Dibattito

Democrazia Futura. Dubbi sulla trattativa Stato-mafia

di Valter Vecellio, scrittore e giornalista |

Le celebri trattative tra pezzi delle Istituzioni italiane e 'Cosa Nostra', ci sono state o no? Le riflessioni di Valter Vecellio.

Valter Vecellio

Prosegue il dibattito sulla presunta Trattativa Stato Mafia dopo la recente sentenza della Corte Costituzionale avviato con un intervento di Salvatore Sechi su “Scalfaro, i pentiti, l’esercito e l’ex Pci nella trattativa Stato-mafia”. Lo scrittore e giornalista Valter Vecellio, al contrario dello storico sardo, esprime Dubbi sulla trattativa Stato-mafia sottolineando come recita l’occhiello che “Lo stop al 41 bis riguardò appena 11 affiliati: tra loro neppure un boss di Cosa nostra” “Dunque – chiarisce l’autore- gli aderenti a Cosa nostra contenuti in quell’elenco erano pari a meno del 5,5 percento di tutti i detenuti con decreto in scadenza; ciò nonostante, all’epoca, né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia né dalla Dna, né dalle altre forze di polizia richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro. Il mutamento di regime carcerario per quei diciotto soggetti ridotti, peraltro, nel giro di pochi mesi, a seguito di una nuova applicazione, a soli undici, non ha quindi nulla a che fare con il frutto di un patto scellerato. Parliamo semplicemente – conclude Vecellio – di una scelta politico amministrativa condizionata da una pluralità di eventi: il nuovo rigoroso trend interpretativo della norma da parte della Corte Costituzionale con la sentenza del 28 luglio 1993; la mancanza di una motivazione che non doveva essere generale e astratta come quella inviata in risposta dalla Procura di Palermo, ma individualizzata per ogni sottoposto; non da ultimo, la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno delle carceri”.

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Lo stop al 41 bis riguardò appena 11 affiliati: tra loro neppure un boss dì Cosa nostra. Tutte le motivazioni della sentenza Trattativa Stato-mafia, sia di primo che secondo grado, sono composte da migliaia di pagine, il 90 percento delle quali non vertono sulle singole posizioni degli imputati: non si limitano a provare il reato per il quale sono accusati, ma tendono a ricostruire gli eventi che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni Sessanta e i giorni nostri, passando dai tentativi di golpe dei primi anni Settanta, al sequestro Moro, sino al terrorismo brigatista e alla P2, oltre, ovviamente, alle stragi mafiose.

 Per esempio la sentenza d’appello: nelle 3 mila pagine, alla fine l’unica presunta prova della minaccia veicolata al governo è la famosa mancata proroga del 41 bis a circa 300 detenuti. Questo è caposaldo dell’avvenuta trattativa Stato-mafia. Cosa ci racconta questa narrazione? La sostituzione dell’allora direttore del Dap Nicolò Amato con Adalberto Capriotti sarebbe il tentativo di mettere alla guida del Dipartimento un uomo che avrebbe garantito il suo sostegno al dialogo sul carcere duro ai boss avviato da parte dello Stato con la mafia. Per evitare nuove stragi e omicidi eccellenti, sempre secondo la tesi, pezzi delle istituzioni avrebbero trattato con Cosa nostra concedendo un alleggerimento dei 41 bis realizzato, nel novembre del `93, con la mancata proroga di oltre 300 provvedimenti di carcere duro.

A mio parere sono state strumentalizzate le parole di Giovanni Conso, l’allora ministro della Giustizia che decise di non prorogare il 41 bis a 336 detenuti. In realtà, è stato abbastanza chiaro quando fu sentito per la prima volta in un processo, parliamo quello di Firenze sulle stragi continentali. che si può ascoltare su Radio Radicale.

Alla domanda su quelle mancate proroghe, Conso spiega che tale decisione è stata presa a seguito della sentenza della Corte costituzionale. Purtroppo, quando è stato sentito altre volte, lo stesso Conso – non citando più quella sentenza – e spiegando solamente che tale decisione la prese in solitudine anche con la speranza che potesse in qualche modo “favorire” la cosiddetta ‘ala’ moderata di Cosa nostra, offrì inconsapevolmente la stura alle suggestioni.

Ma non si può e non si deve ignorare la sentenza della Consulta (numero 349, depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993).

Il 29 ottobre – quindi 3 mesi dopo la sentenza – lo stesso Dipartimento di amministrazione penitenziaria invia un documento in cui si chiedeva a diverse autorità – dalla magistratura alle forze dell’ordine – un parere sull’eventuale proroga del provvedimento a oltre tre cento persone detenute. Il 30 luglio del 1993 (due giorni dopo la sentenza della Consulta) l’ufficio dei carabinieri relativo al coordinamento servizi sicurezza degli istituti dì prevenzione e pena chiede un parere sull’eventuale proroga dei detenuti al 41 bis direttamente ai Ros.

L’allora generale di brigata comandante Antonio Subranni risponde di non essere d’accordo sul mancato rinnovo del 41 bis. Un dettaglio fondamentale: secondo la tesi della trattativa, sarebbero stati i Ros a veicolare la minaccia, in particolare il fantomatico papello di Riina. Invece fecero l’esatto opposto: si opposero alla decisione di non prorogare. La sentenza della Consulta, frutto dei ricorsi del tribunale di sorveglianza con i quali si chiedeva l’illegittimità costituzionale del 41 bis, ha salvato il carcere duro ma nel contempo ha chiesto che i rinnovi del regime speciale non fossero collettivi, ma valutati caso per caso.

L’allora ministro Conso ha applicato tale decisione.

Erano tutti detenuti mafiosi? No. Dei 336 decreti in scadenza, il regime del carcere duro non è stato rinnovato soltanto per diciotto detenuti appartenenti a Cosa nostra (a sette dei quali è sta to, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato); per nove detenuti appartenenti alla `ndrangheta; per cinque detenuti appartenenti alla Sacra corona unita; per dieci detenuti appartenenti alla camorra.

Dunque gli aderenti a Cosa nostra contenuti in quell’elenco erano pari a meno del 5,5 percento di tutti i detenuti con decreto in scadenza; ciò nonostante, all’epoca, né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia né dalla Dna, né dalle altre forze di polizia richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro.

Il mutamento di regime carcerario per quei diciotto soggetti ridotti, peraltro, nel giro di pochi mesi, a seguito di una nuova applicazione, a soli undici, non ha quindi nulla a che fare con il frutto di un patto scellerato.

Parliamo semplicemente di una scelta politico amministrativa condizionata da una pluralità di eventi:

  • il nuovo rigoroso trend interpretativo della norma da parte della Corte Costituzionale con la sentenza del 28 luglio 1993;
  • la mancanza di una motivazione che non doveva essere generale e astratta come quella inviata in risposta dalla Procura di Palermo, ma individualizzata per ogni sottoposto;
  • non da ultimo, la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno delle carceri – a tratti, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità – già avviata col precedente capo del Dap Nicolò Amato, mediante la nota del 6 marzo 1993: distensione che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità organizzata, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione essi siano.

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