La quarantina di pagine del Corriere Sera dedicate oggi alla morte di Silvio Berlusconi (comprese tre pagine di fitti necrologi e in modo cospicuo poi le pagine del dorso milanese) obbligano a stringere la percezione della morte del “Cavaliere”, avvenuta nella Milano della grande sanità privata e con il previsto epilogo dei funerali in Duomo, nel perimetro che, per almeno trent’anni, lo ha visto emigrare materialmente e immaterialmente in altri mondi.
L’Italia, soprattutto quella meridionale.
L’Europa, soprattutto quella delle foto del “salotto buono”
Il Mondo, con attenzione ai grandi della Terra pari a quella di certi leader defilati che per mangiare con lui un gelato a Portofino avrebbero pagato moneta sonante.
Grazie alle trovate comunicative di questi eventi, ma anche grazie alle sue studiate gaffes e alla sua infrazione permanente del cerimoniale, Berlusconi oggi conta – come italiano – più memorizzazioni nelle teste degli abitanti del Pianeta di Leonardo da Vinci, di Machiavelli, di Cristoforo Colombo e forse anche di Mussolini. Lui e i suoi “cucù” alla Merkel. Lui e il suo “Bunga Bunga”. Lui e le sue coppe internazionali di calcio.
Ma per converso, la sua narrativa resta ben inquadrata in un certa milanesità che si snoda nei maggiori stereotipi del Novecento. Insomma la reinvenzione della milanesità.
L’invenzione della liberazione commerciale dopo la guerra. L’invenzione del cumenda dell’economia immateriale che fa le scarpe (anche nel senso del conto in banca) al cumenda del manifatturiero. L’invenzione dell’internazionalità del calcio italiano. L’invenzione della politica-immagine. L’invenzione delle radici territoriali rispetto alla volatilità sbiadita dell’identità nazionale, in cui primeggia la sfacciataggine di usare il grido della curva di San Siro alla nazionale di calcio come involucro simbolico del suo partito politico inventato sui due piedi per evitare catastrofi (personali, aziendali e in un certo senso anche del sistema-Italia allo sbando).
Ci sono queste e ci sono anche altre invenzioni, quelle che appaiono di aggiornamento delle tradizioni (le barzellette un po’ grossolane, la pacca sul sedere alle segretarie, rubare la scena a chiunque, volere stare testardamente simpatico a tutti, il “te capì?” magari non detto per offendere ma in sostanza mettendo in dubbio sempre che l’altro abbia capito; non come fanno un po’ ipocritamente i siciliani che (“mi spiego?”) fingono di mettere in dubbio se stessi.
E potrei continuare a lungo.
Nella milanesità novecentesca di Berlusconi c’è la sua scarsa considerazione per le istituzioni, così come le considera il fortino statale (Torino prima e Roma da un pezzo), che anche nei quattro governi da lui guidati hanno rischiato più volte di finire in seconda fila per salvare una battuta di spirito, una iniziativa propagandistica, un farsi bello con qualcuno. Lui (ma anche molti italiani) hanno pensato che quella “simpatia comunicativa” fosse, in realtà, un interesse nazionale superiore (perchè solo questo genere di milanesi lo può davvero pensare in buona fede).
Nella milanesità novecentesca di Berlusconi c’è di saltare a piè pari la mediazione romana se si tratta di capeggiare un po’ di populismo meridionale, assicurando a sentimenti di questo genere il patto “con il nord”. Con l’idea di nord in cui si produce aria fritta (cioè immagine) ma si dice che questa è “la Milano industriale in cui sono nato”.
Insomma un copione che appariva improvvisato, ma che corrispondeva alla smarcamento continuo dall’Italia ufficiale, delle rappresentanze ufficiali, delle associazioni di categoria ufficiali. Eccetera, eccetera. A cominciare da Confindustria: nessun amore reciproco.
Nella milanesità novecentesca c’è il “cabaret light” che Milano ha fatto esplodere negli anni ’50 e soprattutto ’60, per mitigare in battuta il tema “sociale” nello spettacolo che prendeva piede.
Mella milanesità novecentesca c’è tutto quello che, quando è finita in ansie, tragedie e cose gravi la spensieratezza di certi anni ed è tornato il cielo plumbeo che si era cominciato a vedere con la bomba di piazza Fontana, erano poi rimasti in due a mantenere la voglia di far battute, Berlusconi da una parte e il Milanese imbruttito dall’altra.
Ma mentre il Milanese imbruttito è una maschera satirica, il Cavaliere è interprete di un alleggerimento professionale del clima sociale. Tecnica che non va derisa o equivocata.
Lui ci ha costruito su le sue televisioni (cioè il suo vero partito politico, altro che Forza Italia). Ci ha costruito la sua critica di pancia alla sinistra rancorosa, addolorata e pessimista. Ci ha costruito un mezzo di identità popolare che ha permesso al suo paradigma di reinvenzione della politica (il marketing al posto dell’ideologia) di prendersi il controllo di un’abbondante mezza Italia.
Questo per dire che la leggerezza sistemica del Cavaliere – comunque sempre interpretata, giorno e notte, in privato e in pubblico – era come la ricetta segreta dell’industria di pasticceria.
Ha prodotto un’economia, un pubblico, un elettorato, dei servitori, delle vestali, una colonna sonora, una sequenza di immaginario che (lo scrive un milanista) ha modificato anche cose che andavano a un certo punto piuttosto male, derive senza più energie, ambiti commerciali senza più investimenti.
Le due borghesie milanesi rivali da tre secoli, hanno prodotto nel ‘900 onde radicalmente opposte. Basti pensare al fascismo del covo originario di piazza San Sepolcro in marcia per Roma e le brigate garibaldine, azioniste e matteottine che convergevano su piazza del Duomo per il 25 aprile.
L’idea populista, televisiva, consumista ha prodotto un’onda più lunga di quella intellettuale, accademica ed etica nello sconfinamento del terzo millennio in cui la sparizione dei partiti politici che hanno forgiato la Costituzione ha decretato uno squilibrio strutturale non solo nell’offerta di politica ma soprattutto nella domanda.
E il Cavaliere è stato per molti anni più pronto a ragionare sulla domanda rispetto a chi ragionava sempre e solo sull’offerta.
Anche qui vi è traccia del cumenda degli anni ’50 che diceva “la pubblicità è l’anima del commercio” ma anche “chiedi alla tua mamma cosa è meglio comprare”.
Tanto che Berlusconi vive nel suo immaginario privato per tutta la vita la santificazione della sua mamma non delle sue mogli.
Lo stereotipo milanese è di risolvere all’interno dei suoi paradigmi l’organizzazione del successo. Anche se il venditore nato, cioè l’immensa cultura della Fiera, arriva anche in Papuasia per piazzare il prodotto. Dunque alla fine un percorso “provinciale”. Lassa pur ch’el mund el disa…cantava Giovanni D’Anzi. Viene da fare il verso alla definizione che di lui diede Montanelli, l’arci-Italiano. Sicuro che fosse intanto l’arci-ambrosiano.
L’altra strada è quella del dubbio, della coscienza critica, del rammendo sociale, della tenace pazienza riformatrice dello Stato e delle istituzioni.
In questo Berlusconi e Craxi sono stati diversi. Ma hanno avuto in comune la percezione del pericolo e dei nemici. E per un tratto di strada, per altro breve strada in cui ciò ha messo un po’ al sicuro progetti coraggiosi, inutile sofisticare.
Sul resto però “sofisticare” è lecito, anche quando la filosofia romana (popolo allora duro e bellicoso) diceva che una volta morti lasciarli in pace è doveroso. Ma su questo la filosofia milanese ha bisogno di più velocità, rispetto alla vita eterna. E dunque anche di selettività di opinioni e credenze.
Di questa storia, insomma, vi saranno resti ed eredità. Qualcosa sarà alla base di nuovi processi vitali. Ma il carattere presentista, immanente, occasionale di una vita pur brillante, iscriverà vicende – che oggi sulle pagine dei giornali sono persino beatificate – allo schema del cosiddetto segno dei tempi.