Con l’intervento dell’Ingegner Pieraugusto Pozzi, Democrazia futura apre una riflessione sul tema de “Il lavoro di fronte alla grande trasformazione digitale”.
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Del lavoro che si misura coi processi di automazione, disintermediazione, delocalizzazione ed è sempre più parcellizzato, competitivo e globalizzato, anche nella sua componente professionale, molto si è scritto e detto.
Certo, la grande trasformazione digitale ha notevolissime conseguenze sul lavoro umano: la crescita costante della disintermediazione, la rarefazione dei ruoli professionali, l’incremento del lavoro intellettuale ed operativo gratuito o semi-gratuito di networkers, clienti e utenti. Che consentono il miglioramento dell’ingegneria dell’algoritmo e della robotizzazione grazie alla costante imitazione e acquisizione di conoscenze semantiche, comportamenti e modi operativi umani.
Negli ultimi anni, la pandemia e le conseguenti misure di confinamento sembrano avere velocizzato il cambiamento: persone, associazioni, imprese, Amministrazioni, istituzioni educative hanno digitalizzato operazioni, lavoro, studio, svago, consumo e relazioni per dare continuità alla loro stessa esistenza usando, in massa e intensivamente, reti e sistemi digitali per lavoro agile, didattica a distanza, relazioni commerciali ed organizzative remote, acquisti e pagamenti.
Accanto alla prima linea degli operatori della sanità, dei trasporti, della distribuzione, della filiera agro-alimentare, della produzione industriale, i confinamenti totali e parziali sono stati sussidiati dal lavoro, finalmente riconosciuto come essenziale, di tutti coloro (logistica, consegne a domicilio) che hanno continuato ad affrontare i rischi quotidiani del loro impegno.
Un lavoro essenziale che è il supporto operativo agli ordini generati e gestiti da algoritmi sulle piattaforme. In definitiva, con la pandemia, il digitale sembra avere ulteriormente separato e delocalizzato lavoro e impresa, sede individuale e luogo di produzione, mansioni lavorative e posti di lavoro.
Ora, le tensioni geopolitiche sembrano portare ad uno scenario di decoupling (disaccoppiamento) dell’economia globale di produzione, caratterizzata dalle filiere lunghe e ad una re-industrializzazione delle economie che profittavano di insediamenti produttivi lontani.
Secondo studi accademici e istituzionali (Oxford University, McKinsey, World Economic Forum, OCSE, Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT-ILO)) molti mestieri e professioni saranno messe in discussione dal digitale: una tendenza rafforzata dall’irruzione delle applicazioni di intelligenza artificiale generativa. In senso generale, le statistiche, sia a livello globale sia a livello nazionale, confermano il calo costante della componente lavoro rispetto a quella rendite-profitti sul PIL, non solo nei paesi ad alto reddito medio, ma anche in quelli di recente sviluppo.
Un elemento ancor più preoccupante se si tiene conto del fatto che la quota reddituale del lavoro è sostenuta da redditi, elevati o elevatissimi, di super-dirigenti e super-professionisti, mentre è mediamente e costantemente in calo per i redditi medio-bassi. Infine, un dato molto significativo e poco citato.
Secondo il Bureau of Labour Statistics, negli Stati Uniti, tra il 1996 e il 2014, il numero totale di ore (umane) lavorate è rimasto invariato, mentre il PIL cresceva del 40 per cento e “aumentavano” numericamente i posti di lavoro.
Lavoro povero e disuguaglianze sono l’effetto evidente e ampiamente discusso di queste dinamiche.
Per tutte queste ragioni, le analisi prospettiche sul lavoro intersecate con le dinamiche tecnologiche, aiutano a capire gli effetti della trasformazione digitale e, certamente, in Democrazia futura trovano e troveranno giustamente spazio.