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Democrazia Futura. L’avvento di Giorgia Meloni al governo d’Italia

di Celestino Spada, vice direttore della rivista Economia della Cultura |

Qualche nota a bilancio dell’ultimo trentennio, materiali, spunti e chiavi di lettura possibili di quanto ci prepara il prossimo futuro. Le riflessioni di Celestino Spada, vice direttore della rivista Economia della Cultura.

Celestino Spada

Chi l’avrebbe detto, quasi trent’anni fa, che un’esponente di un movimento estraneo all’“arco costituzionale” (che non ha scritto e approvato, a suo tempo, la Costituzione dell’Italia democratica) i cui rappresentanti in Parlamento erano stati, per decenni e fino ad allora, esclusi dai ruoli di governo della Repubblica: chi l’avrebbe detto che fra i chiamati dal monopolista della televisione privata nazionale a far massa nelle urne per “impedire la vittoria dei comunisti” e realizzare la “rivoluzione liberale” per cui era nata Forza Italia, qualcuno si sarebbe emancipato da quella condizione servente, avrebbe raccolto dal 2012 attorno a sé militanti, quadri e dirigenti di un partito nuovo e avrebbe vinto le elezioni politiche del 25 settembre 2022, leader della stessa coalizione in cui era stata ammessa per far numero?

Preso atto che è la destra a esprimere la prima donna Presidente del Consiglio della nostra storia nazionale e che è una coalizione elettorale di centrodestra ad eleggerla (con l’incognita che essa risulti tale anche nel governo del Paese, dati gli obbiettivi politici divergenti al suo interno) –  mentre anche il corrispondente da Roma dell’Economist consulta le statistiche sulla durata media dei governi italiani per farsi e dare un’idea di quanto può durare questa storia – è difficile sottrarsi alla tentazione di metter giù delle note a bilancio dell’ultimo trentennio visto questo esito: materiali, spunti e chiavi di lettura possibili di quanto ci prepara il prossimo futuro.

1. Un nuovo “partito” alla ribalta politica nazionale

Per cominciare, è singolare che alla ribalta nazionale venga oggi, vincente nelle urne, un partito politico di ispirazione ideale, se non ideologica, almeno nel suo leader, un tipo di formazione sociale e di rappresentanza politica che si diceva – anzi, si voleva – estinta nell’Italia post-moderna della “seconda repubblica”. Un déjà vu, si potrebbe dire, rispetto all’altra novità cresciuta nel paese e nelle urne nell’ultimo quindicennio, il Movimento 5 stelle, nato e vissuto come “non-partito”, che dopo il successo nelle urne del 2018, nel giro di tre anni, è riuscito a esprimere in Parlamento due maggioranze di governo con formazioni opposte (la Lega di Matteo Salvini, una volta, e il Pd e i vari gruppi della sinistra, l’altra) e a farsi parte di un’altra maggioranza ancora, a sostegno di un terzo governo. Mentre, per la prima volta dopo trent’anni, a fronte di un centro-destra ancora strutturato e coalizzato, vincente alle elezioni e in grado di assumere il governo del paese, sta un centro-sinistra, in minoranza nelle urne, nel quale, accanto a un Pd la cui consistenza come partito politico nazionale resta dubbia, sta la fragilità delle altre formazioni e la precarietà, se non la casualità, della loro coalizione già nei ruoli dell’opposizione.

2. L’assetto tripolare della rappresentanza politica nazionale e il ruolo dei media

Con il riaffacciarsi del trasformismo – puntuale con la fine dei partiti politici di massa che hanno fatto la storia dell’Italia moderna – oggi rileva il fatto che il consenso nelle urne e il radicamento territoriale del M5s (anche se non più largamente maggioritario nel Mezzogiorno, nelle Marche e in Sardegna, come nel 2018) conferma l’assetto tripolare della rappresentanza politica emerso fin dal 2013: uno stato di fatto che avrebbe potuto nel frattempo sottrarre il confronto sugli indirizzi e le scelte di governo all’universo mentale duale – “O di qua! O di là!” – che dal 1994 ha caratterizzato la nostra vita pubblica.

Nessuno, neanche negli ultimi quattro anni, ha revocato questo imperativo che ha pregiudicato la formazione e lo sviluppo di una vera opinione pubblica, maturata nella considerazione del merito delle scelte politiche proposte e nella verifica dell’azione dei governi, e nutrita dal sentimento della comune cittadinanza a solido fondamento della nostra democrazia, come ci avevano promesso a suo tempo, con la fine delle ideologie, i seppellitori della “prima repubblica”.

Bisognerà vedere se il ritorno del centro-destra al governo rilancerà in Parlamento, dentro e attorno ai media, nell’opinione e nel Paese a tutti i livelli queste logiche e le pratiche relative, sospese e comunque non in primo piano con la formazione e l’attività del governo Draghi, le cui scelte e il confronto politico su di esse sono state centrate e valutate – dai media oltreché dai vari partiti – sul merito dei problemi e non in termini di schieramento.   

Allo stato, chiuso il capitolo Mario Draghi, non è chiaro quale contributo potranno dare a questo fine proprio l’editoria e la professione giornalistica – da noi sempre, nella parte maggiore e più considerata, praticate a ridosso del personale politico (l’arm’s length degli inglesi continuiamo a sognarcelo, forse, nelle scuole di giornalismo) – visto che, a cadenza settimanale, i “borsini elettorali” aggiornati e rilanciati dai media continuano a farci presente che siamo sempre immersi nella “campagna elettorale permanente che da trent’anni caratterizza la nostra vita pubblica” (Angelo Panebianco). E anche ora, nelle prime settimane di attività del governo Meloni, non passa giorno che qualcuno non ricordi che a febbraio/marzo ci saranno le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia.

3. La novità della nascita e dell’affermazione di Fratelli d’Italia

Fratelli d’Italia – la stessa insegna del partito – lancia un ponte “di là” del dualismo amico-nemico che ha segnato la seconda repubblica. Lo fa come partito nazionale nello stesso centro-destra, distinguendosi dal partito personale di Silvio Berlusconi e dalla Lega Nord, che negli anni ha saputo offuscare il suo originario carattere divisivo dell’unità e della comunità nazionale entrando nella rete delle alleanze elettorali e delle opportunità di governo, fino a presentarsi nel 2017 in tutta Italia con le liste “Lega per Salvini Premier”. E lo fa rispetto alle formazioni raccolte nel centro-sinistra il cui “popolo” è oggettivamente interpellato come interlocutore, appunto, “fraterno”. Si tratta di una “sirena”, da diffidarne, e si deve ignorarne il richiamo, come mi pare quelle formazioni stanno facendo?

Una parte che si identifica con la bandiera nazionale – in questo caso addirittura con l’appello iniziale dell’Inno di Mameli – mette per ciò stesso gli “altri”, tanto più i loro avversari politici, nella condizione di essere contro l’unità del popolo italiano sotto l’insegna nazionale. Si voglia o no, questa retorica, nella nostra storia, ha un precedente sul versante di destra del Diciannovismo, per richiamare le riflessioni di Pietro Nenni[1] sulle origini del fascismo.

Nel libro, estremamente sorvegliato nel linguaggio, con cui l’attuale Presidente del Consiglio l’anno scorso ha voluto presentarsi al pubblico dei lettori (dieci edizioni fra maggio e giugno 2021) si indica, come elemento della sua identità insieme al nome, al sesso e alla fede,

“il senso del mio patriottismo… È il ‘Noi’ che costruisce la lealtà nazionale a fondamento della stessa democrazia. Per il pensiero conservatore, democrazia e stato di diritto sono inscindibili dalla lealtà nazionale e qualsiasi costruzione dell’Europa politica non può essere fatta prescindendo dalla nazione” [2].

Una considerazione, quest’ultima, ovvia, che non si capisce perché chiami in causa – due volte in poche righe – la “lealtà nazionale”, un’affermazione che accende un’ipoteca sul confronto delle opinioni e pregiudica qualsiasi diversità di scelte politiche in materia. Si è “sleali” verso la Nazione se non si condividono le opinioni di Giorgia Meloni circa i rapporti fra l’Italia e l’Unione Europea? E questa “slealtà” segna, se non legittima la fine della democrazia e dello stato di diritto in Italia? 

4. Un partito identitario alternativo alla politica come “posizionamento” di persone e gruppi sul mercato elettorale, nelle istituzioni e nella società civile?

Quali potrebbero essere, nella condizione attuale del nostro spirito pubblico, gli aspetti che possono costituire un appiglio, se non addirittura rendere “razionale” la scelta di un’insegna che, intesa a unire il popolo italiano attorno a un’idea e a un programma politico, è potenzialmente così escludente gli “altri” addirittura dalla comunità nazionale?

La nascita e l’affermazione elettorale di Fratelli d’Italia sono espressione e risultato della crisi delle formazioni dal 1994 egemoni nel centro-destra (vincitore, va ricordato, nelle urne del 2008 con la più grande maggioranza di voti popolari della storia della Repubblica) e, insieme, della frana del consenso davvero “di massa” che ha caratterizzato per venti anni la rappresentanza politica e il radicamento sociale e culturale di tutti i gruppi, le formazioni politiche e gli “schieramenti” della “seconda repubblica”. Una frana già evidente nei risultati elettorali del 2013, proseguita negli ultimi dieci anni con il successo elettorale del M5s nel 2018 e la girandola di alleanze di governo che ne è seguita. E confermata – la frana – anche dall’astensione dalle urne, cresciuta ancora nel 2022.

Quegli smottamenti e questi flussi elettorali non incidono, tuttavia, sul contesto nel quale viviamo. Caratteristica della “partitocrazia senza partiti”, come Mauro Calise ha chiamato questo regime politico già negli anni 1990,  è stata ed è ancora il fatto che gli elettori, nella quasi totalità, insieme alla fiducia nei loro rappresentanti variamente dislocati sull’uno o l’altro versante del maggioritario, non solo hanno condiviso l’universo mentale duale delle contese elettorali, ma hanno assunto essi stessi identità, credito e influenza nella società, nell’economia e nelle istituzioni, in termini di “appartenenza”, “vicinanza”, “contiguità”, “riferimento” agli esponenti, alle componenti e agli schieramenti politici. La figura del “notabile”, tipica dell’“Italietta liberale” prima dell’avvento dei partiti politici moderni (con il Psi, nel 1892), è tornata alla ribalta della nostra vita pubblica (e nei media) non solo nel Meridione.

A partire dall’informazione e dalla comunicazione (nella Rai come nelle radio e tv private), nelle istituzioni e organismi pubblici, nelle imprese, nelle professioni e nei mestieri, nella cultura, nella scuola, nelle università e nella sanità: la stragrande maggioranza delle persone si è definita, è stata o si è fatta accreditare in quei termini e la “lottizzazione” è diventata pensiero e logica organizzativa all’interno, e criterio di scelta e di decisione verso l’esterno, di istituzioni e organizzazioni pubbliche e private. Raramente nella loro storia unitaria, e senz’altro in quella della Repubblica, gli italiani si sono trovati a condividere così ampiamente caratteri dello spirito pubblico e prassi dominanti la stessa “società civile”, indice questo (anche questo) del ruolo che la politica ha assunto nella nostra vita quotidiana, dei singoli come delle collettività.

Di recente il rapporto “Italiani nel mondo 2022” della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana (Cei) ci ha informato che il 9,8 per cento (oltre 5,8 milioni) degli italiani risiede all’estero e che fra coloro che abbandonano l’Italia quasi il 42 per cento (più di due milioni anche molto qualificati) ha meno di 34 anni – sono cioè cresciuti nella “seconda repubblica”. C’è un nesso fra la scelta di emigrare e la cultura e le pratiche oggi dominanti nella politica e nella società italiana?

È questo il contesto in cui, a suo tempo e da allora, i dirigenti e gli elettori di Alleanza Nazionale hanno assunto piena cittadinanza nelle istituzioni della Repubblica con le loro motivazioni e i loro obbiettivi, in vista dei quali, com’è noto, non pochi quadri e intellettuali di quell’orientamento hanno cercato lumi e criteri anche in Antonio Gramsci e nelle sue riflessioni sull’egemonia e le “casematte” da conquistare fra società civile e Stato. Ed è in questo contesto che dal 2013 è stato possibile integrare nel “sistema” gli eletti e gli esponenti del Movimento5stelle, stemperando e assorbendo la valenza “eversiva” della loro genesi e ragion d’essere grillina. Una cosa prevista dagli interlocutori di Antonio Polito che, in non dimenticati reportage da alcune città della Campania, nel 2018 riferiva sul Corriere della Sera di professionisti e docenti universitari orientati a votare per quel Movimento, “avendo già dato i partiti quello che potevano dare”. 

5. La leadership di Fratelli d’Italia segnerà continuità o discontinuità nella “costituzione materiale” vigente?

Ciò che ha assicurato continuità a questa esperienza collettiva – che ha, si può dire, davvero unificato l’Italia e “fatto gli italiani” in termini di cultura e prassi condivise della politica nel suo rapporto con la società, e viceversa – sono state le ricadute dei risultati elettorali sulle istituzioni e le responsabilità di governo e degli uffici e servizi pubblici da esse organizzati o assicurati: la “costituzione materiale” vigente dei rapporti fra politica, pubbliche istituzioni e imprese pubbliche e private, vale a dire il “secondo mercato” della politica. Per il quale i risultati delle elezioni fissano – pro tempore fino al prossimo turno, e tenendo conto delle elezioni intermedie, ai vari livelli della rappresentanza – “i pesi e le misure” delle varie “ditte” (Pierluigi Bersani) nelle nomine relative a strutture e funzioni che pertengono o dipendono dalla politica.

La ricerca sociale e istituzionale ha seguito l’evoluzione in questo periodo dell’azione amministrativa e i suoi intrecci con funzioni e soggetti economici privati[3]. Senza il rischio di semplificare si può dire che gli italiani e i loro rappresentanti politici, dal 1994, si sono in questo modo messi al riparo dalle incognite e dalle incertezze dell’alternanza dei partiti al governo e che la “seconda repubblica” è stata nella sostanza un’assicurazione sulla vita e sugli interessi costituiti, anche già nella “prima”, su entrambi i versanti del maggioritario. (L’esigenza di Umberto Bossi, resa pubblica il 3 dicembre 2022, di rivendicare e rilanciare l’“identità” della Lega – che è stata “Lombarda”, poi “Nord” e ora “con Salvini Premier” – mentre evidenzia una frattura primaria nella coalizione che sostiene il governo presieduto da Giorgia Meloni, riproponendo il tema della sua durata, viene a confermare che quelli della “seconda repubblica” sono stati, almeno nel caso della coalizione di centro-destra, tre decenni di accomodamento tattico, di opportunità colte, in cui hanno avuto un ruolo anche i “ricatti” di cui il presidente incaricato Giorgia Meloni ha parlato nella fase di formazione del governo.)

Nella sostanza, dai primi anni Novanta- e nonostante l’esito del referendum del 1991 sulla preferenza unica, che sembrò rivoluzionario – dominante è stata un’attitudine conservatrice, timorosa delle incognite dei cambiamenti incombenti, dedita allo sfruttamento delle rendite di posizione già acquisite o nuove sul mercato politico – il “posizionamento” (nomina sunt…) essendo divenuto ragione e criterio di identità politica. Un’attitudine che deve avere avuto la sua parte nel fatto, così sintetizzato da Federico Fubini, che “un’economia in regime di stagnazione o di decrescita si instaura fra la metà degli anni 1990 e la lunga crisi iniziata nel 2008, al cui termine (2018) l’Italia è l’unico paese europeo a crescita zero”, mentre “dal 2000 un anno di lavoro di una persona produce meno valore rispetto a tutti gli altri concorrenti”[4].

Ma non si tratta soltanto di statistiche. Il fatto che la Relazione annuale sulla ricerca e l’innovazione in Italia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) sui caratteri, i risultati e le prospettive della ricerca e dell’innovazione tecnologica italiana, nel contesto scientifico e produttivo dell’Europa e del mondo, non sia stata prodotta e messa a disposizione del Parlamento dal 1992 al 2018[5], si colloca esattamente nel contesto rappresentato da quei dati. Il fatto, cioè, che in tutto quel periodo nessun ministro competente e nessun Presidente del Consiglio ha promosso e fatto curare quella redazione, e nessun Presidente di Camera e Senato delle varie maggioranze parlamentari ha rivendicato al Parlamento il diritto di ricevere ogni anno dal CNR un documento con informazioni e dati indispensabili per conoscere e deliberare circa gli indirizzi e gli investimenti necessari all’innovazione e allo sviluppo del paese. Nel silenzio di Confindustria, sindacati, “mondo della cooperazione”, editoria giornalistica, ecc. – per dire solo dei maggiori protagonisti, sul versante sociale, produttivo e della comunicazione, del “noi e loro” del centro-destra e del centro-sinistra – che di quei dati e informazioni, evidentemente, per vivere e progettare il loro futuro (e quello dell’Italia), per ventisette anni, non hanno avuto bisogno.

6. L’annuncio di una politica di governo mirata alla crescita dell’economia e della società anche grazie a un nuovo ruolo delle imprese pubbliche

Nel libro di Giorgia Meloni c’è il presente e c’è il futuro: c’è il declino demografico dell’Italia e la  necessità di affrontare finalmente questa emergenza nazionale, ci sono (anche perché da lei sperimentate) le condizioni di vita e dei servizi a disposizione delle famiglie che rendono difficile la scelta della genitorialità, soprattutto per le donne che lavorano; e c’è il richiamo del tasso di occupazione in Italia, il più basso in Europa a parte la Grecia, cui la scarsa occupazione femminile contribuisce. Ricorrono, insistenti, la parola “crescita” e l’imperativo “modernizzare l’Italia”. Anche nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio circa le scelte maggiori del Bilancio dello Stato per il 2023 in primo piano c’è la “crescita”, mentre nell’indicazione del rilancio dello sviluppo quale obiettivo primario dell’azione di governo, c’è un impegno di continuità con quanto fatto per un anno e mezzo da Mario Draghi. Nuova – forse inaudita da decenni – è stata l’evocazione del ruolo delle imprese pubbliche a questo fine e della particolare responsabilità dell’indirizzo di governo che ne consegue.

Ci si è chiesto in questi decenni dove fossero finiti i quadri e i dirigenti delle imprese pubbliche che negli anni 1980-1990, nel loro lavoro, avevano maturato l’esigenza e individuato la possibilità di gestioni delle risorse finanziarie del Paese meglio mirate allo sviluppo di produzioni e di infrastrutture di rilievo strategico (anche sull’esempio, e in competizione con gli altri grandi paesi europei), mentre la lottizzazione partitica dei ruoli dirigenti – tipo Rai, per intendersi – stringeva la presa su di esse e prima che dismissioni e dispersioni venissero a vanificare i mezzi e a togliere dall’agenda politica i fini di pubblica utilità della presenza dello Stato nell’economia.

Oggi la lettura del libro di Giorgia Meloni e le dichiarazioni e i documenti prodotti dal gruppo dirigente raccolto attorno a lei, ora al governo del Paese, sembrano dare una risposta a queste domande. In particolare, quando la premier, in chiusura della sua presentazione alle Camere, ha proposto un “Piano Mattei per l’Africa” – l’impegno del governo a dispiegare un’iniziativa strategica non improvvisata del nostro paese nel Mediterraneo e oltre, all’insegna del grande imprenditore assassinato nell’autunno di sessanta anni fa. Un fatto non ricordato spesso dai nostri governanti, tanto meno in sede di prima investitura parlamentare, ed evidentemente presente, come simbolo di strategia imprenditoriale e politica, a chi ha contribuito a scrivere quel discorso.

Il dato, messo in evidenza da giornali e televisioni, dell’età media dei componenti il governo Meloni – 65 anni – potrebbe confermare questo ritorno sulla scena pubblica e in ruoli di governo di competenze e sensibilità assenti da decenni[6]. (Con le incognite, va aggiunto, conseguenti al fatto che già le prime scelte di bilancio del governo Meloni vanno a indebolire proprio le strutture portanti di questa possibile strategia – le imprese industriali pubbliche – come ha fatto notare il 2 dicembre scorso il presidente della Confindustria Aldo Bonomi, audito dalle Commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato. Il trattamento fiscale delle partite Iva con redditi medio-alti e i pre-pensionamenti introdotti dal Bilancio 2023 – egli ha detto – creano una “sperequazione” a vantaggio dei lavoratori autonomi (le “partite Iva”) rispetto agli specializzati e ai più qualificati lavoratori assunti dalle imprese industriali, di fatto incentivati – evidentemente i migliori – a uscirne, siano esse medie o grandi, private o pubbliche).

7. Il centenario della fondazione del CNR: dalle ‘periferie’ la spinta alla crescita della società e della nazione italiana?

Tra i fatti evocati nella stesura di queste note, pochi rendono evidenti la cultura politico-istituzionale e la consapevolezza degli interessi del Paese condivise dai partiti e dagli schieramenti che si sono alternati al governo nella “seconda repubblica”, come la mancata presentazione al Parlamento della Relazione annuale sulla ricerca e l’innovazione in Italia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) per ventisette anni, dal 1992 al 2018. Sono stati decenni di declino per il Paese e sono, il caso vuole, esattamente gli anni dell’apprendistato e della formazione politico-culturale dell’attuale Presidente del Consiglio. Non si può escludere che la mancata informazione da parte dei media di un evento che non si è prodotto – per il ruolo che i media hanno nella vita quotidiana dei nostri politici di professione – abbia fatto sì che questo aspetto della vicenda della Nazione italiana sia rimasto fuori del suo orizzonte mentale.

Nella sua autobiografia Giorgia Meloni non ne parla, cosa che rende questa ipotesi molto probabile. Né siamo in grado oggi – per la laboriosità e i tempi necessari a una ricerca accurata negli archivi del Parlamento – di documentarci circa gli eventuali interventi suoi o del suo partito su questi temi nella discussione sul Bilancio 2020 (esattamente tre anni fa) quando, pochi giorni dopo la presentazione di quella Relazione nella sede del CNR, fu respinta dal Governo Conte 2 e dalla sua maggioranza (cosiddetta giallo/rossa) la proposta di Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca dal 5 settembre 2019, di portare i fondi pubblici ad esse destinati a livelli confrontabili con quelli degli altri grandi paesi europei (24 miliardi sarebbero stati necessari) o, almeno, di aumentarli di tre miliardi di euro. Rifiuto, prendendo atto del quale. il ministro si dimise il 25 dicembre 2019.

Va detto che questa vicenda, stavolta, non si produsse nel silenzio dei media. Giornali e televisioni se ne occuparono, fu dato ampio spazio alle dichiarazioni di deputati del partito nelle cui liste Fioramonti era stato eletto, il M5s, e alle veline dell’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio con titoli e sottotitoli fin dalla prima pagina di critiche, se non insulti, e anche con schede redazionali sulle “Restituzioni”: “Fioramonti non ha restituito 70 mila euro nelle casse del partito come promesso: il suo addio ha il sapore della fuga”[7]. In quel clamore fu invitato, il ministro, in qualcuno dei più accreditati talk show politici della nostra televisione dove avrebbe voluto, disse, “avviare un dibattito mediatico serio” sull’argomento. Aspettativa (sua e degli spettatori) delusa, prontamente rimbeccato com’egli fu da chi gli rinfacciava la sua parte di responsabilità (come politico) per il canaio, un tempo “teatrino della politica”, messo in scena ogni giorno dai media: “Siete voi i protagonisti di un dibattito mediatico poco serio!”[8].

Non risulta (o, almeno, chi scrive non ha potuto verificarlo) che in quelle settimane in Parlamento su questo punto, in sede di discussione e votazione del Bilancio dello Stato 2020, il centro-destra, o anche solo la destra, abbia colto questa faglia nella maggioranza al governo e perfino nel governo “avversario” su un tema come questo.

Oggi siamo nella condizione che se mai si volesse, tre anni dopo (ma, per i simboli, non è mai troppo tardi), rimediare a tanta distrazione nella “lotta politica” ci sarebbe il modo. Ricorre nel 2023 il centenario della fondazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Le celebrazioni sono già state avviate in quella sede dalla sua presidente, Maria Chiara Carrozza, dureranno tutto l’anno e una celebrazione come si deve, adeguata a un’istituzione ed a funzioni così centrali per il governo del Paese, è in programma.

Non c’è nessun dubbio che l’attuale Presidente del Consiglio interverrà nella cerimonia più solenne. Naturalmente non si perderà l’occasione di ricordare, come meritano, il primo Presidente del CNR, il matematico e biologo Vito Volterra, e Guglielmo Marconi, che gli succedette nel 1926 ed ebbe il ruolo che sappiamo nel culto anche popolare dell’innovazione tecnico-scientifica e nel nostro contributo allo sviluppo del “moderno” che caratterizzò il Regime fascista.

Sarà celebrata la Nazione italiana.

Una modesta proposta

Non sarebbe male (è un’idea) che in questo contesto, nell’occasione più solenne, nell’Aula Convegni del CNR in cui, in queste circostanze, i ricercatori e i collaboratori dei vari settori e sedi in Italia e all’estero si ritrovano sereni e solidali, riconoscendosi, e magari celebrando se stessi nel loro apporto al lavoro e all’impresa comune – non sarebbe male se quel giorno, sul palco alla presidenza, insieme alle massime autorità della Repubblica di questa XIX Legislatura ci fosse l’ex-deputato del M5s e già Ministro competente Lorenzo Fioramonti, invitato e presente. Sarebbe, in qualche modo, un ringraziamento, ma anche (i casi della vita) l’occasione per portare alla ribalta accanto a Giorgia Meloni, un altro protagonista della vita nazionale venuto dalla periferia – fra Torre Gaia e Tor Bella Monaca a Roma-Est, sulla Casilina, via Pretoria, Sudafrica, dov’era emigrato – a giurare nelle mani del Presidente della Repubblica, al Quirinale. Sarebbe bello vedere a quel tavolo, su quella ribalta anche mediatica, riunita simbolicamente in questa circostanza, la nostra Nazione: l’una accanto all’altro, un underdog e un outsider della politica italiana dai destini così diversi.

Nota bibliografica

Fabrizio Di Mascio, Partiti e Stato in Italia. Le nomine pubbliche tra clientelismo e spoils system, Bologna, Il Mulino, 2012, 271 p.

Loreto Di Nucci, La democrazia distributiva. Saggio sul sistema politico dell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2016, 225 p. .

Maria Rosaria Ferrarese, Poteri nuovi. Privati, penetranti, opachi, Bologna, Il Mulino, 2022, 171 p.

Giorgia Meloni, Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee, 10^ ed., Milano, Rizzoli, 2021, {p. 206}, 327 p.

Pietro Nenni, Il Diciannovismo. Come l’Italia divenne fascista, Roma, Harpo, 2020, 254 p.

Analisi e considerazioni sugli argomenti qui richiamati sono state proposte dall’autore nel saggio “Politica (partiti) e comunicazione in Italia. Un approccio analitico”, ComPol n. 2/2012, p. 229-247 e in articoli pubblicati negli ultimi dieci anni sulla rivista Mondoperaio diretta da Luigi Covatta. Fra questi:

“Gli arcobaleni di Pisapia”, n. 2 febbraio 2012, pp. 87-90; “Fenomenologia di Mario Monti”, n. 10, ottobre 2012, pp. 20-25; “Il ritorno della politica”, n. 2, febbraio 2013, pp. 81-88; “Elezioni. La disfatta dei media”, n. 4, aprile 2013, pp. 14-17; “Il dire e il fare. Partiti, media, mercato”, nn. 7-8 luglio-agosto 2014, pp. 43-58; “Informazione. Se il giornalista è embedded”, n. 1, gennaio 2016, pp. 29-34; “Media. Non solo web”, n. 9, settembre 2018, pp. 15-20; “Le dimissioni di Fioravanti. Un dramma nel teatrino dei media”, n. 2, febbraio 2020, pp. 9-12.

La bibliografia esposta nel saggio e negli articoli è stata tenuta presente per queste note.


[1] Pietro Nenni, Il Diciannovismo. Come l’Italia divenne fascista, Roma, Harpo, 2020, 254 p.

[2] Giorgia Meloni, Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee, 10^ ed., Milano, Rizzoli, 2021, 206 p. 

[3] Cf. Fabrizio Di Mascio, Partiti e Stato in Italia. Le nomine pubbliche tra clientelismo e spoils system, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 271. Si veda anche Maria Rosaria Ferrarese, Poteri nuovi. Privati, penetranti, opachi, Bologna, Il Mulino, 2022, 171 p.

[4] Federico Fubini, Corriere della sera, 24 giugno 2019. Non era un parere isolato quello di Fubini. Quel giorno, sullo stesso giornale, Franco Arminio evocava la constatata “bancarotta antropologica di un Paese in declino strutturale da un paio di decenni”.

[5] Nel 1991 ministro dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica era Antonio Ruberti e presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti. Nel 2019, quando questa consuetudine è stata ripresa, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca era Lorenzo Fioramonti e presidente del Consiglio Giuseppe Conte (il governo Conte 2).

[6] Sui media – da parte di giornalisti come Italo Bocchino, da qualche tempo invitato più spesso nel talk show televisivi – questa rinnovata attenzione, non frequente nella professione, alle imprese pubbliche italiane ha consentito a chi scrive di apprendere che alcune di esse, non delle minori, hanno trasferito la loro sede legale in altri paesi dell’Unione Europea e in vario modo hanno scelto di essere regolate da legislazioni estere. Una cosa che non ha suscitato finora particolari reazioni nel mondo politico e giornalistico, almeno da parte dei presenti quella sera a “Otto e mezzo” (21 novembre 2022, La7).     

[7] Per tutti v. Corriere della Sera, 27 dicembre 2019.

[8] Si vedano su V. La7 le puntate di “Piazza pulita”, del 26 settembre e sul 24 ottobre 2019 e quella di “Otto e mezzo” del 20 novembre 2019. In particolare, il programma del 24 ottobre2019.

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