La più grande strage dell’Italia repubblicana ha avuto un esito giudiziario di eguale imponenza. La verità politica ha prevalso, senza alcun pudore né misura, sulla verità giudiziaria. Ciò significa essere tornati alle prime ore della carneficina del 2 agosto, quando senza uno straccio di prova, i partiti proclamarono che mandanti ed esecutori di quel pauroso massacro erano fascisti. Su questa base di carattere prevalentemente politico si è dato vita ad una vera e propria un’operazione che in nome di un valore condiviso come l’antifascismo (al quale si deve la legittimazione alla nostra repubblica) ha lastricato la strada alle sentenze dei magistrati.
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Una strage quasi dimenticata
Per quarant’anni hanno alternato una catena di responsabilità, che sono delle semplici varianti di una spiegazione unica. Prima alla sbarra sono stati chiamati i fascisti del Msi, poi quelli delle organizzazioni giovanili e non (come Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo e i killers professionali dei Nar). Infine si è dilatato il cerchio fino a comprendervi i servizi segreti e la massoneria “deviati”, un organismo internazionale come Gladio, e ora addirittura la Nato e quasi la stessa alleanza atlantica. Ad essere esclusi sono quelli che costituirono l’Unione sovietica e i loro protettorati dell’Europa orientale.La più grande strage dell’Italia repubblicana ha avuto un esito giudiziario di eguale imponenza. La verità politica ha prevalso, senza alcun pudore né misura, sulla verità giudiziaria. Ciò significa essere tornati alle prime ore della carneficina del 2 agosto, quando senza uno straccio di prova, i partiti proclamarono che mandanti ed esecutori di quel pauroso massacro erano fascisti. Su questa base di carattere prevalentemente politico si è dato vita ad una vera e propria un’operazione che in nome di un valore condiviso come l’antifascismo (al quale si deve la legittimazione alla nostra repubblica) ha lastricato la strada alle sentenze dei magistrati. Per quarant’anni hanno alternato una catena di responsabilità, che sono delle semplici varianti di una spiegazione unica. Prima alla sbarra sono stati chiamati i fascisti del Msi, poi quelli delle organizzazioni giovanili e non (come Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo e i killers professionali dei Nar). Infine si è dilatato il cerchio fino a comprendervi i servizi segreti e la massoneria “deviati”, un organismo internazionale come Gladio, e ora addirittura la Nato e quasi la stessa alleanza atlantica. Ad essere esclusi sono quelli che costituirono l’Unione Sovietica e i loro protettorati dell’Europa orientale. Lo storico sardo prosegue spiegando le ragioni per le quali andrebbe riesplorata la pista palestinese,
Un tribunale che emette sentenze definitive dopo quarant’anni dagli eventi non si può celebrare come il palazzo o lo scrigno della giustizia, perché è l’umiliante trionfo del suo contrario. Il modo più serio per evitare questo esito sarebbe quello che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nell’accettare il secondo mandato al Quirinale si è impegnato a fare: una riforma radicale dell’ordinamento giudiziario. Senza di esso lo Stato di diritto in Italia continua a non esistere, anzi ad essere molto spesso una farsa.
In questo intervento intendo soffermarmi sugli ostacoli che, temo, hanno reso la sentenza, articolata in diversi gradi di giudizio, per la terribile strage del 2 agosto 1980, nella stazione ferroviaria di Bologna, priva di grande e dovuto appeal presso la popolazione. E’ questo un segno dell’indifferenza, se non dell’indignazione, per il vero e proprio baratro, se non si vuole dire bassifondo, in cui è precipitata dopo un ciclo di massimo consenso la credibilità dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Siamo a un passo avanzato della sua completa de-legittimazione.
Il contenzioso tra politica e magistratura dura ormai da trent’anni.[1]
I giudici troppo spesso e disinvoltamente vengono accusati di eccessiva condiscendenza e resa al populismo politico. Non porta, però, da nessuna parte reagire col populismo contrapposto, cioè giudiziario (anche se si tenta di circoscriverlo ai pubblici ministeri). La loro autodifesa a oltranza, in effetti, li ha colpevolmente indotti
“a rinunciare ad ogni critica anche laddove non vi erano dubbi vi fosse stata un’impropria interferenza nell’arco di discrezionalità della politica”[2].
Mi sono, infine, sforzato di offrire uno spaccato di Bologna, come l’hanno vissuta anche quanti, come le giovani generazioni diventate ostaggio del terrorismo fascista, non amano le “città rosse”.
Non intendo in questo modo accreditare qualche ragione alla decisione barbarica di provocare un massacro, chiunque ne sia stato l’ideatore e l’esecutore, com’è stato fatto il 2 agosto di oltre quarant’anni fa.
Mi interessa cercare di prendere le distanze dalla dominante versione di questa città e dei suoi sindaci, cioè di una sorta di storia sacra, oltreché di una regione del Cardinal legato, e quindi post-pontificia.
Desaparecida: la pista palestinese
La cosiddetta pista palestinese costituisce il simbolo degli errori che possono essere determinati dall’irrompere nei processi di silenzi, omissioni delle indagini, accessi privilegiati o riservati a documenti eccetera. Non se ne parla, si è cercato in ogni modo di evitare di parlarne. E’ la grande desaparecida nei vari gradi di giudizio che hanno portato alle sentenze passate in giudicato nel novembre 1995 e nell’aprile 2007.
E’ stata oggetto di indagine da parte della Procura di Bologna nell’agosto-settembre del 2005 e nel luglio 2014. Procura e Gip ne chiesero l’archiviazione, che venne concessa il 9 febbraio 2015.
Ha fatto la sua comparsa, ad opera dell’avvocato Massimo Pellegrini, difensore di Gilberto Cavallini nelle motivazioni della sentenza di condanna in primo grado (7 gennaio 2021). Il presidente estensore della sentenza, Michele Leoni, ha avuto l’amabilità di evocare la pista e criticarla. Col risultato di tirarsi addosso una replica puntuta e severa di tre specialisti.[3]
Originariamente l’averla presa in considerazione[4] fu un atto che venne rilevato criticamente da qualche prorompente avvocato nella sua legittima cura dell’Associazione dei parenti delle vittime.
In realtà il ruolo congiunto di Carlos, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e del Colonnello Gheddafi delineavano uno stato di cose che, sicuramente all’inizio degli anni Ottanta e Novanta del ventesimo secolo, ha avuto un fondamento più realistico che non quella dell’affannosa criminalizzazione dei killer (peraltro confessi in questo ruolo) dell’estrema destra.[5]
Il colonnello libico Gheddafi voleva punire l’Italia per averlo spodestato di un avamposto della sua vocazione imperiale. Nell’interesse della Nato, il nostro governo fece sbaraccare la testa di ponte (con investimenti e veri e propri assetti militari) impiantata nell’isola di Malta con l’obiettivo di estendere l’influenza dominatrice dell’Islam sul resto dell’Europa.[6] I militanti palestinesi del FPLP intendevano, invece, punire il nostro Paese per non avere assecondato gli impegni assunti col cosiddetto “lodo Moro”.[7]
Era un accordo di fatto, ovviamente non rinvenibile in nessun fascicolo della Farnesina, per cui l’incolumità (rispetto a possibili attacchi) e solidarietà del nostro Paese si fondava sulla non perseguibilità dei terroristi del FPLP per il trasporto di armi sull’intero territorio nazionale.
La rottura del “lodo” venne ravvisata nell’arresto e nella condanna ad alcuni anni di carcere di un esponente del FPLP, il giordano Abu Saleh Alzeh. Viveva (e studiava all’università di) Bologna. Era probabilmente il referente di una cellula militare del FPLP. Manteneva rapporti con un esponente del terrorismo internazionale come Carlos e con un dirigente del Sismi colonnello Stefano Giovannone.
Il FPLP reagì chiedendo la sua liberazione e, in caso contrario, minacciando di colpire pesantemente l’Italia. Non tenne conto che Abu Saleh Anzeh era stato colto in flagranza di reato, una fattispecie penale che il lodo Moro non poteva coprire. Infatti Abu Saleh venne arrestato il 13 novembre 1979, una manciata di giorni dopo che ad Ortona tre esponenti dell’Autonomia romana, con in testa Daniele Pifano, venissero sorpresi in possesso di due missili Sam7 Strela di fabbricazione sovietica.[8]
Porre al centro di un’indagine giudiziaria l’attività svolta del terrorismo arabo-palestinese e libico non era politicamente realistico perché rischiava di coinvolgere diverse certezze.
Intendo riferirmi da una parte alla sinistra di ogni genere e grado, che ha sempre solidarizzato con i movimenti di liberazione terzo-mondisti, in particolare per munire di un territorio e di uno Stato i palestinesi; al ruolo importante di Gheddafi che era entrato nel capitale della Fiat per salvare l’azienda dalla bancarotta; e infine ai nostri servizi segreti che in Medio Oriente avevano sviluppato relazioni durevoli “coperte” anche con gruppi illegali e armati. Brandire il definitivo afflosciarsi di questa vicenda sulla base delle carte de-secretate di recente del Colonnello Giovannone come una colpa, un’azione insostenibile, ad opera di chi l’ha a lungo sostenuta, suona dunque come una plateale e becera mancanza di correttezza. Dai ricercatori e dai giornalisti prima citati, sempre, infatti, è stato proposto, anzi sollecitato, di poter verificare l’eventuale azione scellerata dei terroristi dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), di concerto o meno con i terroristi libici del Colonnello Gheddafi, con l’accesso a fonti chiuse dal potere politico e a lungo trattate con una certa degnazione dagli inquirenti. Bisognava, cioè, porre fine al segreto di Stato apposto dal governo Craxi e dai suoi successori. Non si amano, infatti, ricordare le date per poter avere licenza di inventarsi discrezionalmente episodi e protagonisti. Intendo dire che tutte le carte Sismi, comprese quelle del capocentro del Sismi in Medio Oriente, con sede a Beirut Colonnello Stefano Giovannone, sono diventate consultabili solo in seguito alla direttiva del 2014 del premier Matteo Renzi e alla consegna presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, tra il 2022 e il 2023.
E’ dal luglio 2005, quando diventa di pubblico dominio, che magistrati e Associazione dei parenti delle vittime, senza disporre di un millimetro di prove, dichiarano, anzi proclamano con fare sarcastico e liquidatorio, che la pista palestinese non era una pista, ma una sorta di diversione, vale a dire quasi un depistaggio. La spiegazione di questa linea di condotta risiede nel fatto che fin dal primo momento gli inquirenti avevano privilegiato la pista-bon-a tout-faire fascista. La disclosure di tali carte, avvenuta-ripeto-1-2 anni fa appena, ha significato che il lodo Moro ha continuato ad essere operante. C’è, invece, da chiedersi come mai a livello istituzionale (del governo e della magistratura inquirente) non si sia, fin dall’agosto 1980, fatto valere un principio direi elementare, cioè che per la legislazione italiana i reati di strage e di terrorismo non ammettono nessuna secretazione, cioè non si possono opporre segreti di Stato. I giudici inquirenti potevano esigere fin dal primo momento la deroga a questo vincolo e consultare le carte. Perché a lungo hanno preferito non farlo se non per la volontà di assecondare la pista fascista perseguita inizialmente e con tenacia dal PM Libero Mancuso con la scorta di tutti i partiti?
E’ significativo il comportamento del senatore Francesco Cossiga. Dopo averla attribuita ai fascisti, sulla base di un’informazione (che dopo alcuni anni ha bollato come impropria e fuorviante) avuta dai servizi, si era detto persuaso che la carneficina della sala d’aspetto presso la stazione ferroviaria di Bologna era stata provocata dal trasporto di una valigia ripiena di potenti esplosivi da parte di terroristi del FPLP. Costoro, come quelli dell’OLP di cui erano membri, praticavano il traffico di armi e operazioni eversive o delittuose che i nostri servizi segreti (il Sismi) conoscevano, ma non hanno ritenuto opportuno divulgare più di tanto. Ma questo orientamento non impedì a Cossiga nel corso degli anni Ottanta di chiedere l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta proprio sulle attività del Sismi. La ragione per cui non andò in porto e non ebbe sostegni risiede in ciò che aveva potuto rilevare, cioè che
“i settori deviati della magistratura milanese e romana e la tendenza al compromesso del Copaco[9] non danno assolutamente garanzia che essi possano accertare la verità, tutta la verità”[10].
Nessuna forza politica né esponente delle istituzioni, comprese quelle giudiziarie, ha mai osato tanto. Infatti Cossiga prevedeva per la Commissione anche una serie garanzie come solo sedute pubbliche, trasmesse da radio e televisione, e il divieto di secretazione dei lavori e dei documenti acquisiti, compresi quelli per cui
“l’obbligo del segreto derivi da impegni Nato o Ue o bilaterali, anche relativi a materie nucleari. Lo stesso presidente del Consiglio – proseguiva – non potrà opporre nessun segreto. Tutte le classifiche di segretezza e riservatezza apposte fino ad ora si dovranno considerare revocate. Deve essere prevista la non punibilità in sede penale e civile e la non procedibilità in sede disciplinare per l’eventuale illecito procacciamento di documenti o copie di documenti originali, da qualunque classifica coperti, che vengano esibiti alla Commissione, nonché la non punibilità per qualunque reato nel quale il dichiarante possa incorrere con le sue dichiarazioni”.
Questa insistenza sulla trasparenza e l’abrogazione di ogni divieto per Cossiga si spiegava con certi aspetti, tutt’altro che decrepiti, anzi ancora oggi vivi e vegeti, della nostra stampa. Espressione diretta o riflessa di potentati industriali come la vecchia (e nuova) Fiat), l’imponente sistema di potere edilizio ed editoriale di Silvio Berlusconi, o quello finanziario di Carlo De Benedetti.
L’ex senatore democristiano si riferiva specificamente a uno di essi rilevando il
“danno che i veleni derivanti da segreti reali, da segreti supposti e dalla ‘filosofia dietrologica’ – anche per la perniciosa attività svolta da organi di stampa ‘seminatori di veleni’ quali La Repubblica e L’Espresso dell’ingegner Carlo De Benedetti, ancora irritato per le indagini condotte su di lui al tempo della guerra fredda per supposta informazioni e materiali sensibili all’Urss e alla cosiddetta Repubblica Democratica Tedesca”.
Col cambiare dei direttori, il vizietto non sembra essere venuto meno.
I troppi volti dello stragismo.
Se si vogliono spiegare le ragioni, affrontate qui in maniera non esaustiva, del progressivo décalage della magistratura, cioè di un’istituzione cruciale (il perno, direi, della nostra democrazia), le indicherei come segue: l’assenza di paletti, cioè di una seria divisione, tra il potere dell’ordine giudiziario e quello del potere politico; la mancata separazione delle carriere tra i pubblici ministeri e i giudici per modernizzare l’ordinamento giudiziario e munire i cittadini di maggiori garanzie (il che accade quando i magistrati si distinguono solo per la diversità delle funzioni, ma il CSM, cioè l’auto-governo della magistratura, purtroppo spesso non ama assegnare le funzioni a coloro hanno maggiori attitudini e competenze)[11]; i tempi biblici e i costi sempre più insostenibili (per il cittadino medio) dei processi e delle relative sentenze; la liturgia defatigante e oziosa delle procedure; il pullulare di veti e zone d’ombra, cioè riservate, che secretano gli accessi e limitano la disponibilità della documentazione; lo svolgimento in parallelo a quello presso le aule giudiziarie, di processi mediatici con la partecipazione degli stessi giudici e imputati; l’uso improprio e troppo discrezionale, non disciplinato da regole e sanzioni, delle intercettazioni.
Aggiungerei il malvezzo, diventato prassi, per cui la politica non si occupa del terrorismo, della mafia o della diffusa fenomenologia della corruzione e tende a scaricare-come hanno più volte denunciato Nino Di Matteo e Luciano Violante– nelle mani della magistratura, ingolfandone l’attività, inchieste che potrebbe compiere autonomamente.
Il che ha significato che,a partire dagli anni Ottanta, il titolo di sovranità, che spetta a governo e parlamento nell’esercizio della lotta per contrastare i reati prima citati, è stato delegato ai giudici.
Dunque, una grande disfunzione alla quale non esiste altro rimedio che ripristinare le funzioni degli organi della rappresentanza politica.
Ha ragione Violante[12] a dire che l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) rappresenta non i cittadini, ma l’insieme dei giudici, ed è, e deve restare, un potere terzo. In questi decenni si è illusa di detenere la rappresentanza generale, cioè il ruolo del parlamento e del governo, e di esserne la loro controparte istituzionale o di alcuni ministri.
Va detto chiaro e tondo che il suo perimetro sono i tribunali, e non la rappresentanza dell’insieme dei cittadini. Ha origine in questa ambizione la de-legittimazione, e la diffusa perdita di autorevolezza e anche di credibilità, dei corpi giudiziari.
L’aver privilegiato fin dal primo momento la pista-bon-a tout-faire fascista è la prova che potere politico e potere giudiziario invece di servirsi della loro reciproca autonomia e indipendenza, hanno scelto la strada dell’allineamento, della collusione.
“Ora, da molto tempo le stragi non sono più raccontate. Commemorate sì; ma ridotte ad eventi lapidari, o a lapidi propriamente dette, la narrazione di esse, cioè la loro memoria, si è bloccata, o frantumata nei depistaggi, nella confusione voluta o subìta: non più storia, ma episodi che galleggiano nel caos dei segreti e delle congetture. I depistaggi non hanno avuto solo la funzione di proteggere esecutori e mandanti […] hanno anche avuto l’effetto di minare la memoria rendendo difficile la traduzione degli avvenimenti in racconto”.[13]
Il risultato è una palude, anzi un deserto della conoscenza che le giovani generazioni hanno sulle e stragi. A questa tragica realtà non sfugge quella che colpì la stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980.
Secondo l’inchiesta condotta dall’istituto Piepoli negli istituti superiori milanesi, tramite interviste somministrate agli studenti del terzo, quarto e quinto anno[14], il 62,8 per cento degli intervistati ne ha solo sentito parlare nel 2000 a fronte di un 62,5 per cento del 2006; con la differenza che quasi la metà degli studenti nella seconda tornata di interviste non sa collocarla temporalmente (ben il 49,8 per cento a fronte del 40,2 per cento del 2000).
Si tratta di un dato allarmante che colpisce l’esistenza stessa della democrazia, la ragion d’essere dei suoi valori costitutivi. Il disinteresse a non ricordare questo evento fa tutt’uno con l’enorme lasso di tempo (3-4 decenni) con cui vene amministrata la giustizia. E’ eccessivo o sconsiderato dire che mostra una macroscopica iniquità? Ad esserne alimentato è il dubbio che non valga molto la pena difendere il regime repubblicano.
E’ questa la realtà che si trovano di fronte i giudici della Corte d’Appello di Bologna che ad aprile 2023 hanno emesso la sentenza sulla strage del 2 agosto 1980, una strage quasi dimenticata. Il tentativo di mettere insieme-con i gravi limiti indicati da Lorenza Cavallo e Vladimiro Satta– una verità giudiziaria molto debole e comunque opinabile, è sopraffatto sia dai tempi biblici sia dai materiali prevalentemente ideologici e di partito (da guerra fredda) con cui è stata costruita? E’ per questa che Giuseppe Amato, procuratore della Repubblica del Tribunale di Bologna, a suo tempo archiviò questi incarti che sprizzavano un desolante aroma di guerra fredda.
Come al solito sulle spalle, cioè sulle decisioni, della magistratura pesano domande e aspettative infinite. E’ la ragione per cui i dispositivi delle sentenze, e soprattutto le stesse motivazioni di esse, sgusciano dalle paratie giudiziarie e si proiettano tumultuosamente nel dibattito, sempre aperto (ormai è un insopprimibile contenzioso) sulle idee che ognuno si è venuto facendo dei rapporti tra la giustizia e lo Stato.
In questi quarant’anni di contrasti, contrapposizioni polemiche anche all’arma bianca, il Pci alla fine ha sempre fatto carico alla magistratura di una mancanza precisa: di non avere dato il nome e cognome di un colpevole qualsivoglia. Come la più efficace delle soluzioni, per rimediare a tale insopportabile disfunzione, ha proposto la propria cooptazione in una coalizione di governo.
Questa può considerarsi una risposta politica ad una precisa domanda politica.
C’era, però, anche un altro aspetto. Dal parlamento non venne soddisfatta (taglio di già) nel 1988, quando Vladimiro Zagrebelsky scriveva la ragione per cui su un esteso fronte degli uomini dei servizi un gruppo di pressione con fini eversivi come la P2 avesse conquistato tanta udienza e consenso al punto da indurli a depistare le indagini. [15]
P2 e servizi deviati finirono per concentrare la maggior pare dell’attenzione grazie al fatto che l’immaginario collettivo si nutre di una saggistica e di influencers provenienti dalla stampa periodica e quotidiana o di scienziati sociali.
Restò in un cono d’ombra il ruolo della storiografia, con l’eccezione della presenza su Il Resto del Carlino e su Il Corriere della Sera di uno studioso come Angelo Ventura[16]. E’, ancora oggi, un vero e proprio vuoto storiografico che il singolarissimo approccio ad esso dei giudici aggrava.
Le ragioni sono state bene rilevate quando si è scritto che
“sono anche, e forse soprattutto, riconducibili al perpetuarsi della visione dominante di un terrorismo neo-fascista come epifenomeno, anziché fenomeno in senso proprio. La percezione diffusa dei neri come ‘fanatici’, ‘deliranti’, ‘nostalgici’ ed eterodiretti, avalla lo scarso interesse per lo studio del terrorismo di destra, concepito come risultato ultimo e subalterno del “terrorismo di stato”, dei “poteri occulti” e dei “servizi segreti deviati”[17].
Sono stati costoro ad alimentare una vivace e prolifica saggistica, seppure di valore assai diseguale.
Le motivazioni della sentenza: un vecchio spartito.
La Corte d’Appello di Bologna nell’aprile 2023 ha confermato le condanne impartite a Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini. il giovane Luigi Ciavardini, con l’aggiunta più recente di Paolo Bellini
In maggioranza facevano parte, anche come esponenti, di un neo-fascismo che poco aveva a che fare col Msi. Rispetto al quale essi hanno finito per fare del delitto con motivazioni politiche una forma abbastanza inedita, direi professionale, di killeraggio.
Avendo alle spalle decine di condanne o denunce, per azioni di criminalità nei confronti di uomini politici, magistrati, forze dell’ordine eccetera è stato facile, quasi naturale, per i servizi segreti specializzati nel depistaggio (come quelli italiani), indurre in un imperdonabile errore il presidente del Consiglio Francesco Cossiga, fornendogli informazioni false.
Senza disporre di uno straccio di prova, parlando da premier al Senato il 4 agosto 1980 ha proclamato che, se non si trattava dell’esplosione di una caldaia, la responsabilità del massacro di 85 persone e circa 200 feriti presso la stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980, andava attribuita alla “pista fascista”. Fece un paio di volte il nome dei NAR. Nessun giro di parole, nessun lessico ammiccante e ambiguo, ma nome e cognome diretto, dunque. Con qualche grosso errore nel delineare la linea politica del gruppo eversivo.
Dieci anni dopo, nel 1991, Cossiga, questa volta da capo dello Stato, si dirà convinto che a provocare la micidiale deflagrazione alla stazione di Bologna era stata una bomba trasportata, in maniera inesperta, dai palestinesi. Chiese scusa:
“Io mi sono sbagliato. Io fui vittima della subcultura di quel momento. Fui vittima delle false informazioni che mi arrivavano dai Servizi Segreti, in base alle quali, in forza di un socialismo d’accatto ma che a quell’epoca imperava, le stragi erano fasciste e gli ammazzamenti individuali erano dell’estrema sinistra; e in base a quello io mi sono determinato, chiedo scusa, mi sono sbagliato. È un peso che grava sulla mia vita”.[18]
Intorno alla prima presa di posizione di Cossiga (sull’identità fascista della strage) si coagulò l’arco dei partiti costituzionali. Una doccia fredda per iscritti ed elettori di destra. Le forze politiche di governo e di opposizione non esitarono un minuto a tessere la propria unità.
Purtroppo, replicando un comportamento non di rado storicamente consolidato, alla verità sancita dal potere politico ha finito per allinearsi, con un surplus di passività\conformità, il potere conquistato dall’ordine giudiziario.
In quarant’anni spartito e musica non si può dire siano cambiati. Si sono moltiplicati gli imputati della carneficina: servizi segreti, P2, Super Sismi, Gladio.
E’ solo diminuito in misura impressionante il numero dei militanti missini trascinati dietro le sbarre delle prigioni e dei tribunali di Stato. Furono trasferiti in centinaia dalle proprie abitazioni nelle patrie galere iscritti di ogni genere: operativi, professionisti, docenti universitari eccetera. Ma il loro destino si tramutò in una sorta di pelle di zigrino.
In un primo momento gli indagati e gli arrestati progressivamente furono rimessi libertà. La pesca del PM Libero Mancuso, un inquisitore tenace e orgoglioso del suo ruolo, per insaccare quanti più possibili fascisti nel bigoncio della giustizia era stata estesa a tutto il territorio nazionale.
In maniera non rapidissima i magistrati inquirenti si dovettero rendere conto che non avevano tra le mani la minima prova. Neanche indizi, ma solo la vaghezza di sospetti e dicerie. Dovettero limitarsi ad una caccia grossa rivelatasi striminzita, assai esile.
Ad essere tenuti sotto osservazione rimasero solo un paio, Giusva Fiora vanti e Francesca Mambro. Si estenderanno con gli anni fino a diventare 3-4 (con l’arresto di Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini), e uno in più dopo quarant’anni, con le manette serrate ai polsi di Paolo Bellini.
Solo i primi due erano killer politici di lunga lena. Possono definirsi professionisti in un campo ben delimitato: quello della politica (l’ostilità ai comunisti) e del prelievo, se non dell’ammassamento di armi, da qualche negozio. In più dalla Procura generale è stata messa a punto la mappa dei beni indicati da Roberto Calvi nella spartizione del tesoretto del Banco Ambrosiano. Era un capitale ormai in via di fallimento, che venne rigirato in mani diverse. Non è detto da nessuna parte che l’obiettivo fosse di seminare il terrore tra la popolazione civile in sosta il 2 agosto 1980, presso la stazione ferroviaria del capoluogo emiliano, per andare in vacanze. La maggior parte dei beneficiari delle risorse finanziarie dell’Ambrosiano ha un carattere ora indelebile: Federico Umberto D’Amato, Mario Tedeschi e Umberto Ortolani sono quasi tutti defunti e quindi non in grado in qualche modo di difendersi da pesanti imputazioni e soprattutto sospetti.
E’ stata poi esteso il cerchio di mandanti ed esecutori della strage. Della cupola eversiva avrebbero fatto parte Licio Gelli, il grande numero di iscritti (politici, magistrati, giornalisti, burocrati e soprattutto militari) all’associazione massonica “deviata” P2[19] e alcuni segmenti “deviati” dei sevizi segreti. Sono stati considerati in combutta con la Cia e gli apparati di sicurezza delle forze armate degli Stati Uniti stanziate in Italia (per lo più nel Veneto e nel Friuli).
Come si vede, gli inquirenti allargano e restringono la fisarmonica, finendo, però, per suonare il medesimo funebre spartito.
Nell’ultimo periodo ha preso consistenza l’inclusione di una vecchia sola (dei neo-fascisti, dei servizi segreti, della mafia, dei trafficanti di opere d’arte, di armi e di droga) come Paolo Bellini.
La narrazione giudiziaria colpisce subito perché evoca le note di un refrain, qualcosa di già letto o sentito dire. Per moltissimi versi è, infatti, la ripetizione pura e semplice di quanto ha illustrato ed esecrato la stampa del Pci e di sinistra. A farne l’uso più tenace, riecheggiando non di rado energicamente tale refrain in pose, proclami, minacce di un suo membro particolarmente perentorio ed aggressivo, è stata l’associazione dei parenti delle vittime. Testimone attiva di una tragedia umana indimenticabile.
La sindrome del complotto anticomunista.
Questa sinistra sostiene e perora da circa mezzo secolo, con la complicità di una stampa classicamente di regime qual’è per lo più quella dell’Emilia Romagna, l’esistenza di un complotto con al centro un progetto di attacco armato allo Stato repubblicano portato avanti mediante la cosiddetta “strage di Stato” e conati di golpe ora differiti ora imminenti, con carneficine e ammazzamenti vari.
Sempre secondo il Pci e qualche pubblico ministero (che al quotidiano comunista l’Unità affidò il testo della sua requisitoria), a ordirlo sarebbe stato una sorta di caucus in cui confluirono l’estrema destra neo-fascista e democristiana, di concerto con spezzoni dell’esercito, i servizi segreti “deviati”, la Cia e gruppi di imprenditori piuttosto poco caritatevoli.
Di fronte al prorompere di tale baldoria armata avrebbe dovuto aver luogo una previsione a lungo declamata. Corrispondeva come una goccia d’acqua a quanto i neofascisti e i ceti iper-conservatori, dal canto loro, hanno sempre auspicato e promosso, vale a dire una rivolta popolare.
Ad essa sarebbe seguita una coda politico-istituzionale. Il suo epicentro era ravvisato nell’intervento di esercito e forze armate promuovendo una politica di ripristino dell’ordine con la creazione di un governo di salute pubblica. Una conseguenza sarebbe stata la legittimazione dei neo-fascisti e dell’estrema destra. Un obiettivo comune da tradurre in atti di governo era quello di isolare, colpendoli pesantemente, i comunisti e l’area politica della sinistra. In questo contesto, il Pci vide entrare in scena sia il Msi, rimasto fedele alla sua vocazione parlamentare, sia alcune sue articolazioni giovanili che del partito di Giorgio Almirante erano anche contestatori come Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo.Estranei ad ogni suggestione parlamentare o peggio ancora di governo e critici implacabili dell’intera fauna della destra furono i Nuclei armati rivoluzionari (Nar):
«Il 21 ottobre abbiamo giustiziato i mercenari-torturatori della Digos Straullu e Di Roma. Ancora una volta la giustizia rivoluzionaria ha seguito il suo corso e ciò resti di monito per gli infami, gli aguzzi ni e i pennivendoli […] Non abbiamo né poteri da inseguire né masse da educare, per noi quello che conta è la nostra etica. Per essa i nemici si uccidono e i traditori si annientano. Il desiderio di vendetta ci nutre: non ci fermeremo»[20].
A quest’ultimo gruppo appartenevano Fioravanti, Mambro, Ciavardini e Cavallini. Si caratterizzavano per essere animati da una volontà di “spontaneismo armato” ed essersi abituati ad operare nella clandestinità[21].
L’insieme di questi gruppi giovanili rifuggiva dall’idea tradizionale, propria dei dirigenti del Msi, di potersi servire della dimensione parlamentare e in generale istituzionale. E non facevano mistero di essere tutti disgustati del cosiddetto “tramismo”, cioè del coinvolgimento subalterno del partito di Almirante, di Avanguardia Nazionale (fondata dal multifacetico Stefano Delle Chiaie) e Ordine Nuovo nei reticolati delle conventicole del potere politico e militare. Così la “vecchia guardia” «finiva con l’avere collusioni con apparati per strategie golpiste»[22].
Ne sono testimonianza il gioco di scambi, favori, protezioni tra il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno Umberto D’Amato e i diversi esponenti missini (ma anche, per la verità, della nuova generazione)[23]. Comune era l’obiettivo, attraverso la politica del terrorismo e delle stragi-di poter prima suscitare e poi guidare la rottura del sistema repubblicano-antifascista attraverso manifestazioni e vere e proprie rivolte di massa. Questa strategia dei nei-fascisti secondo i giudici bolognesi avrebbe avuto avallo e accreditamento da parte dell’alleanza militare Nato, dei paesi aderenti al Patto atlantico, dei corpi politici e militari degli Stati Uniti.
Al di fuori della propaganda di basso conio del Cominform e dell’Urss, che essa lascia evocare, tale ricostruzione della storia d’Italia non ha trovato seguaci se non presso parlamentari e giornalisti della sinistra del vecchio Pci, nella saggistica sul complottismo allevata prima dagli Editori Riuniti e ora delle case editrici Chiarelettere e First, in organi di stampa come La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, in autori come il senatore comunista Sergio Flamigni.
Il Pci si volle spendere rimodulando il passato. Un cronista ferrarese de l’Unità [24], ricostruisce il terrorismo delle origini da parte degli zar attribuendo questo rumoroso metodo di fare politica al vertice stesso del Potere. Anch’esso sarebbe interessato a creare dissensi nell’opinione pubblica annullando i movimenti e le lotte sociali. In realtà il Pci sa poco e nulla dei movimenti neo-fascisti fioriti dopo il 18 aprile 1945. Sarà un sociologo, esperto di terrorismo, collaboratore del Corriere della Sera, Franco Ferraresi, a fornire in quattro articoli, nel marzo 1987, una rappresentazione limpida, dignitosa e informata delle molte vite della nuova destra fino ai NAR.
La strada è così aperta perché anche attualmente Il Fatto Quotidiano possa ribadire la sua inveterata profilassi storiografica. Per la penna di un ex magistrato palermitano (ora parlamentare di Cinque Stelle) Roberto Scarpinato stabilisce un (poco resistente alla prova dei fatti) filo di continuità del massacro di Portella della Ginestra a quella di Bologna del 2 agosto 1980.Un bel fritto misto tra mafia, atlantismo, Nato e terrorismo fascista.
Anche la strategia della tensione ha un punto di partenza diverso.
Non più la periodizzazione consolidata della Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969, ma quello siciliano del 1° maggio 1947.L’elenco delle vittime comprendeva oltre a queste, quelle dei morti della strage di Milano in via Palestro, il 27 luglio 1993 e della violenza eversiva dell’Alto Adige negli anni Sessanta.
Roberto Scarpinato è stato preceduto nel segnalare quello milanese da un testo pubblicato nei mesi successivi alla lettura del dispositivo della Cassazione. A redigerlo furono le Associazioni di familiari delle vittime delle stragi di Bologna, dell’Italicus, del Rapido 904 e di via dei Georgofili[25].
L’asse portante, quasi una sorta di paradigma, era la strage di Stato che veniva fatta iniziare con la violenza eversiva dell’Alto Adige negli anni Sessanta. In questo contesto si rilevava il comportamento difforme di alcuni suoi apparati dei pubblici poteri. Erano stati deviati per collegarli sinergica mente con appoggi di carattere sovranazionale, covi e cellule clandestine e vere e proprie articolazioni della massoneria. In altre parole, lo stragismo viene piegato ad un ruolo strumentale di natura politica, che consisteva nell’intento di intervenire, ribaltandoli o condizionandoli, i principali assetti del Paese. Dalla politica all’economia fino all’organizzazione della società.
Ad essere delineata è una traiettoria storico-politica e delle responsabilità che appaiono diverse, se non opposte, da quella prospettata nella relazione del presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le sue conclusioni sulle stragi, il senatore comunista Giovanni Pellegri no[26]. Cruciali sono nella sua analisi l’estrema giovinezza e incompiutezza, e quindi, l’organica debolezza della democrazia italiana, il suo sovranismo limitato e l’inevitabile dipendenza della classe politica dagli Stati Uniti.
Pellegrino, inoltre, differenzia il 1969-1974, come il quinquennio in cui l’epicentro fu dominato dalle stragi neofasciste, da quello che ad esso fece seguito segnato dal terrorismo rosso e da vampate meno decifrabili di eversione di destra, ma inferiori al sovrastare dei servizi segreti.[27]
L’eco pubblica delle conclusioni rimbalza su tutte le testate, suscitando non poche perplessità, soprattutto per una certa tendenza ad addossare le più gravi responsabilità ai soli servizi segreti, reiterando la narrazione dei misteri.
Il paradigma interpretativo offerto è quello delle stragi di Stato.
La strategia della tensione, in queste pagine, non si manifesta originariamente nell’eccidio alla Banca dell’Agricoltura, ma trova una sua prima espressione (seppur con minor brutalità) nella violenza eversiva dell’Alto Adige degli anni Sessanta.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, dottor Giuseppe Amato, di fronte all’ammasso di carte a carattere politico-ideologico accreditate a spada tratta dall’Associazione dei famigliari, non esita ad assumere il coraggio di negare loro ogni importanza, e quindi ad archiviare.
A farle proprie, avocandole al proprio ufficio e dedicando loro indagini e attenzioni privilegiate, fu invece il Procuratore generale presso la Corte d’Appello dottor Ignazio De Francisci. C’è da chiedersi se egli e i suoi più stretti collaboratori si siano fatti una semplice domanda: che interesse avevano i defunti Lucio Gelli, Federico Umberto D’Amato, Mario Tedeschi e Umberto Ortolani a fare quello che la sentenza della Corte d’Appello attribuisce loro di avere fatto, cioè di avere cooperato al piano diabolico di far saltare in aria, con rumorosissime esplosioni di bombe, la stazione ferroviaria di Bologna per far capire ai comunisti che la pacchia era finita?
Che c’entrano in questa tumultuosa e sconclusionata turbolenza mentale da cui sembrano essere affette le motivazioni della sentenza, organismi sovranazionali come il Patto atlantico e la Nato?
I comunisti bolognesi, per accreditare tale situazione, fecero una ridicola gigantografia di un piccolo personaggio, Roland Stark, e vi vollero coinvolge re la John Hopkins University che a Bologna, oltreché a Baltimora, ha avuto una delle sue principali e autorevoli sedi.
Non solo lo staff della Procura generale né mai nessuno è riuscito a dimostrare che la principale alleanza militare post-bellica dei Paesi a regime liberal-democratico abbia invaso o mosso guerra a qualche paese, cioè abbia fatto quanto l’Armata rossa e i suoi eredi hanno diffusamente compiuto in Germania, Ungheria, Cecoslovacchia, Afganistan, eccetera, fino all’Ucraina.
Negli Stati Uniti, dove diversi governi hanno fatto un uso abusivo dei loro poteri e dell’immagine di Washington, sostenendo regimi dispotici o intervenendo militarmente in America Latina, in Africa, in Asia, il turn over alla te sta dei servizi di sicurezza è continuo. La libera stampa e i ricercatori hanno potuto, sia pure poco speditamente, avere accesso agli archivi e documenta re episodi gravi di macro e micro-imperialismo.
Né è male, ma opportuno, rilevare una certa trasparenza e visibilità dei poteri negli Stati Uniti, perché è quanto in Urss e nei paesi cosiddetti socialisti è impensabile possa essere consentita.
Lo svolgimento dei numerosi processi sulla strage di Bologna ha mostrato l’estrema sensibilità delle corti giudiziarie non a richieste formali o esplicite, ma a impalpabili suggerimenti, sollecitazioni dei governi e dei partiti politici. Si tratta di accertarne la misura e il volume, senza negare che in generale questo buon vicinato e reciproco interfacciarsi e intrecciarsi tra istituzioni giudiziarie e corpi politici è comune a moltissimi paesi.
Se la vicenda di Bologna non costituisce un’eccezione o un’innovazione, mi pare opportuno verificare se, e in che misura, non si sia trasmodato, cioè se non siamo in presenza non di una replica, di un comportamento di conformità, di omologazione dell’amministrazione della giustizia al potere politico. Sarebbe la conferma, un ulteriore riscontro di un fatto storicamente determinato, cioè che in Italia lo Stato di diritto continua ad avere un parto difficile.
La strage e i giudici
Credo valga la pena di esaminare quali sono stati gli eventi e le tematiche intorno alle quali si sono incorniciati, influenzandoli sensibilmente, i diversi processi che hanno cadenzato gli esiti delle indagini sulla carneficina avvenuta a Bologna il 2 agosto 1980.
Va precisato che il primo indizio di responsabilità della strage fu individuato inizialmente, cioè lo stesso giorno, in comunicati generici attribuiti ai NAR e a un organo politicamente opposto, l’OLP. Entrambi furono in prima fila nel rivendicarla. Non disponevano di nessun elemento probatorio e, pertanto, non ebbero nessuna ricaduta significativa nella stampa e nei partiti.
Il primo per quarant’anni, vale a dire fino ad oggi, ha occupato stabilmente la scena, con imputazioni iniziali plurime e condanne finali limitate ad una trimurti. Il secondo (che da Carlos portava al terrorismo arabo-palestinese e brigatista italiano) è stato fino al 2005 banalizzato e lasciato cadere.
Si combinarono una pressione tenace (a carattere difensivo, ma dando l’impressione – non so quanto fondata – che sia stata anche altamente invasiva) dell’associazione delle vittime, e uno scarso interesse dei magistrati indaganti. Valorizzare la presenza, per non dire il ruolo dell’OLP, significava alzare lo sguardo, aprendo un’indagine su un corpo emblematico della sinistra (quella filo-palestinese) che da Bologna e dalla Regione dell’Emilia Romagna aveva fruito di grande solidarietà, assistenza sanitaria e cospicua mole di servizi e finanziamenti.
Non si andò oltre indizi, responsabilità sempre negate e quindi repentine archivi azioni. Per rendersi conto dell’estensione e dell’importanza basta ricordare il modo (e gli argomenti a valenza prevalente mente formale-burocratica) con cui fu liquidato il cosiddetto “lodo Moro”.
Tra il 1973 e il 1986, terroristi e loro alleati dell’OLP uccisero 83 persone e ne ferirono, anche gravemente, oltre 227.[28]
L’alto funzionario Giovannone che – come già ricordato – teneva i legami con loro era vicinissimo ad Aldo Moro, ma è stato oggetto solo tardivamente di interrogatori sul ruolo avuto come esponente del Sismi a Beirut. E’ morto testimoniando la sua solitudine.
La mancata tempestività nelle indagini e il loro carattere che non è sembrato esaustivo su questi interrogativi cruciali ci lascia perplessi e anche insoddisfatti, anche se non pare si possa parlare di un’omissione.
La sentenza finisce per accreditare interpretazioni assai opinabili. Penso a quella recentissima ripetuta anche di recente dal parlamentare di Forza Italia Carlo Giovanardi. Contrastando altre e assai diverse, anzi opposte, opinioni di parlamentari, ha dichiarato di aver consultato, nella veste di commissario della seconda commissione d’inchiesta parlamentare Moro (la Fioroni), documenti esplosivi, ma non divulgabili. Essi dimostrerebbero la decisione dei leader del terrorismo arabo-palestinese di voler colpire stazioni ferroviarie (Bologna) e vettori aerei italiani (il DC-9 inabissatosi a Ustica, a causa di una bomba forse esplosa all’interno). Sono dell’idea che niente, nessuna minaccia e sanzione, dovrebbe impedire di renderli di pubblico dominio.
Alla magnitudine dei processi (che hanno investito personaggi come Enzo Tortora, Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, noti giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, killer efferati come Totò Riina, le stragi di Piazza Fontana a Milano, a piazza della Loggia a Brescia, il mare di Ustica e la stazione ferroviaria di Bologna) non si può dire sia seguito un grande investimento fiduciario dell’opinione pubblica nei confronti dei giudici.
L’amministrazione della giustizia è stata, e resta, una meteora, un tratto remoto e negativo nel sentimento della gente comune. Un segno appunto dell’incompiutezza, della crisi, dell’inaffidabilità della giustizia italiana. Fino a legittimare l’avvio di un discorso, ad opera di un avvocato di cultura liberale, sulla curvatura eversiva dei magistrati[29].
Per rimediare ai suoi guasti secolari, all’immagine negativa (di malagiustizia) che la circonda, ben pochi passi hanno mosso il parlamento, il governo, la Corte costituzionale, il Presidente della repubblica che presiede il CSM, le grandi associazioni dei giudici e degli avvocati.
Pertanto non trova smentita un vecchio e persistente luogo comune: in Italia (come in India o in Egitto) la ricerca dell’innocenza funziona bene solo per chi ha molti soldi per assicurarsi i servizi di grandi avvocati e ha molto tempo per attendere una sentenza dai tempi biblici. Si tratta di una ferita gravissima che fa morire una democrazia, riducendola ad una fiera e all’esercizio di un rito farsesco. I fascisti continueranno sempre a sperare di poter creare sfiducia e smarrimento nell’opinione pubblica.
Di seguito offro una sintesi dei commenti, emblema di uno stato d’animo vilipeso e dolente, con cui sono stati accompagnati gli atti relativi alla strage di Bologna.
Una lunga e vecchia e storia: la diffidenza verso i magistrati.
E’ scomparsa la riserva di caccia dell’antifascismo perché la gente non si lascia più accalappiare da questi trucchi inverecondi, e si muove lungo un itinerario in cui non ci sono più i partiti, le istituzioni dello Stato, le ideologie come vecchie bandiere identitarie. A sostituirle saranno il micro-nazionalismo chiamato sovranismo (da piede di casa), l’assalto alla diligenza europea, in qualunque modo e con qualunque alleato, per ricevere buone scorte di Euro, lo schieramento col blocco degli Stati ex sovietici (o con la sola Russia) o con le Nazioni Unite e la Nato a seconda della convenienza, il degrado della politica a cortile del “fare” rifuggendo da ogni visione del mondo e del futuro eccetera.
Una linea di demarcazione viene segnata. A destra tra chi come i fascisti, volgendo lo sguardo al 1922, punterebbero alla conquista dello Stato (per cercare di cambiarlo dall’interno), e
“ricorrono a stragi […] poiché sperano di mettere l’opinione pubblica contro la democrazia, resa responsabile dell’impotenza dello stato».
E a sinistra, dove si è pronti a giocare la carta della guerra civile, allo «scatenamento della guerra civile, per il tramite dell’indebolimento sistematico dello Stato», allo scopo di rovesciarlo e di instaurarne uno nuovo, diverso, a tinta rosso scarlatta.
Strage di Stato o contro lo Stato?
Ma davvero uomini dello Stato, cioè governanti e agenzie di sicurezza, possono pensare ancora di ergersi a «maggiore baluardo delle nostre istituzioni»? Il dubbio percorre come una vena carsica la grande stampa (come Il Corriere della sera) e di partito (mi riferisco a l’Unità), che sentono l’indignazione popolare contro le istituzioni montare nei cittadini diventati preda della follia stragista. La lettura di quanto avviene ruota intono al dilemma: strage di Stato (come tentano di rassicurare i giudici di Bologna) o contro lo Stato?
Leo Valiani, un vecchio antifascista del Partito d’Azione, temette che lo scoraggiamento popolare per l’inefficienza e la corruzione dello Stato (avrebbe combattuto più i brigatisti rossi che quelli neri), finisse per togliere credibilità alla repubblica e spogliare di ogni dignità la Nazione, quindi, alla fine, favorire l’intento dei terroristi. Il timore diffuso è che la legittima l’insofferenza di massa nei confronti delle istituzioni finisca per favorire il gioco dei terroristi, togliendo «ogni credibilità all’Italia repubblicana.»[30]. A muoversi in questa direzione è Alberto Moravia. Egli sintetizza in questo passaggio l’educazione politica e sentimentale maturata nell’ultimo decennio:
«Gli italiani […] vedono, riflettono, non si lasciano più destabilizzare sia individualmente, sia collettivamente»[31].
Dunque, sono essi e non lo Stato e le istituzioni, oramai vulnerabilissime, a far vivere la democrazia. Un valore dello spirito più che della realtà. E il candidato ministro dell’Interno comunista parla anch’egli di «un’autentica lunga prova di eroismo di popolo» come aspetto saliente della crisi del Paese, nonostante la quale i fascisti continueranno sempre a sperare di poter creare sfiducia e smarrimento nell’opinione pubblica[32].
In questa nuova consapevolezza del tessuto sociale consisterebbe il «maggiore baluardo delle nostre istituzioni», difese più dai cittadini che dagli uomini di governo e dalle agenzie di sicurezza. La politica è posta sotto accusa da “l’Unità”, che al “Sono stati i fascisti” del titolo in prima pagina, fa seguire la propria sintesi interpretativa della strage:
“un nuovo feroce assalto contro la democrazia mentre manca una guida politica seria e si fa sempre più acuta la crisi economica e sociale”.
Bastava, dunque, cambiare governo, chiamare i comunisti a farne parte.
La spinta a riproporre un rilancio dell’antifascismo coincide con la linea, proposta dal premier Cossiga e dal quotidiano La Stampa, di attribuire la strage ai fascisti. L’intero decennio è ripercorso mettendo in fila gli episodi più eclatanti della criminalità “nera”, distinguendola da quella “rossa” per la sua maggiore violenza.
La prima colpiva dirigenti di partito o rappresentanti dello Stato, la seconda era volta a sterminare la gente, il popolo: le bombe di piazza Fontana a Milano nel 1969, di Piazza della Loggia a Brescia e dell’Italicus a San Benedetto Val di Sambro nel1974 (dove l’istruttoria appena conclusa aveva rinviato a giudizio i terroristi neri Mario Tuti, Luciano Franci e Piero Malentacchi quali esecutori materiali).
Il decennio degli anni Settanta, se offre lo spunto per mostrare una certa efficienza della magistratura, conferma la presenza ovunque della mano nera del terrorismo, e deve arrendersi di fronte alla diffidenza e alla lontananza della gente.
La testimonianza più potente e dolorosa non è nell’immensa folla che a Bologna occupa piazza Maggiore, ma negli insulti di cui sono fatti bersaglio Cossiga e i ministri. Direi che soprattutto è nel rifiuto dei famigliari delle vittime. Dichiarano di non voler esporre il feretro dei congiunti nelle commemorazioni istituzionali e di non intendere partecipare ai funerali solenni previsti a Bologna per il 6 agosto 1980. Nella principale chiesa di Bologna questa lacerazione è di un’evidenza impressionante. La quasi totalità delle salme, infatti, non sarà presente in San Petronio. In questa mesta celebrazione si mescolano, diventando inestricabili, da una parte la paura che possano aver luogo altri incidenti e disordini creando nuove tragedie; dall’altra un consapevole ed esibito “rifiuto politico” del rito religioso. Grazie al virus inoculato dal Pci e dai partiti di sinistra, anch’esso finì per tramutarsi in un prolasso retorico di promesse e una fiera di impegni mille volte ripetuti e ascoltati. In breve qualche e, una cerimonia piegata a celebrare il ballo irrefrenabile del luogo comune.[33]
Intanto la strategia eversiva viene concepita dai magistrati interessati di Bologna e Brescia riuniti a convegno come un disegno unico che giustappone le intenzioni dei nei-fascisti con quelle della massoneria rappresentata da Licio Gelli e di un servizio segreto parallelo. Gli esponenti di quest’ultimo (Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte) inventarono il “terrore nei treni” e un “Super Sismi” per fini che si riveleranno essere di un vero e proprio depistaggio delle indagini sulla strage del 2 agosto. Si volevano orientare le indagini verso la criminalità politica “nera”, ma per distogliere l’attenzione da quella perseguita dagli inquirenti.
Il “Super Sismi” verrà infine condannato per deviazioni gravi e reiterate compiute fra il 1980 e il 1981. Dunque, il mostro ha tre volti: terrorismo neo-fascista, servizi segreti e poteri occulti.
Ad essere delineata è la narrazione di una rivolta, una forma di assedio dall’interno. Non dello Stato, ma contro lo Stato. A conferma di quanto militanti di Lotta continua, giornalisti e intellettuali milanesi, sulla scorta probabilmente di un canovaccio fornito dagli stessi servizi, esporranno in un libretto dedicato alla carneficina di Piazza Fontana a Milano, intitolato Strage di Stato.[34] Una formula e un’analisi che il tempo non ha appassito né fatto uscire di scena.
Contro la lontananza siderale della politica, la debolezza e gli esempi di connivenza delle istituzioni, gli indicibili ritardi e scompensi, con pochi passi avanti vanificati dai molti indietro con cui si muove la macchina della giustizia, a salvarsi sono personaggi unici e minoranze.
Da un teorico del complottismo come qualche PM, il suo inizio viene fatto risalire all’inizio degli anni Sessanta a Palermo, quando all’Hotel Parco dei Principi, si tenne un convegno di studiosi, militari e giornalisti sui modi più efficaci con cui contrastare il comunismo. Ma grazie al contributo del deputato del Pci e poi vice-presidente della Commissione presieduta da Tina Anselmi, Alberto Cecchi[35], anche presso La Repubblica scatta il proclama per cui il Parlamento dovrà prendere atto «di tutti i segnali che indica no nella P2 il principale centro eversivo di questi anni»[36].
La nuova linea del PCI
Dunque i comunisti tortuosamente abbandonano la linea che attribuiva all’estrema destra il primato nella de-stabilizzazione del regime repubblicano, e concentrano ogni attenzione su un a struttura occulta e clandestina considerata maggiormente influente e pericolosa come la P2.
Il 15 giugno 1986 il quotidiano del PCI sintetizza in questi termini[37] il deposito-avvenuto un mese prima- della requisitoria per la strage del 2 agosto: “È una strage firmata P2. Ed il Sismi «deviato» coprì i responsabili”[38]. Siamo assai lontani dalla riflessione storica in cui Giuseppe De Lutiis inquadra i diversi aspetti della strategia della tensione sottesa alla politica piduista. Come ha mostrato il giornalista del settimanale L’Espresso Pietro Calderoni, bisogna prendere atto che essa
“si svolse in più tempi, che si è esplicitata inizialmente nella protezione dei gruppi destinati a compiere l’attentato prima che esso avvenisse, poi nel depistaggio delle indagini […] infine nel salvataggio dei presunti responsabili»[39].
Questo secondo aspetto s’imporrà, gli il segno, al decennale della strage. Il Pci, infatti, optò per organizzare festival, balli e canti invece che chiudersi nelle lacrime di in un rito funebre prolungato. In realtà della nuova destra, della sua composizione sociale, di quanti lo manovravano non sapeva molto. Nel mese di marzo Franco Ferraresi, sociologo cui dobbiamo molte delle più articolate e lucide analisi della violenza e del terrorismo di destra in Italia, cura per Il Corriere della Sera una serie di articoli di approfondimento sul tema: “La destra eversiva alla sbarra.”.
Il primo dei quattro contributi si concentra sulle radici del neofascismo italiano e, molto lucidamente, evidenzia come la destra costituisca in Italia «un settore politico fra i meno studiati», in cui il Movimento Sociale Italiano «è quasi del tutto trascurato da storici e politologi», e rispetto ai gruppi extra parlamentari di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
L’11 luglio 1988 si ebbe la prima sentenza. Erano passati otto anni, duecento cinque udienze, diciotto giorni di camera di Consiglio. Malgrado i quattro ergastoli per gli esecutori (individuati in Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco) e i dieci anni per calunnia aggravata dalla finalità di eversione per il capo della Loggia P2 Licio Gelli, Francesco Pazienza insieme agli ex ufficiali del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, il sentimento che giustizia sia stata fatta non è facile rinvenirlo. A venir fuori è una soddisfazione ambigua.
Ma la doccia fredda arriva un anno dopo, il 18 luglio 1990, quando l’assoluzione è la sentenza fatta valere per tutti gli imputati. L’Unità esce con la prima pagina quasi interamente in bianco. Le poche righe di commento contengono ira e indignazione: Bologna, una strage nel nulla, commenta Ibio Paolucci. L’aveva preceduto Licia Pinelli, moglie di un notissimo ferroviere anarchico (accusato, senza uno straccio di prova, dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi) che dalla questura di Milano uscirà scaraventato sul piazzale da una finestra da dove non era entrato:
«uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto, uno Stato che non esiste»[40].
Sgomento per una sconfitta e determinazione nel cercare la verità sono anche la reazione dei comunisti.
Ma dove cercarla, a questo punto? A Botteghe oscure non se la sentono di mentire, trovare attenuanti, esortare alla solita liturgia dell’attesa. Dicono chiaro e tondo che la magistratura ha fatto fallimento:
“La verità, da vent’anni, non sta nei cassetti dei giudici ma giace negli archivi dei servizi segreti italiani”.
Dunque, un altro e nuovo, anche se non nuovissimo, attore viene promosso Mai questo partito di opposizione sia era spinto a tanto. Dunque, la verità su Bologna bisogna cercarla fuori delle aule dei tribunali:
“Tutti assolti. Dopo dieci anni la strage di Bologna non ha alcun colpevole. Resta il ricordo di 85 morti e 200 feriti. Dal ’69 ad oggi vi sono state cinque stragi, centinaia di vittime e di feriti e nessun mandante accertato, nessun esecutore in carcere”.
E’ anche la chiusa del commento non fa nessuna concessione alle autorità giudiziarie. L’organo del Pci respinge ogni
“possibile rettorica. È il segno dell’indigna zione e dell’ira. È la testimonianza dello sgomento”.
E’ un atteggiamento che induce ad una polemica aspra, dura. Il Corriere della Sera si chiede, con Giuliano Zincone, se al Pci in fondo non basti, e quindi non cerchi, un colpevole, indicandolo in Gelli o in qualche esponente del neofascismo, da dare in pasto per soddisfare, o solo sedare, la domanda crescente di giustizia di elettori, iscritti e in generale dell’opinione pubblica. E’ una comprensibile e seria domanda liberale. In realtà, in seguito al fallimento della verità sulle stragi cercato nei tribunali, dal Pci il terreno dello scontro, della rivalsa, del riscatto viene interamente trasferito sul piano dei rapporti di forza nella società. Di qui l’affermazione e una sorta di appello “anche di una battaglia civile che continua più forte”.
Non si tratta di reazioni individuali, isolate. Nei racconti dello stragismo sono ricorrenti e alludono all’inenarrabile lontananza dello Stato e all’iniquità degli esiti giudiziari (la mala giustizia appunto)[41].
Senza tempo, senza misura la tragedia di Lia Serravalli. Nell’esplosione presso la stazione ferroviaria di Bologna a scomparire nel nulla sono state due figlie adolescenti (Patrizia di 18 anni e Sonia di 7) e la sorella Silvana con un bambino in grembo. A cedere ad un dolore demoniaco e irremovibile è stato il padre che ha finito per suicidarsi gettandosi dal sesto piano dell’alloggio in cui abitava. E’ stata la protesta estrema contro lo Stato (magistratura, servizi, politica ecc.).
Lo Stato per questo vecchio era un guscio lessicale, la consistenza di una macchia nera, uno spettro che si aggirava indolente ed enigmatico, perché non cercava la verità della strage.
“non riusciva a farsi una ragione del fatto che non si trovasse un colpevole. Che non ci fosse giustizia. Che non si capisse perché era stata compiuta quella strage, un’altra strage dopo tanti morti. La bomba mi ha tolto le mie figlie. Lo Stato mi ha tolto mio padre”[42].
Nessuno poteva testimoniare di averlo mai visto. Né a rovistare tra le macerie di quella trincea devastata che fu la stazione ferroviaria, né nelle aule del tribunale dove i ghigni e le irrisioni dei neofascisti chiusi in un gabbione non vennero sedate nel ricordo delle figlie, della sorella e del padre. Tutti morti innocenti:
«Non siamo mai stati protetti, non siamo mai stati aiutati. Ma soprattutto non siamo mai stati rispettati […] nessuno mi venga a parlare di perdono.»[43]
L’impunità decretata dallo Stato quando non riesce a trovare i colpevoli e a punirli, cioè ad emettere sentenze, è il solvente micidiale che in maniera lenta ma ineluttabile distrugge un regime democratico. “Non vogliamo un’altra Catanzaro” grida l’appena costituita a Bologna Associazione dei parenti delle vittime al Convegno delle città colpite dal terrorismo, promosso dalla Federazione unitaria Cgil, Cisl e Uil, tenuto il 2 giugno 1981. Il riferimento era al processo non ancora concluso per la strage di Milano presso la Banca dell’Agricoltura.
“Non ci sarà una seconda Piazza Fontana” fu l’orgoglioso impegno, la grande sfida politica lanciata dal Comune di Bologna. Nel dodicesimo anniversario della strage dal Corriere della Sera a La Stampa fino all’Associazione dei parenti delle vittime sono in prima fila nel denunciare l’immobilismo delle indagini. Non riguarda solo Bologna. Tutte le carneficine da Piazza Fontana all’Italicus, da Piazza della Loggia a Brescia sono indagini rubricabili come “passi perduti”. A rendere esterrefatti e indignati è la lentezza a carattere permanentemente cronico dell’amministrazione della Giustizia italiana; la scarsa comunicazione, e quindi la quasi non collaborazione tra magistrati e i dirigenti della nostra security; la trama dei rapporti impropri delle aree ad alto tasso di criminalità col terrorismo nero-fascista, che si sommano ad un fenomeno endemico, cioè agli scambi e coperture tra l’eversione di estrema destra con i servizi segreti e in generale la sfera del potere politico. Per non parlare delle assoluzioni, accompagnate da riesami, e trasferimenti ad altre sedi dei giudici. A Bologna furono coinvolti dal provvedimento ben quattro dei giudici coinvolti sino ad allora nell’inchiesta per la strage del 2 agosto, cioè Angelo Vella, Aldo Gentile, Luigi Persico e Guido Marino. Manlio Milani ha saputo cogliere un elemento decisivo quando ha vissuto, e reso pubblico, la distanza tra le istituzioni dello Stato e il mondo dalle pene inconsolabili e non risarcibili delle vittime. E’ un conflitto che ha vissuto dentro di sé e lo ha reso pensoso, e insoddisfatto, di tutte le semplificazioni, le stesse verità uniche:
“da un lato sono consapevole che se voglio mantenere viva la memoria e il messaggio di quella mattina devo difendere le istituzioni, dall’altro vedo le istituzioni che sono lontane, come volontà politica, da questa ricerca. Vivo ancora oggi sul la mia pelle una conflittualità enorme anche se, rispetto ad allora, abbiamo fatto notevoli passi in avanti”[44].
La sua mitezza personale non ha nulla, proprio nulla, da spartire con una forma di giustizia (verità giudiziaria) che alla fine affida la complessità della verità storica (non riducibile ad un valore interpretativo e anzi ricca di contrasti e tensioni del presente) all’insinuarsi dell’impu nità. Il perdono presuppone sicuramente il rifiuto della sanzione estrema (la condanna a vita del colpevole), ma a Milani sembra improponibile senza un’assunzione di responsabilità individuale. dell’innocenza di cui si è fatto strame.
” Trasmettere la memoria significa trasmettere questo senso del tempo storico, cogliere i percorsi da dove veniamo: sta qui l’essenza, il valore della ricerca della verità, che deve essere costante, continua, da non abbandonare. Dietro al ricordo c’è una cultura e soprattutto il non accettare di adagiarmi perché le cose sono andate così”[45].
Dieci anni dopo, cioè nel 1990, i nove giudici della Corte di Cassazione individuano troppe falle nel processo d’appello che aveva annullato le condanne inflitte in primo grado comminando l’assoluzione di molti neo-fascisti. A prevalere è la necessità di rimettere al centro l’ipotesi di un’azione terroristica fascista in collegamento con servizi segreti e loggia P2.E il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi Libero Gualtieri (esponente del Pri) introduce un altro protagonista:
“Quello di Bologna è un processo chiave, perché riguarda un fatto quasi conclusivo della strategia della tensione, di cui Gladio è stato parte»[46].
E’ l’ultimo attore a comparire in uno scenario in cui si sono alternati fino ad allora agenzie e interessi locali. Anche il nuovo venuto, pur avendo avuto i natali nel 1951, sarà cucinato, quel che in Italia è peccato mortale dire a voce alta, in pubblico, con orgoglio, di essere stato concepito come uno strumento della lotta popolare per non finire come l’Urss, la Cina, i paesi del Patto di Varsavia o Cuba. Precisamente per non subire, dandosi anche una struttura extraparlamentare (purtroppo a volte in combutta con gruppi di destra), l’invasione delle forze armate di quei paesi in cui ogni libertà ed eguaglianza è stata spazzata via per molti decenni.[47]
Silendo libertatem servo[48] è scritto nella piccola spada a doppia lama del simbolo italiani, Gladio, di Stay Behind. Era un organo della Nato anche se non di rado troppo vicino alla Cia.
Perché Bologna nel mirino?
La città di Bologna era considerata l’epicentro, e non solo il perno del l’antifascismo, del progresso e della solidarietà. Mai nei confronti dello Stato di Israele aggredito e diffamato, ma sempre a favore dell’estremismo arabo-palestinese dell’OLP.
Arafat dopo l’ennesima débâcle nella Guerre dei Sei Giorni nel 1967 col rinnovato intervento armato contro lo Stato ebraico si esibirà in forme di vero e proprio terrorismo e belletto anti-imperialista.
Le forze politiche che hanno governato la città (comunisti e socialisti) non hanno mai avuto una parola, e tanto meno organizzato una manifestazione, a favore degli Stati Uniti (allora impegnato in una guerra sub-imperiale indifendibile come quelle del Vietnam) avendo deciso di esaurire ogni sforzo e plauso a favore dell’Unione sovietica e dei paesi comunisti in ogni parte del mondo.
In passato, durante il ventennio, la città era stata tra le più devote e appassionate nel tributare fiumane di oceanico consenso al regime mussoliniano. Durante la guerra di liberazione del 1943-1945, malgrado le difficoltà incontrate dai gruppi partigiani – per la conformazione geografica pianeggiante e poco montagnosa della provincia – di poter svolgere un’azione clandestina non solo di infiltrazione, ma anche di carattere militare, fu un centro di organizzazione e propulsione dell’anti-fascismo combattente. Com’è (poco) noto, qualcuno dei suoi organismi si spinse fin nelle valli del Bellunese occupate da reparti nazi-fascisti[49].
Nel dopoguerra la città sul piano elettorale, della cooperazione economica, della mobilitazione dei ceti sociali, grazie ad una politica comunale attenta all’assistenza e al sostegno degli strati popolari più diseredati, seppe eccellere, fino ad essere additata come un esempio, nel buongoverno. Con un occhio impavido nel soddisfare le esigenze delle corporazioni, mondi associati come i commercianti, gli artigiani, le cooperative e il micro-padronato. Erano la base del suo nuovo blocco sociale dopo il fallimento dell’industrializzazione, insieme a ceti che, al pari di quelli dei Cinque Stelle, oggi si chiamerebbero populisti.
A diventare sempre meno presenti, se non passivamente, nell’armamentario politico dei comunisti emiliani furono i monopoli. Assomigliano ad un tema diventato desueto, perché a rinnovare la nuova strategia vengono schierati il reticolato imprenditoriale di piccolo calibro pullulante proprio nello spazio territoriale ed elettorale in cui il Pci dominava (Emilia, Toscana, Umbria e Marche).
Di qui la tendenza a voler modificare ben poco nel sistema policentrico e per nulla a dominanza proletaria delle alleanze fino a voler convivere col tessuto una volta esecrato delle grandi imprese.
Il servizio privato del traporto pubblico è un collo di bottiglia che le amministrazioni comunali di Bologna non sono riuscite, anzi non hanno mai osato, scalfire. Ancora oggi, essendo la città, diventata meta di grandi fiere internazionali, si può assistere, esterrefatti ed estenuati, allo spettacolo di interminabili file di persone che nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti attendono l’arrivo di un taxi. Era, questa, una politica che fin dal 1982 mi sono permesso di delineare, non tenendo conto della differenziazione costituita dal sigillo ideologico sovietico, come una prassi socialdemocratica[50]. Non riusciranno a piegarla il tallonamento martellante e i controlli esosissimi che il governo centrale impose servendosi dei meccanismi di contropotere attribuiti alle prefetture e alle questure. La città fu progressivamente assoggettata ad un processo – certamente non energico né impetuoso, e tantomeno totalitario – di sovietizzazione. Debole e poco duratura fu la maschera propagandistica con cui venne ricoperta, cioè la gratuità del servi zio pubblico di trasporto.
L’antisemitismo fascista era sopravvissuto alla caduta del regime. I docenti e il personale universitario che avevano perso ogni incarico per la loro fede, alla débâcle della dittatura non vennero ripristinati nei loro vecchi ruoli[51].
Lo squadrismo comunista contro i profughi istriano dalmati.
A Bologna e a Roma il Pci scelse la via sobria del riserbo, cioè si guardò bene dal l’esprimere disapprovazione e condanna contro una discriminazione che il fascismo aveva reso norma.
Nell’urbe petroniana gli ebrei erano numerosi tra gli iscritti e i dirigenti del Pci. Ma a prevalere fu il conformismo più tragico ad un passato-che-non-passa. Infatti, nessuno dei leader con simpatie e origini semitiche del partito bolscevico poté fregiarsi dell’onore di essere morto nel proprio letto.
La sudditanza a Mosca comportava anche efferatezze e disumanità. Per alcuni giorni una folla di militanti e di elettori si scatenò contro il treno che da Trieste trasferiva a Roma centinaia di sopravvissuti alle foibe e ai maltrattamenti dei comunisti jugoslavi. A questi viaggiatori negarono acqua e pane, ma li rifocillarono di scorte di insulti cocenti. Fu un’azione indecente di squadrismo comunista. Ad esserne vittime furono numerosi abitanti di una regione italiana, la Venezia Giulia. Il legame fraterno con Stalin e con Tito, entrambi riveriti da Togliatti, li aveva tramutati in una folla di profughi in patria. Ignorati dallo Stato, criminalizzati come fascisti dalle sinistre, accampati nelle case popolari delle grandi periferie urbane per molti decenni furono costretti a vivere nella condizione miserabile e penosa di poverissimi esuli. Nella storia dell’Italia monarchica e repubblicana, non si era mai vista una così imponente de-nazionalizzazione di un segmento della popolazione, per di più proveniente dai confini, imposta da un partito legato a filo doppio a Mosca. Stipati nei vagoni di una tradotta delle Ferrovie dello Stato, fuggivano da un destino certo di perdita ogni identità nazionale e di ogni libertà. Avevano due colpe che non verranno loro mai perdonate. In primo luogo aver voluto preservare, difendendola con grandi sacrifici di vite umane, espropriazione di beni, aggressione alle loro ancestrali memorie, a loro identità nazionale. L’esercito e la polizia politi a rossa del maresciallo jugoslavo li avevano banditi, armi in pugno, dalle proprie città e case. In secondo luogo avevano rivendicato il diritto a non subire, dopo quella fascista, l’oppressione di una dittatura anche peggiore come quella di Stalin, auspice Togliatti. I comunisti bolognesi saranno sempre in prima fila nell’assecondare ogni decisione e impulso ostile alla democrazia degli Stati Uniti e dei paesi aderenti al patto atlantico, nel cantare le lodi di quanto -anche di peggio – veniva imbandito dalla propaganda sovietica.
Ian Palach, “eroe negativo”
Il punto più basso, la pagina cioè più degradante e infame, fu toccato da un uomo di potere, sempre molto attento alla propria immagine (non di trasandato e improbabile compagno comunista, ma di sé stesso), il sindaco Renato Zangheri.
Si volle spingere all’estremo del filo-sovietismo, nella difesa di una misura semplicemente reazionaria come l’invasione della Cecoslovacchia da parte di reparti del l’Armata Rossa, l’uso dei carri armati per debellare la domanda di autonomia e di libertà dei cittadini cecoslovacchi. Lo fece bollando come “eroe negativo” il suicidio del giovane studente Ian Palach. Piuttosto che vivere in una città occupata dall’esercito e governata dal partito dell’Urss, come Praga, optò per darsi la morte. Era il segno del dolore infinito, della disperazione alla quale i metodi e le idee del comunismo condannavano le nuove generazioni. Ma il sindaco di Bologna e il suo partito non esitarono a schierarsi dalla parte di chi, facendo sfilare colonne di tanks e uomini armati, pensarono di ipotecare il loro futuro.
Sempre a Bologna, anche nei confronti della rivolta studentesca degli anni Settanta, l’atteggiamento è che fosse un “nuova peste”, cioè un fascismo rivestito a nuovo, ma sempre di vecchio conio[52]. Quello che nel 1919-1920 aveva bruciato le copie del quotidiano socialista Avanti!, messo a ferro e a fuoco le sedi del Psi e delle cooperative, malmenato e costretto all’emigrazione braccianti e operai, spesso con le loro famiglie al seguito.
Perché questa storia non si ripetesse, anche se non ce n’era il minimo indizio, i leader comunisti bolognesi, con alla testa il sindaco prima citati, invocheranno, in maniera impropriamente indiretta l’intervento repressivo della polizia per ripristinare il vecchio ordine accademico. Guido Viale lo aveva devastato sui Quaderni Piacentini mostrandone il vecchiume, l’arretratezza e la distanza siderale dai bisogni della gente e delle stesse imprese.
C’erano stati episodi di violenza a carico di qualche ristorante, non poche occupazioni di strade e biblioteche di Facoltà, scambi di insolenze eccetera. L’esercito inviato da Cossiga, allora ministro dell’Interno, militarizzò la zona universitaria. Solo la sindrome pervasiva del complottismo dominante nella testa del gruppo dirigente del Pci poteva spiegare che senso avesse criminalizzare gli studenti accusandoli di essere terroristi di destra, addirittura manovrati dagli Stati Uniti, insieme ai movimenti politici di estrema sinistra che li sostenevano. Negli atenei di Berkeley, di Parigi e di Nanterre eccetera succedeva di peggio.
Per la verità non si poteva esigere né pretendere molto. La federazione comunista di Bologna per conto suo e non aveva mai dato prova di eccellere in capacità di analisi. Era uno scrigno prezioso di voti, una chiesa di grande fedeltà a Roma, e subiva passivamente la sindrome universal-complottistica permanente che aveva pervaso a Roma il ministro dell’interno in pectore, Luciano Pecchioli. Subirà anche la fascinazione dell’idea di Luciano Violente di appiattirsi sulle procure, dando vita alla famosa via giudiziaria al socialismo[53].
Il fascismo eterno, un’invenzione dei comunisti
L’idea del fascismo che torna, cioè del fascismo eterno, fu inventata dai comunisti, per esorcizzare la formazione di una destra liberale.
Venne agitata in ogni occasione dopo l’esclusione del Pci dal governo nel 1948. Ad essa ha sempre corrisposto l’esibizione – non senza una certa ridondanza – dei simboli dell’antifascismo e della Resistenza.
Ricordo che nel 1977 gli iscritti al Pci furono mobilitati a difesa del sacrario e dei cippi delle vittime partigiane nella guerra di Liberazione. I loro nomi e le relative foto erano esposti a Piazza Maggiore. Ci fu inoltre imposto di recidere qualunque legame amicale con militanti o sospettati di essere tali delle Brigate rosse e simili. Nessuno aveva minacciato questo e altri luoghi di rimembranze antifasciste, ma il segnale che si voleva dare era che il movimento degli studenti voleva regolare dei conti col passato antifascista (peraltro recentissimo) di una città che tra quelle emiliane, e anzi italiane, era stata sempre orgogliosamente fascistissima.
Per i giovani di destra, la vita a Bologna è stata grama, impervia, una sfida e un pericolo continui. Girare da soli in città, ed essere riconosciuti dai giovani della FGCI, significava esporsi a incidenti, quando non una catena, di violenze e provocazioni.
Non diversamente da quanto era avvenuto nel biennio 1920-1921 ai giovani socialisti e comunisti assunti a bersaglio delle squadracce fasciste e costretti ad emigrare. Di qui la necessità per i militanti neofascisti di fare gruppo, incontrarsi collettivamente e quindi cadere nel pericolo che si voleva evitare. Una guerra civile a bassa intensità, ma permanente.
Un parlamentare di Alleanza Nazionale, Enzo Raisi, in un passaggio auto biografico ricorda
“i tanti scontri che noi giovani di destra, sparuta e coraggiosa minoranza, ingaggiavamo al Liceo Fermi con i nostri coetanei di sinistra. Non c’era storia, il rapporto era uno a cento e la nostra attività politica era mera testimonianza”[54].
Anche andare e uscire di scuola era un’avventura simile ad una lotta per esistere:
“Ogni giorno, quando la campanella diceva che era ora di andare a ca sa, si ripeteva sempre lo stesso scema: si guardava fuori dalla finestra, si controllava l’atmosfera e al minimo sospetto di pericolo o di agguato o di assembramento della controparte si optava per l’unica scelta possibile: uscire dalla finestra di dietro. Sopravvivenza pura”[55].
E non si sono mai contati i morti ammazzati per mano delle forze dell’ordine o in scontri con militanti della federazione giovanile comunista. Davvero una guerra civile a bassa intensità, ma permanente.
A Bologna, come in Emilia, la narrazione di un’epoca è stata sintetizzata Il Fatto Quotidiano
“il papà, la mamma, la famiglia: in Emilia il PCI fu davvero tutto”[56].
In segno di gratitudine e devozione ad esso, nel primo dopoguerra gli assunti negli enti comunali hanno per un certo arco di anni versato il primo stipendio al partito. Aveva cercato di creare un contro-potere e un contro-Stato sull’esempio di quanto aveva fatto alle origini la socialdemocrazia tedesca e lo stesso socialismo evangelico di Camillo Prampolini e Andrea Costa. Questa tradizione viene meno quando il PCI cessa di essere di opposizione e diventa una forza di governo.
L’antifascismo veniva arroventato come un ferrovecchio per far fronte a un pericolo che non è mai esistito se non nella mente di chi lo aveva posto alle gambe della strategia per ripristinare quel che nel 1948 era stato dissolto, cioè la presenza del PCI al governo come se fosse una reincarnazione del CLN. Suonava un po’ curioso, paradossale e ridicolo, che venisse attribuito un tale potere di veto e di forza eversiva ad un partito come il Msi. Era liberamente rappresentato in parlamento e in tutte le sedi elettive (Comuni, Province e Regioni), partecipava all’elezione dei presidenti del Consiglio e dei ministri, come a quello del capo dello Stato, dei membri della Corte Costituzionale, del Consiglio Superi ore della Magistratura eccetera [57]
C’è da stupirsi che con queste caratteristiche Bologna sia stata designata a diventare oggetto di una punizione esemplare, massacrandone la popolazione che affollava la stazione ferroviaria del 2 agosto 1980? E’ una domanda che deve essere posta di fronte al carattere primordiale, barbarico di chi l’ha concepita e ancor peggio eseguita. Meno rappresentabile come un’azione irrazionale e folle è, invece, l’eventuale decisione sia dei terroristi palestinesi sia, e soprattutto, di quelli di Gheddafi, magari in maniera concertata, per essere stato spodestato dal governo italiano del potere di controllo di Malta.
Ringrazio Alberto Comastri e Bruno Somalvico per i consigli e le precisazioni.
[1] Una spia dei problemi è la ricerca curata da Giorgio Freddi, Conflitto e tensioni nella magistratura, Laterza, Roma-Bari, Laterza, 1978, VIII-308 p.
[2]Di recente si veda Gerardo Villanacci, “Autocritica per riformare la giustizia”, Il Corriere della Sera, 18 luglio 2023, p. 32.
[3] Gian Paolo Pelizzaro, Lorenzo Matassa e Gabriele Paradisi, “Dalla crisi dei missili di Ortona al vertice di Venezia del 12-13 giugno 1980. Un quadro storico travisato in sentenza”, Reggio Report, 15 febbraio 2021.
[4]A prospettarla furono inizialmente due consulenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caro Mitrokhin, cioè il giornalista romano Gian Paolo Pelizzaro e il magistrato siciliano Lorenzo Matassa. La loro ampia e ben documentata (Relazione sul gruppo Separatista e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980, depositata il 23 febbraio 2006, ebbe l’approvazione di Giulio Andreotti. Seguirono i contributi di Gabriele Paradisi e Francois de Quengo Si veda a questo proposito il Dossier strage di Bologna. La pista segreta, Giraldi editore, Bologna 2010 e l’ampio respiro del volume di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, I segreti di Bologna. La verità sull’atto terroristico più grave della storia d’Italia, Chiarelettere, Milano 2016.
[5] Me ne sono occupato più volte in articoli su Il Mulino, Avanti!, Il Sussidiario e ampiamente in una lunga intervista a Roberto Rosseti, intitolata “Habbash, Carlos e Gheddafi, ombre rosse sulla strage”, Nova Historica“, XVIII (71), , marzo 2020, pp. 113-134.
[6] Per un resoconto attendibile di questo delicatissimo affaire si veda il saggio, mai smentito, del nostro ex sottosegretario agli esteri, Giuseppe Zamberletti, La minaccia e la vendetta. Ustica e Bologna: un filo tra due stragi, Milano, Franco Angeli, 1995 e 2013
[7]Rimando alla ricostruzione analitica che ne hanno fatto Giacomo Pacini (Il lodo Moro.L’Italia e la politica mediterranea, in Aldo Moro e l’intelligence., a cura di Mario Caligiuri,Rubettino, Soveria Mannelli 2018) e Valentina Lomellini, Il Lodo Moro. Terrorismo e ragion di Stato, 1969-1986, Laterza, Bari-Roma e 2022.
[8] Si veda la ricostruzione di Gian Paolo Pelizzaro, Lorenzo Matassa e Gabriele Paradisi, Dalla crisi dei missili di Ortona ecc. cit.
[9] Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti (COPACO)
[10] Cfr. il testo uscito ne Il Velino, in data 12 luglio .
[11] Una denuncia di questo prevalere di pressioni e delle raccomandazioni, per non dire la contrattazione privata delle nomine tra politici e magistrati, è il libro di Luca Palamara e Alessandro Sallustri, Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana,Milano, Rizzoli, 2021
[12] Si veda l’intervista resa al Corriere della Sera
[13] Stefano Levi Della Torre, “Raccontare per ricordare”, in Le ragioni della memoria: interventi e riflessioni a vent’anni dalla strage di Piazza della Loggia, Brescia, Grafo, 1994, 123 p. [pp. 109-121].
[14] Fondazione Isec, Lo stragismo in Italia e il terrorismo internazionale, novembre 2006 Rapporto n. 118 – 2006.
[15] Vladimiro Zagrebelsky, “Le spalle del giudice”, La Stampa, 13 luglio 1988, pp.1-2.
[16] Per la sua ampia riflessione rimando a Per una storia del terrorismo italiano, a cura di Carlo Fumian, Roma, Donzelli, 2010.
[17] Cfr. p.201 della ben documentata, e dalla tematica ricca, dissertazione di laurea di Claudia Sbarbati, Le stragi e lo Stato. Narrazioni su carta dello stragismo italiano: cronaca, memoria e storia, Università di Macerata, 2018.
[18] Ringrazio l’Avvocato Massimo Pellegrini di Bologna per avermi fornito la citazione, che riprendo da una sua arringa.
[19] Cfr. La strage. L’atto d’accusa dei giudici di Bologna, a cura di Giuseppe De Lutiis, con prefazione di Norberto Bobbio, Roma, Editori Riuniti, 1986.
[20]Comunicato dei NAR per l’omicidio di due agenti fatto rinvenire ad un redattore dell’agenzia Ansa. Si veda il testo integrale in Mario Caprara, Gianluca Semprini, Destra estrema e criminale, Newton Compton Editori, Roma, 2007, 380 p. [si veda p. 163]. La migliore ricostruzione di Giusva Fioravanti è quella di chi gli ha dedicato un. anno di lavoro, intervistandolo tutto questo tempo in carcere, Giovanni Bianconi, A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 1992.
[21] Un inviato del Corriere della Sera sostiene una tesi molto diversa rilevando ” il «filo conduttore ampiamente documentato, tra il vecchio Ordine Nuovo […] e le attuali strutture dei NAR e di Terza Posizione». Antonio Ferrari, “Il mutuo soccorso dei due terrorismi”, Il Corriere della Sera, 7 dicembre 1981, p.1:” i due opposti estremismi si aiutano, nei momenti di rispettiva difficoltà. Nel ’74 il declino del “progetto neofascista” fu compensato dall’esplosione dell’eversione rossa. Nel 1980, il favore fu indirettamente restituito. Mentre Patrizio Peci e numerosi brigatisti e piellini “pentiti” distruggevano (con le loro rivelazioni) intere colonne, i fascisti organizzavano la strage di Bologna”.
[22] “I contatti di Gelli col terrorismo nero”, Il Corriere della Sera, 24 marzo 1984, p. 1.
[23] Si veda Giacomo Pacini, La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati,Einaudi, Torino 2021.
[24] Giampiero Testa, La strategia che viene dall’alto, Bologna, Thyrus,1986, a cura dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna. Nel 1976 ha pubblicato per Einaudi La strage di Peteano, libro inchiesta sull’attentato avvenuto in Friuli il 31 maggio 1972 in cui persero la vita tre carabinieri (il brigadiere Antonio Ferraro, i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni).
[25]Il terrorismo e le sue maschere. L’uso politici delle stragi, a cura di Gianni Flamini, Pendragon, Bologna 1996. I
[26] Si vedano in suoi Appunti per una relazione conclusiva, 9 gennaio 2001 Senato della Repubblica e Camera del Deputati, XIII legislatura, doc. XXIII, n. 64, vol. 1, tomo 1.
[27] Gli scritti del senatore Pellegrino sono pubblicati da Einaudi e da Rizzoli in collaborazione con Giovanni Fasanella, La guerra civile, Milano, Rizzoli, 2005 con Giovanni Fasanella e Fasanella e Claudio Sestieri, Segreto di Stato, Einaudi, Torino 2000 e il recente Politica, terrorismo. Dieci anni di solitudine, memorie di un eretico di sinistra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2023.
[28] Enzo Raisi, op. cit, p. 21.
[29] Mauro Mellini, Il golpe dei giudici, da “Giustizia giusta” 1991-1994, Milano, Spirali, 1994, 326 p.
[30] Leo Valiani, “Più informazione e più decisione contro le tramefasciste”, Il Corriere della Sera”, 4 agosto 1980, pp.1-2
[31] Alberto Moravia, “Ma il popolo non si destabilizza”, Il Corriere della Sera, 4 agosto 1980, p. 1.
[32]Ugo Baduel, “Conversazione con Pecchioli”, L’Unità, 4 agosto 1980, p.1 (continua a p.4, facendo seguito all’editoriale intitolato “Sono stati i fascisti!”, L’Unità, 4 agosto 1980, p.1.9)
[33] A cogliere sinteticamente qualcuno di questi aspetti fu Marco? Benedetti, “A Bologna gente da tutta Italia per i solenni funerali delle vittime”, Stampa Sera, 5 agosto 1980, p.2
[34]Del fortunato volume, edito nel 1970, l’ultima edizione è stata curata da Aldo Giannuli, Storia della “Strage di Stato”, Firenze, Ponte alle Grazie, 2020.
[35] Storia della P2, Roma, Editori Riunti, 1985.
[36] Sandra Bonsanti, Entro l’86 chiuderemo le nostre inchieste sulle grandi stragi, La Repubblica, 14 dicembre 1985, p. 5.
[37] Piercioccante, L’Unità, 15 giugno 1986, p.6.
[38] Recava il titolo Il terrorismo e le sue maschere. L’uso politico delle stragi, Bologna, Pendragon, 1996.
[39] La strage. L’atto di accusa dei giudici di Bologna, a cura di Giuseppe De Lutiis, prefazione di Norberto Bobbio, Roma, Editori Riuniti, 1986.
[40] Licia Pinelli e Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Milano, Mondadori, 1982. 200 p. [la citazione è a p. 23]. Poi nell’edizione uscita per i tipi di Feltrinelli, Milano, 2010. 32.Si veda Giovanni Fasanella, Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Milano, Rizzoli, 2006, 252 p.
[41] Per la strage presso la stazione ferroviaria di Bologna sono state raccolte le testimonianze di Lia Serravalli e Anna Di Vittorio, madre e sorella la seconda.
[42] Lia Serravalli, Dovrebbero guardarci con gli occhi bassi, e sperare che Dio non esista, cit. p. 193
[43] Ivi, p. 96
[44]Testimonianza e riflessione che si possono rinvenire in Manlio Milani, Oltre l‘attimo che è stato. Dialogo con Manlio Milani, p. 130, in Alberto Conci, Paolo Grigolli, Natalina Mosna (a cura di), Sedie vuote. Gli anni di piombo: dalla parte delle vittime, Trento, Il Margine, 2009, 360 p.
[45] Ibidem, p. 131
[46] Maria Antonietta Calabrò, “Gualtieri: nel massacro c’entra Gladio, Il Corriere della Sera, 14 febbraio 1992, p.11.
[47] Si veda, per un verso, l’impostazione di un giudice veneziano Felice Casson (al quale si deve la raccolta di documenti da cui emerge che Gladio “fu impegnata non solo per scopi difensivi, ma anche in chiave di opposizione anticomunista” per i quali ultimi egli era oltremodo sensibile (cfr. Banda armata. La sentenza del giudice Casson su Gladio, Roma 1991); e, per un altro verso la ricostruzione minuta di Giacomo Pacini, Le altre Gladio, Torino, Einaudi, 2014.
[48] Ovvero “Tengo silenziosa la mia libertà”
[49] La vicenda è richiamata nel saggio di Eugenia Scarzanella, Isabel e la sua ombra, Bari, Pellegrini, 2023
[50] Rimando al mio saggio introduttivo (Il comunismo emiliano una variante del socialismo riformista) al volume mio e di Valerio Evangelista, Il galletto rosso. Precariato e conflitto di classe in Emilia Romagna (1880-1980), Marsilio, Venezia 1982. Vi è anticipata un’impostazione storiografica che avrà in seguito per protagonisti studiosi diversi. Dalla dimensione internazionale (il saggio a più mani I comunisti italiani e il riformismo, a cura di Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo, Torino, Einaudi, 1986) ad una (utile ma meno significativa) dimensione locale\regionale
[51]Si veda Roberto Finzi, L’università italiana e le leggi antiebraiche, Roma, Editori Riuniti, 1997 (II ed. ampliata 2003)
[52] Rimando al testo in cui l’ho formulata Salvatore Sechi, “Il Pci: l’albero, la foresta e la nuova peste”, Il Mulino, XXVI (250), marzo aprile 1977, pp. 274-302.
[53] Lo ricorda Giovanni Pellegrino, Dieci anni ecc. cit.,
[54] Enzo Raisi, Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva della verità, Bologna, Minerva edizioni, 2012, p. 59
[55] Ibidem
[56] Si veda l’intervista di Tommaso Rodano su Il Fatto Quotidiano a Fausto Anderlini che attribuisce al Pci un’idea di partito comunità e partito-Stato che notoriamente è stata della socialdemocrazia tedesca.
[57] “Il MSI e le frecce spuntate dell’”arco costituzionale”, Il Corriere della Sera, 22 maggio 1985.