Il Club dei Dirigenti delle Tecnologie dell’Informazione (CDTI) di Roma nasce nel novembre del 1988, in un’epoca in cui imperavano ancora i mainframe; la loro architettura molto chiara, era nelle mani di poche aziende statunitensi, il cui riferimento indiscusso era senza ombra di dubbio l’IBM. A questi moloch si affiancarono poi i minicomputer, il cui campione di riferimento era la Digital Equipment (DEC). Due architetture diverse cui, nel 1981, si aggiunse il primo PC di “Big Blue”, come veniva chiamata l’azienda di Armonk; un passaggio, quest’ultimo, che rappresentò una vera e propria rivoluzione copernicana. L’informatica usciva dalla sacralità dei cosiddetti centri di calcolo e approdava sulle scrivanie delle persone (giova però ricordare che la P101 Olivetti era nata nel 1965, ben sedici anni prima). Poi, via via, hanno fatto il loro ingresso in campo nuovi protagonisti: web, motori di ricerca, TACS, GSM, smartphone, app, social, piattaforme e-commerce e lo scenario si è trasformato radicalmente, cambiando decisamente i canoni correnti del vivere economico e sociale.
Dal 1988 sono trascorsi trentacinque anni, nel corso dei quali si sono alternate grandi speranze e cocenti delusioni. È difficile fare bilanci, né questo è il nostro intento; certo, e lo dico a posteriori, l’unico rammarico che rimane è che forse avremmo potuto interrogarci meglio su ciò che di volta in volta stava apparendo all’orizzonte. Siamo stati ingenui nel credere al famoso “don’t be evil” o all’utopia democratica della “rete”, all’open source oppure alla capacità di sovvertimento dei modelli di lavoro da parte della gig economy? Siamo stati frettolosi nel credere alle virtù taumaturgiche dello smartworking? Quello che sognavamo come un nuovo mondo ha poi mantenuto le sue promesse? Abbiamo imparato la lezione che ci arrivò dal tonfo delle “dot.com”? Come ci troviamo in un mondo dominato dallo strapotere delle big-tech? Riteniamo etiche le regole di ingaggio dei rider? È giusto che le varie piattaforme adottino la discriminazione salariale algoritmica?
Sono alcune delle numerosissime domande che un percorso non proprio lineare, in cui si è passati dall’economia industriale a quella post-industriale dei servizi, suscita a tutti i livelli. D’altronde, è naturale che i quesiti si accavallino in un mondo che knowledge e net economy, e poi, via via, le altre diverse connotazioni e declinazioni (app, crowd, google, pod, sharing, ecc.) hanno contribuito, nei fatti, a ridisegnare, facendo vorticosamente cambiare il mondo della produzione, dei servizi, della gestione e dell’amministrazione, da un lato, e del lavoro, dall’altro. Come dimenticare i tanti dibattiti fatti intorno al dilagare dei robot; intervenne lo stesso Bill Gates che, per bilanciarne gli effetti, arrivò a suggerire l’introduzione di tasse equivalenti al gettito di quelle versate dalle persone che l’automazione rimpiazzava. Che fine hanno fatto le tante tensioni sul dilagare dei “braccialetti elettronici”, che minacciavano un controllo a distanza della produttività dei dipendenti? Siamo soddisfatti di ciò che poi è accaduto? Esiste un rischio che la trasformazione digitale in corso possa essere troppo condizionata dai giganteschi protagonisti, smisuratamente grandi anche per gli Stati?
Tante domande, risposte (soddisfacenti) poche.
ArrivaChatGPT
In tutto questo tumultuoso cambiamento, a novembre 2022, lanciata da Open AI, è apparsa Chat GPT, che sembra possedere tutto quanto necessario per cambiare ancora una volta il mondo, scuotendo il mercato ICT e investendo profondamente la realtà economica, industriale e sociale. Sbalordisce la velocità con la quale, in pochissimo tempo, ha raggiunto già più di cento milioni di utenti attivi (per arrivare a questa vetta, Tik Tok ha impiegato nove mesi, Instagram trenta); scalzerà Google e il suo predominio, nato a fine anni ’90? Brin e Page, che sbaragliarono gli altri motori di ricerca (Altavista, Yahoo…, in Italia Virgilio), grazie a semplicità, potenza ed efficacia, facendone lo strumento principe nella estrazione delle informazioni dall’oceano rappresentato dal web, dovranno cedere il passo? Cambierà tutto nuovamente? C’è chi dice sì, spiegandoci che un algoritmo generativo, come viene definito, permettendoci di conversare sia tramite interrogazioni vocali e/o scritte sia attraverso la presentazione di documenti, grafici, foto, potrà consentirci di ottenere all’istante non una lista di fonti da approfondire e studiare, ma risposte, chiarimenti, riassunti, tesi, blocchi di codice informatico, canzoni e una serie non banale di altri componimenti. Ma chi ce ne certificherà la validità? Chi darà precisazioni sui criteri di raccolta delle informazioni? Con quali logiche le sintesi proposte saranno state elaborate? Che uso si farà non tanto del dato di una singola persona quanto di collettività e comunità, a vario titolo e finalità aggregate?
Ciò che è certo è che siamo davanti ad un salto di una tale portata da aprire scenari ancor più sorprendenti di quelli di venticinque anni fa. La raccolta di timori evidenziati da Massimo Gaggi1 oggettivamente ci interroga:
- «Se siete diventati dipendenti dai like è colpa mia: ho contribuito a crearli». Così, sei anni fa, l’ex vicepresidente di Facebook, Chamath Palihapitiya;
- «Se, mentre navigate in rete venite bombardati dalla pubblicità su un oggetto del quale state parlando, prendetevela con me: vorrei non aver sviluppato quelle tecniche»: confessione di un altro genio digitale, Antonio García Martínez;
- «Sono diventato ricco con Google e Facebook, ma ora vedo che questi social provocano dipendenza come alcol, nicotina ed eroina». È del 2017 anche il mea culpa di Roger Mc Namee:
- Geoffrey Hinton denuncia gli enormi rischi che si corrono sviluppando macchine in grado di ragionare e prendere decisioni in modo autonomo e, addirittura, abbandona il suo incarico scientifico in Google; D’altronde come potremmo trascurare i timori che paventa la stessa OpenAI, quando fa un lungo elenco delle occupazioni, che eufemisticamente definisce “esposte”? Un aggettivo quest’ultimo che lascia ben intuire a cosa si possa alludere; pur in assenza di stime numeriche ed economiche attendibili, non ci può sfuggire che riguarderà milioni di persone. 1 M.GAGGI, “Ho creato l’IA”, ora la temo”, su “Corriere della Sera”, 3 maggio 2023.
• Jen Easterly, importante autorità federale nel campo della cybersecurity, evidenzia l’estrema difficoltà di intercettare i molti «attori maligni» pronti a usare le enormi capacità dell’intelligenza
artificiale per diffondere immagini, video, documenti e codici informatici falsi: la verità, sempre più incerta, rischia di diventare irrilevante.
Che fare?
Come CDTI, di fronte ad un simile scenario, abbiamo pensato che fosse non solo utile, ma doveroso, aprire un canale di comunicazione con esperti di vari campi per offrire alla nostra comunità momenti di apprendimento, approfondimento e confronto. Per tutte queste ragioni abbiamo invitato persone molto competenti per chiedere loro di aiutarci a comprendere la portata di questa innovazione e a valutare quali siano, o possano essere, gli effetti a cascata che essa potrà generare a livello, prima di tutto, tecnologico, e poi, economico, legale e sociale.
Il nostro auspicio è che solo un dibattito serio possa contribuire a smontare due deteriori tendenze mediatiche già in atto; una, improntata ad un sensazionalismo gratuito che tende ad esaltare le aspettative delle persone e, l’altra, di segno opposto, impregnata di un catastrofismo apocalittico, che prospetta cinicamente solo sciagure. Consapevoli, ma tutt’altro che talebani, della non neutralità dell’innovazione, riteniamo che bisogna avere il coraggio di mettere in discussione sia l’innalzamento a livello totemico della trinità “competizione – innovazione – progresso”, sia l’assegnazione al mercato e/o alle imprese del potere sovrano di decidere il corso di eventi troppo importanti per la vita delle persone.
Concludo, facendo mia l’affermazione del prof. Bobbio: “se nella società non succede nulla, anche i diritti più elementari si perdono” , per rivendicare e reclamare la necessità di un dibattito approfondito allargato a tutte le diverse componenti della società civile (Amministrazioni, Associazioni, Imprese, Istituzioni, Media, Parlamento, Partiti, Sindacati, Università,..), che dia alle molte, tante, troppe persone rassegnatesi a subire, gli strumenti critici necessari per valutare se non sia il caso e il momento di battersi in una direzione che possa aiutare a registrare meglio la rotta.
Se è vero, come è vero che la tecnologia corre inesorabilmente, noi saremo sempre e solo costretti ad inseguire?
P.S. In aggiunta, due notazioni su altrettante questioni di un qualche rilievo:
- la prima, riguardo all’intervento del 31 marzo u.s. da parte del Garante della Privacy, in cui alcuni, accomunando l’Italia alle posizioni di Cina, Corea del Nord, Iran e Russia hanno dimenticato di evidenziare che in quei paesi si parla di restrizione della libertà, mentre da noi si parla di tutela della libertà; differenza non di poco conto; il 28 aprile le risposte sono arrivate e OpenAI è tornata disponibile, garantendo più trasparenza e più diritti a cittadini europei e non europei (o perlomeno così mi sembra di aver capito);
- la seconda, a proposito della lettera di Elon Musk e dei “mille” (esperti, ricercatori, manager e imprenditori), pubblicata dal Future of Life Institute, per domandare se sia giusto liquidarla frettolosamente, bollandola come tattica dilatoria strumentale di concorrenti, preoccupati solo di ottenere una moratoria utile per recuperare il gap accumulato rispetto a Microsoft, oppure potrebbe essere utile cogliere questa opportunità per ragionare più in profondità su ciò che sta accadendo?