e civile che ogni democrazia deve coltivare criticamente ma senza dare per scontato niente. Tutti si devono porre l’interrogativo riguardo a questa insufficienza. Giorgia Meloni non ha tutte le colpe del cambiamento. Sia chiaro.  Ma – conclude Rolando – per come è stata amministrata la qualità della democrazia politica italiana è lei che dimostra di essere tra chi se ne avvantaggia di più.

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Dunque, oggi è l’8 settembre. I più diranno che è una giornata spensierata. Appena fuori dalle vacanze, ancora non a pieno ritmo, a fronte di un weekend ancora spendibile per tenerci fuori dagli stress. Senza dubbio.

Certamente lo pensano i giovani, forse buona parte della generazione di mezzo.

Tuttavia, se faccio riferimento alla mia generazione – pur nata nel dopoguerra – questa data suona emblematicamente altro. Storia, memoria, oscurità.

Si erano riformate le famiglie, era tornata la centralità del lavoro, si ricostruivano case e fabbriche.

E tuttavia i nostri genitori non parlavano volentieri di tutto. C’erano vari e prolungati silenzi.

Sulla guerra, sulla guerra civile, sui morti e i dispersi, sulla loro gioventù spezzata, sulle crisi di identità.

Il lessico familiare era tutto sulle cose da fare per tornare ad avere futuro.

Per noi ragazzini, il passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta, significò riprenderci magari un po’ casualmente la nostra storia immediata, il nostro (e il loro) passato prossimo.

Un articolo, un libro, un brano alla radio, un programma in tv, un film, una musica datata.

Bastava poco per fare qualche luce. Per avere qualche consapevolezza. C’era ben inteso chi leggeva, studiava, confrontava.

Ed ecco che si andarono formando il nostro 25 luglio, il nostro 8 settembre, il nostro 25 aprile.

Dico “nostro” perché in parte doveva essere risintonizzato con i cambiamenti intervenuti.  La pace, l’indipendenza, i diritti costituzionali.

E tuttavia quei silenzi – non di tutti, ma tendenzialmente prevalenti – ci fecero capire le ambiguità, le dicotomie, le doppie verità. Insomma, i fattori divisivi di una data simbolo.

Fu così proprio la Costituzione (mia gemella, nata come me all’inizio del ’48) a dettare il codice di interpretazione del vero e del falso che la storia sempre contiene.

Vediamo i punti più controversi.

L’8 settembre 1943 e il crollo dello Stato. “Dissoluzione” hanno detto i maggiori storici contemporaneisti. Ma anche imputando al fascismo la consapevolezza, già nel luglio del ’43, dell’esito disastroso della guerra voluta da Mussolini e quindi la dissoluzione, prima ancora dello Stato, dello stesso regime.

L’8 settembre e le istituzioni. Anche qui è raro trovare un’analisi storica motivata che salvi la monarchia (e anche la figura ambigua di Badoglio) dalla fuga da Roma, pur nella tenaglia tra tedeschi e americani, lasciando la gente a subire quella tenaglia. Oggi sul Corriere della Sera la recensione dell’ultimo contributo storico di Marco Patricelli in questo senso.

L’8 settembre e l’armistizio. Ma che altro si doveva fare per non continuare a far massacrare i nostri ragazzi sui fronti balcanici, russi, africani? Chi poteva e può oggi considerare un “valore di fedeltà” da perseverare, quello nei confronti dei tedeschi che cominciavano a pagare il prezzo della guerra di invasione in mezza Europa e che si apprestavano, negli ultimi due anni di guerra, a compiere i peggiori crimini collettivi del secolo?

E infine l’8 settembre e la guerra civile. Nell’aggiornamento degli storici sul perché della guerra civile è sempre più forte e condivisa (ci sono tornati sopra di recente sia Emilio Gentile sia Elena Aga Rossi) l’idea della deriva rassegnata di Benito Mussolini con il 25 luglio 1943 fino al punto di scrivere che “avrebbe voluto scendere dal treno della storia” nell’evidenza della disfatta militare in corso. Ha qualche senso far passare poi il ricatto subito da Adolf Hitler che lo liberò dal Gran Sasso imponendogli lo stato fantoccio agli ordini degli occupanti tedeschi come “l’orgoglio della patria”? Un “orgoglio” che rese inevitabile appunto la guerra civile per cacciare l’invasore e per restituire dignità e reputazione all’Italia intera nel consesso internazionale (anche al netto degli episodi bui che sono stati documentati).

Queste narrazioni che hanno nutrito la nostra formazione.

Ma ci hanno anche avvilito, ferito, turbato. E tuttavia hanno contribuito ad una ricostruzione identitaria che era stata polverizzata. E su cui l’Italia ha fatto un grande cammino da quel 1943.

Un cammino che contiene l’affermazione del pluralismo democratico, del rispetto dell’avversario politico, del diritto di parola, dell’importanza della ricerca della verità nel dibattito pubblico (lo dico a proposito di molte insorgenze in questi giorni contro qualcuno che con questo spirito costituzionale ha richiamato il tema a proposito di un grande insoluto italiano), in cui la parola patria è sincera fin quando non nasconde la parola “nazionalismo” e l’espressione interesse nazionale è legittima  fin quando non diventa “primatismo” anziché voce globale “alla pari”.

A lungo queste narrazioni sono diventati codici interpretativi tendenzialmente condivisi.

Poi è arrivata la fase transitoria della seconda Repubblica.

Il populismo ha stemperato quasi tutto in una miscela di possibilismi. L’importante è stato abbassare la soglia critica, la razionalità, il rapporto tra diritti e doveri.

E alla fine – in un terzo tempo che ancora non ha un nome – abbiamo contato i cittadini ancora partecipativi, al momento più alto di una democrazia, cioè il voto. Il 60 per cento non è più presente all’appuntamento, 6 su 10 non accettano la remora che se tu non ti occupi della politica è la politica poi ad occuparsi di te. L’elettorato più militante resiste e i partiti spartiscono il voto che c’è contandolo come se fosse 100.

In questo contesto è accaduto nel 2022 – dopo un anno di attenuazione dello sconforto per il declino e anche per le paure insorgenti, grazie al governo per nulla tecnico di Mario Draghi – che essendo il DNA del centrosinistra quello di dividersi per principio e il DNA del centrodestra quello di deporre le divisioni in occasione del voto per poi riprenderle con i risultati acquisiti, il voto residuale ha premiato l’alleanza di centrodestra diventato destracentro perché la destra più all’opposizione ha espresso il doppio dei consensi sia di Forza Italia che della Lega.

Fratelli d’Italia, il partito alla guida del governo, ha vinto tenendo nel simbolo la fiamma tricolore della continuità post-fascista, promessa di riscossa e rivincita, con la sola differenza che una volta poggiava sul rettangolo tombale di chiara memoria, ora su una semplice lineetta nera.

Ma quello resta il simbolo di una storia non disconosciuta. Non tanto nel senso del “fascismo” in quanto tale. Perché – anche per un fatto generazionale – è vero che il gruppo dirigente di Fratelli d’Italia è fuori dal fascismo in senso stretto. Ma non è fuori dalla fedeltà all’Italia repubblichina, quella della “patria orgogliosa e fedele” di Salò su cui quel gruppo dirigente si è formato negli anni Settanta e Ottanta confermando la propria etica politica.

Questa cosa non è un mio originale pensiero. È affermata da storici, da analisti, da menti lucide ed esperte. La terrei in evidenza per discutere della giornata di oggi e dei suoi significati.

Gianfranco Fini quando AN fu sdoganato dall’opposizione continua e portato al governo da Berlusconi ricambiò dichiarando il fascismo “un male assoluto”.

Va ricordato che fu quel fatto a far nascere politicamente Fratelli d’Italia. Ora può anche essere che la contaminazione con la responsabilità anche internazionale di governo renda il partito e il gruppo dirigente di FdI più blando rispetto alla storia del ventennio. Ma esso è certamente più arroccato rispetto al significato della guerra civile interpretata dal biennio repubblichino. Come in un certo senso segnalano anche le “Tesi di Trieste”, ultimo documento ideologico approvato da Fratelli d’Italia prima dell’ultima svolta di governo e rimasto come documento di riferimento valoriale.

Discontinuità

La discontinuità interpretativa del passato prossimo della nostra storia si è fatta così governo del Paese. E in questa curva di orientamenti che pesano nella vita collettiva prendono piede varie forme di delegittimazione del percorso di lettura della storia con i codici costituzionali a cui ho accennato.  Quindi fenomeni di rilettura e di riscrittura.

Ogni giorno percepiamo che il “si ma” o il “distinguiamo” o il “ma anche” che sono le formule di prudenziale presa di distanza che si congiungono con elementi repressi o – come ha scritto nella sua trilogia Antonio Scurati – depositati nella pancia degli italiani, creando condizioni che erano inaspettate riguardo al datario ufficiale e anche quello ufficioso delle celebrazioni repubblicane.

L’8 settembre non è parte del datario ufficiale. Ma è parte della storia complessa che deve essere anno per anno rivisitata e capita. E la prova generale fatta il 25 aprile ci ha reso chiaro che l’ottantesimo del tratto 25 luglio-8 settembre ’43 – che cade nel legittimo silenzio del governo che è tenuto solo a parlare nelle feste comandate – trova vari esempi di cambiamento che pongono interrogativi.

Per esempio, la vetta delle classifiche (100 a 10, sul secondo in classifica) per la domanda del libro del generale Roberto Vannacci, che l’attuale ministro della Difesa ha considerato come “tesi impronunciabili per un esponente delle Forze Amate italiane”, oltre a farci chiedere se un generale, un prefetto, un diplomatico o una magistrato possano esternare al di là del loro specifico fin che sono in servizio, aprono un interrogativo non solo sulla cultura politica che governa, ma anche su un cambiamento di base della domanda di cultura politica che serpeggia nel Paese.  

Perché anche l’8 settembre fu il problema della frattura tra Paese e Istituzioni.

E forse anche qui si va aprendo una divaricazione tra società e vuoto della pedagogia sociale e civile che ogni democrazia deve coltivare criticamente ma senza dare per scontato niente. Tutti si devono porre l’interrogativo riguardo a questa insufficienza.

Giorgia Meloni non ha tutte le colpe del cambiamento. Sia chiaro.  

Ma per come è stata amministrata la qualità della democrazia politica italiana è lei che dimostra di essere tra chi se ne avvantaggia di più.


[1] Pubblicato sul magazine online il Mondo Nuovo,  8 settembre 2023. Cf. https://www.ilmondonuovo.club/8-settembre/.

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