Europa
In tempi di “world forum” (et similia) che piovono come le rane di “Magnolia” (anche nel nostro paese e nel nostro cinema), poco mondiali e ancor meno dialogici, val la pena di segnalare una recente iniziativa di riflessione un po’ meno estemporanea e casareccia, dedicata al futuro dell’industria e della creazione cinematografica europea.
A due anni di distanza dalla riunione di Copenhagen, si é tenuto a Cracovia dall’11 al 13 settembre scorso, il secondo vertice sulle politiche audiovisive dei paesi dell’Unione Europea, organizzato questa volta dal Consiglio d’Europa insieme al Polish Film Institute e al THINK TANK on EUROPEAN FILM and FILM POLICY .
Occasione preziosissima, come l’altra volta, per analizzare e valutare l’adeguatezza della regolazione e degli interventi pubblici nei mercati audiovisivi nazionali e a livello europeo.
Circa 160 esperti e testimoni da 32 paesi – tutti quelli dell’UE più alcuni “ospiti” – si sono impegnati nell’esercizio, con la stessa passione e voglia di chiarezza già dimostrata due anni fa, malgrado i ranghi ridotti e il notevole turnover rispetto al primo round (più della meta dei partecipanti non era a Copenhagen).
A costo di risultare banale e noioso, dirò ancora una volta che la rappresentanza italiana brillava come poche altre per la sua insufficienza, e per l’ assenza dei decisori pubblici (ma anche privati) in questione: i pochi connazionali presenti battevano altre bandiere europee, oppure esibivano lo statuto di “indipendenti”.
I lavori si sono aperti all’insegna del cambiamento profondo in atto nell’industria audiovisiva globale, e di conseguenza in quella europea (esplicito e promettente l’esordio di Henning Camre, responsabile del THINK TANK: “This meeting is about change”), a causa della spinta eversiva combinata di Internet e delle tecnologie digitali; ma purtroppo hanno tenuto fede solo in parte a questo ambizioso obiettivo.
Per capire la differenza tra progetto e risultati bisogna prendere in conto innanzitutto i troppi genitori dell’iniziativa di Cracovia, che tuttavia é stata resa concretamente possibile proprio da questa triplice convergenza fra THINK TANK, PFI e Consiglio d’ Europa.
Rispetto alla strategia originaria del gruppo di lavoro del THINK TANK, che tendeva a una forte focalizzazione sull’economia della produzione e distribuzione audiovisiva e sull’ impatto degli interventi pubblici nel settore, si é sovrapposta non tanto l’influenza degli operatori e decisori polacchi , piuttosto discreti e pertinenti nei loro contributi, benché caricatissimi dalla stagione euforica che stanno vivendo (ricchi finanziamenti pubblici, grande dinamismo produttivo, etc.); quanto quella del Consiglio d’Europa, che ha portato nel dibattito tutta la sua complessità istituzionale (ben al di là del suo strumento più noto, il Fondo EURIMAGES), allargandone forse eccessivamente i temi e gli orizzonti.
Sul piano metodologico, alla struttura rigidamente seminariale scelta per Copenhagen (poco tempo in sessione plenaria, lungo lavoro nei gruppi) si é sostituita una abbondanza di panel in seduta plenaria (con il conseguente “effetto Tavola Rotonda”), non sempre utili e convincenti, né sufficientemente interattivi con
Ne ha fatto dunque le spese quello che doveva essere il protagonista del Forum: il cambiamento. Basta guardare il documento finale (ancora provvisorio, e non endorsed dallo stesso Consiglio d’Europa) che raccoglie “Osservazioni, proposte e Raccomandazioni” fin troppo vaste, tra le quali sfortunatamente spiccano alcuni dei più classici “tormentoni” dell’ormai ventennale dibattito sull’ industria audiovisiva europea.
Così ci tocca ancora leggere di quote, di coproduzioni, di diritto d’autore, di anti-pirateria, di tax credit & tax shelter: tutte cose che hanno già fatto le loro prove, mostrato i loro effetti, che certo non vanno buttate, né semplicemente messe da parte. Ma nemmeno confuse con il rinnovamento strategico, di cui si sente oggi il bisogno; né con la risposta adeguata, e ancora mancante, alle sfide del nuovo contesto digitale.
In apertura del Forum un’apposita ricerca dell’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo di Strasburgo, impeccabilmente presentata dal solito André Lange, ha documentato il primato di circolazione internazionale (e d’incassi) delle coproduzioni europee rispetto ai film interamente nazionali: verità lapalissiana – che é bene comunque aver dimostrato una volta per tutte “scientificamente” – che andrebbe tuttavia incrociata con altri fattori, come il costo proporzionalmente più elevato dei film co-prodotti (sia in produzione che in distribuzione) e quindi la minore incidenza degli incassi sul ROI effettivo . In modo da capire meglio perché la soluzione co-produttiva non si generalizzi maggiormente , anzi…
Dove invece Lange ha sacrosanta ragione é nell’invocare la massima trasparenza e completezza di dati , su cui ancora l’audiovisivo europeo non può contare: un’ industria che continua a preferire l’opacità e che evita di mostrare completamente le cifre della sua economia, sceglie una dimensione “clandestina” , che ostacola di fatto l’intelligenza dei processi e delle tendenze in atto, e dunque ogni ambizione di consolidamento.
Anche per questo circola da tempo l’idea (che ritroviamo nelle Conclusioni di Cracovia) di vincolare l’assegnazione di finanziamenti pubblici a più precisi obblighi di informazione e di rendicontazione ; che siano anche la premessa di una maggiore accountability, sia dei soggetti beneficiari che degli enti erogatori, rispetto al recupero delle somme “prestate”, al compenso degli aventi diritto, e agli obiettivi culturali ed economici dell’ intervento.
Meno pertinenti al focus centrale del Forum sono apparsi altri temi, sfiorati durante i lavori, spesso in modo retorico e senza verifiche critiche adeguate. Temi, sopratutto, che rappresentavano un vero e proprio festival del déjà vu: dal vagheggiamento inerme di possibili major cinematografiche europee ( da contrapporre a quelle USA) al doveroso ruolo promozionale delle televisioni ( non solo pubbliche) nei confronti dei film europei ; dalla preoccupazione di incrementare la media literacy e la formazione dei pubblici giovanili fino agli anatemi rituali su pirateria e diritto d’ autore.
Proprio su quest’ ultimo punto non é stato difficile leggere la linea di confine tra difensivisti e innovatori, anche se il confronto tra le due posizioni non é stato quasi mai esplicitato con la dovuta chiarezza (e durezza): e questa linea coincide con l’atteggiamento verso i nuovi comportamenti di consumo instaurati dalle tecnologie digitali e dalla generalizzazione della Rete. Ne diffida, evidentemente , chi rifiuta di confrontarsi con le pratiche sempre più diffuse degli scambi di contenuti peer-to-peer , con l’ istinto e la cultura della condivisione, e li confonde con la pirateria a fini di lucro . Altrettanto fa chi considera il diritto d’autore un dato immutabile ed eterno , il solo modo di remunerare la creazione (audiovisiva) nei secoli a venire, dimenticando che si tratta di uno strumento “storico” (cioè che ha avuto una sua origine nel tempo, e avrà prima o poi una fine) e non di un valore assoluto o di un concetto metafisico.
Del resto quanti paladini ad oltranza della cosiddetta “cronologia dei media” (il sistema di scaglionamento nel tempo delle diverse finestre di sfruttamento dei film e dei prodotti audiovisivi : anche due anni fra l’ uscita in sala e il passaggio nella televisione generalista in chiaro!!), sopratutto nella vicina Francia, sono andati a Canossa negli ultimi mesi, dopo che le major hollywoodiane hanno espresso la loro disponibilità a riconsiderare questa strategia commerciale , e hanno cominciato a sperimentarne altre ?!
Anche su questo terreno, chiaramente più pratico e prosaico del concetto di proprietà intellettuale (cioè meno suscettibile di essere “contrabbandato” come valore assoluto e diritto naturale), la prova dei fatti mostra che la pura e semplice difesa degli assetti esistenti non ha alcuna speranza di arrestare i processi tecnologici ed economici in atto, e sopratutto di bloccare l’evoluzione profonda del comportamento degli utenti finali .
E’ a quest’ultima variabile, in particolare, che dobbiamo guardare se vogliamo capire cosa succede e dove andiamo. E’ proprio dal nuovo atteggiamento dei suoi spettatori, da una domanda sempre più decisa e diversificata, dalle inedite modalità di consumo che vanno emergendo, e dallo stesso rapporto del pubblico (sopratutto giovanile) con la tecnologia e con le condizioni economiche e temporali dell’ accesso ai film , che il cinema può dedurre i punti di riferimento, su cui costruire i suoi futuri paradigmi di funzionamento.
Perché di questo si tratta, e qualche voce a Cracovia l’ha detto (un indipendente come Don Ranvaud, la voce da Cannes di Jérôme Paillard, Ian Christie di EUROPA CINÉMAS, Thomas Mai, specialista nordico di new business, … oltre al “nucleo duro” del THINK TANK): il digitale, combinato con le logiche stravolte di un all IP world, sta facendo crescere nuovi paradigmi su come produrre, distribuire, promuovere un film, e addirittura su come concepirlo e crearlo, su come vederlo e come “usarlo” .
Le due deboli gambe , su cui si regge da sempre lo speciale statuto del cinema ( quello che giustifica il sostegno pubblico, la protezione dei mercati nazionali , il perenne consulto al suo capezzale ) nel quadro istituzionale europeo , sono la sua public value e la profitability
dell’ impresa cinematografica e dei suoi frutti. Non vanno certo abbandonate, anzi ! Riguardo alla prima , non é solo il Consiglio d’ Europa , ma anche molti governi nazionali , che insistono a voler verificare con sempre maggiore cura che il loro cinema continui ad assolvere le sue funzioni identitarie, contribuendo alla rappresentazione delle diverse culture europee . L’ importanza sociale, prima ancora che economica, della creazione cinematografica e della sua circolazione é stata considerata a Cracovia un punto fermo della visione europea di questo settore, che la distingue in linea di principio dalla prospettiva USA dell’ entertainment industry.
Ma tutte le parti coinvolte sembrano condividere altrettanto la seconda preoccupazione, di tipo pro-industriale: cioè il bisogno di migliorare la penetrazione dei film europei , sia sui rispettivi mercati locali che sull’ insieme del continente ( e a livello internazionale ).
Quest’ ultima linea di pensiero non ha mancato di suscitare qualche perplessità da parte, come sempre, di chi vorrebbe che la vita del cinema si reggesse prevalentemente sulla prima gamba, e che la seconda fosse addomesticata o surrogata dalla stampella del finanziamento pubblico. La diffidenza in questione esprime però preoccupazioni piuttosto astratte, e teme pericoli improbabili di estinzione totale per quella produzione “di qualità”, che non pretende necessariamente la consacrazione del botteghino, pur rivendicando la propria funzione sociale nel senso più ampio del termine. In realtà , come ribadisce un punto specifico delle Conclusioni, non si tratta di sottomettere la libertà d’espressione artistica ai gusti del pubblico di massa , ma di tener conto del fatto che “nel contesto della nuova offerta di contenuti digitali , il pubblico é sempre più in grado di decidere che film vuol vedere, quando e come.”
Il punto davvero controverso, che meriterebbe una riflessione molto più aperta, collettiva e permanente, un vero scambio senza veti e pregiudizi tra tutti gli attori del settore, é un altro.
Se guardiamo con franchezza le diverse pratiche che compongono il ciclo di vita del film, é difficile non accorgersi che tutte sono sottoposte oggi in misura considerevole a modifiche sostanziali sul piano tecnico, economico, persino estetico: modifiche promosse e guidate da fattori che attraversano e intrecciano le varie fasi del processo produttivo e distributivo.
Sia il finanziamento che la concezione di un progetto cinematografico oggi cominciano a percorrere strade nuove. Pre-vendite di biglietti, azionariato diffuso, sponsor del contenuto (o dell’artista) più che del business: una specie di corto circuito che fa dello spettatore un coproduttore , disposto ad anticipare la sua parte del costo (più o meno modesto ) di un prodotto che “vuole” vedere. Una paradossale “willingness to pay”, che appare simultaneamente al progressivo emergere di modelli gratuiti di varia natura nel funzionamento economico dell’industria audiovisiva: si vedano le anticipazioni sull’ ultimo provocatorio pamphlet di Chris Anderson , “FREE !”, più estremo e discutibile, ma anche più stimolante della sua precedente “profezia” sulla long tail dei prodotti culturali di minore appeal commerciale.
Come stupirsi, del resto, che il paradigma economico classico del cinema venga messo in discussione, in un quadro in cui l’ anticipazione di minimi garantiti é ormai un ricordo lontano, i soldi delle quote antenna TV si sciolgono come neve al sole , e calano persino gli incassi del mercato DVD ( e VHS )? Di fronte alle perplessità giustificate e crescenti su come si potranno finanziare i film, e quindi remunerare la creazione audiovisiva, nel futuro a medio termine, può bastare fare appello alla rinascita delle sale o allo sviluppo ancora incerto della distribuzione online?
Intanto anche la creazione diventa sempre meno un momento individuale , segreto, elitistico, per aprirsi a procedimenti più allargati, che vanno da scritture e realizzazioni collettive a pratiche di rielaborazione illimitata delle opere (secondo le abitudini crescenti al sampling, al reediting, alla semplice citazione, alle infinite manipolazioni che il digitale mette alla portata del singolo spettator , o ex-spettatore ).
Gli effetti della digitalizzazione sulla fase produttiva del film sono ormai sotto gli occhi di tutti e comincia a prevalere un bilancio positivo e consensuale dei mutamenti introdotti da questa migrazione tecnologica nelle routine e nelle professionalità del cinema , nelle sue attrezzature come nella sua cultura materiale e nei suoi saperi specifici : pensiamo alla affermazione trionfale del digital intermediate, che ben pochi operatori avevano previsto in Italia, persi magari dietro la retorica di segmenti in apparenza più “creativi” come la color correction o certi effetti speciali.
Nella distribuzione, digitale naturalmente, dei film in sala, vediamo apparire formule inedite, ancora marginali, ma che sembrano comunque molto più coerenti o compatibili delle procedure tradizionali con l’ insieme dei nuovi scenari tecnologici e commerciali, che si profilano all’orizzonte. La crescita delle piattaforme online arricchisce il panorama di altre opzioni, dai servizi VOD alle webTV e IPTV, da YOU TUBE a Daily Motion; e a partire dalla proiezione digitale o dalla distribuzione “virtuale” via satellite nasce in realtà una nuova filosofia dell’ esercizio e una concezione multimediale della sala ex – cinematografica.
Sembrano “saltare” o trasformarsi radicalmente molte funzioni e figure del vecchio sistema, mentre i tempi si comprimono, i costi si sbriciolano, le modalità di penetrazione e di accesso al mercato cambiano strada e trovano nuove, sorprendenti performance sulla Rete.
Tanto é vero che nelle Conclusioni di Cracovia si dice con chiarezza che “la digitalizzazione svolge un ruolo fondamentale nei modi in cui un film é fatto, distribuito, e visto. Le nostre politiche cinematografiche devono tenere pienamente conto del digitale, facilitando la rapida adozione di nuove strutture per la distribuzione e l’ esercizio, che sono ormai possibili e necessarie per far arrivare i film europei al loro pubblico.”
Ma se tutto ciò é di un’evidenza plateale riguardo alla distribuzione (e all’esercizio), come non vedere la ripercussione più o meno diretta di questo rinnovamento su tutti gli altri segmenti della filiera?
La tecnologia “pesante” (non solo in senso economico) che caratterizza l’audiovisivo può spiegare in parte questa eccezionale inerzia delle sue forme organizzative e della sua configurazione sociale. Se però spingiamo lo sguardo in territori vicini e non così dissimili della produzione culturale, é facile riconoscere l’evoluzione rapida e globale dei modelli classici di comportamento degli addetti e dei “consumatori”, il riposizionamento delle pratiche creative nel contesto della società, insomma l’avvento delle nuove logiche della comunicazione digitale.
Non citerò la solita industria della musica, bensì la letteratura, termine di paragone assai più pertinente e significativo: basta seguire le parole e i fatti di un autore non marginale come Paulo Coelho, per scoprire la metamorfosi incontenibile della figura forse più sacralizzata della nostra cultura, lo Scrittore. Coelho sembra aver capito molto più in fretta di tanti manager, esperti ed imprenditori culturali, che le cose stanno cambiando nel mondo della creazione e dell’ immaginario, dei libri come dei film e della musica, della loro fabbricazione e del loro consumo.
Il suo esempio (http:/www.lunchoverip.com/2008/02/paulo-coelho-wh.html) potrebbe spiegarci che le regole e i paradigmi tradizionali dell’industria culturale non riescono più a contenere una domanda diversa e ribelle, “liberata” dalla smaterializzazione digitale delle opere riproducibili (le “copie infinite”) e dall’agilità di movimento delle idee (cioè la “comunicazione”), consentita dalla Rete planetaria di Internet : la cultura si sta vendicando dell’ industria culturale (ci eravamo dimenticati che non sono la stessa cosa ?!), il bisogno d’ informazione e di cultura si rifiuta di farsi incanalare nel consumo monetizzato.
Tutto questo pone problemi seri, come tutte le transizioni profonde, a cominciare appunto dalla remunerazione della creazione, in un contesto dove i modelli di accesso gratuito alla comunicazione, alla cultura, all’intrattenimento sembrano prendere sempre più piede.
Pirateria, promozione, marketing, diffusione virale, diritto morale e copyright: tutte queste parole e concetti prendono un senso diverso e sorprendente nella prospettiva strategica di Coelho, e si ricompongono in una logica nuova, dove, se l’atto creativo é condiviso con i lettori/spettatori, anche le dinamiche commerciali non sembrano soffrire della libera disponibilità online di larghe parti o della totalità delle opere.
Ma la chiave di questa sintesi innovatrice sta proprio nel suo carattere globale . Nel capire e far capire che affrontare singolarmente ed isolatamente i diversi effetti della rivoluzione digitale e del WEB 2.0 significa scatenare tutte le possibili resistenze e miopie , tutti gli istinti difensivi, di chi ha qualcosa, anche poco , da difendere (o crede di averlo) nell’attuale assetto di sistema .
Dunque non é più il momento di organizzare seminari a raffica su “… e il digitale” oppure “…dall’analogico al digitale” , oppure ancora “Internet e… ” .
Ma di mettersi a un tavolo di lavoro serio, con mente aperta e voglia di sapere, e provare a disegnare ipotesi credibili sui nuovi modi di fare cinema, televisione, comunicazione audiovisiva, che lo scenario attuale può suggerire. I veri paradigmi innovativi hanno sempre radici profonde nei bisogni della società , logiche più radicali di quelle pre-esistenti, producono discontinuità impietosa e non possono evitare di fare vittime (sopratutto in chi fa resistenza): salvo restituire il costo dell’innovazione, una volta riconosciuta ed integrata nel tessuto social, in benefici concreti per l’interesse generale.
Questa é la riflessione e il lavoro che mi sembrano mancare clamorosamente nel mondo del cinema (e di quello italiano in particolare) e dell’audiovisivo. E che anche a Cracovia avrebbero meritato più concentrazione e priorità assoluta. Una decisa focalizzazione degli sforzi collettivi di analisi e di immaginazione sul tema del futuro: che é digitale, che é globalizzato e interconnesso, che é fatto di condivisione più che di esclusività. Ma sopratutto che é già qui !
Un futuro che non si può semplicisticamente ridurre ai balzi tecnologici (2, 4, 1000 K, HD e Super HD , banda larghissima e velocissima , l’eterno ritorno del 3D, etc.), spesso nel vuoto; alle incognite finanziarie, pur così funestamente d’attualità; all’illusione di un uso solo strumentale della Rete. Come se questa non fosse invece il nuovo sistema nervoso del pianeta, la matrice dei futuri equilibri, il nuovo DNA della comunicazione e della creatività, con cui deve confrontarsi ex novo ogni prospettiva, che voglia essere strategica.
Citiamo ancora alla lettera le Conclusioni di Cracovia: “il compito di una politica cinematografica é quello di facilitare la transizione al nuovo, non di preservare le vecchie strutture e modalità operative, che stanno per essere spazzate via”.
Questo significa l’impegno concreto di lavorare alla definizione dei nuovi paradigmi economici e creativi, il coraggio di riconsiderare le procedure operazionali e adeguare le infrastrutture del “sistema cinema“, la forza e la determinazione di orientare le politiche nazionali e comunitarie verso il cambiamento, a vantaggio di tutta l’industria audiovisiva europea. Una bella agenda , senza dubbio , per i seguiti – speriamo prossimi – del THINK TANK di Copenhagen.
Ma sopratutto per i vari attori istituzionali (nazionali e comunitari), per i sistemi di regolazione e di sostegno finanziario, per i Ministeri, le Agenzie e i Commissari EU: insomma per quella presenza dell’interesse pubblico nel cinema e nell’audiovisivo , intrinseca al cosiddetto “modello europeo”, e destinata, di fronte all’oggettiva restrizione delle risorse disponibili, ad assumersi fin d’ora un ruolo nuovo e ben più determinante.
E ricordiamoci che “la sola industria che non si occupa del futuro é quella che non ne ha”.
Consulta il profilo Who is Who di Gaetano Stucchi