Questa volta ad Apple non è andata bene. Come i lettori di questa rubrica ricorderanno, la scorsa settimana avevo segnalato il positivo esito del ricorso spiegato da Apple avverso il provvedimento dell’AGCM con cui l’azienda di Cupertino era stata sanzionata per due pratiche commerciali scorrette legate all’uso dei dati personali dei suoi utenti.
I giudici amministrativi avevano annullato la sanzione, ritenendo perfettamente lecita e trasparente la modalità di gestione del rapporto di consumo da parte di Apple.
Non è andata così, invece, per un altro provvedimento, parimenti impugnato, con cui l’Autorità aveva ritenuto vessatorie alcune delle clausole contenute nel contratto relativo al servizio iCloud.
La prima delle clausole contestate riguardava le modifiche apportabili al servizio: per gli utenti che fruivano del servizio base, gratuito, Apple si riservava di modificare il contratto con un preavviso di trenta giorni, a meno che non ricorressero specifiche ragioni indicate dalla clausola; per gli utenti che fruivano di uno spazio ulteriore rispetto a quello base, pagando un canone di abbonamento mensile, Apple si impegnava a rendere efficaci le modifiche unilaterali solo al termine del periodo pagato, a meno che le modifiche fossero necessarie per le specifiche ragioni già richiamate. Nel caso di modifiche “sfavorevoli” per gli utenti, questi ultimi avevano diritto a recedere dal contratto e non utilizzare più, quindi, iCloud.
Le altre due clausole censurate dall’Autorità concernevano, invece, l’esclusione di responsabilità in capo ad Apple per la perdita di dati connessa con il servizio di backup e le limitazioni ed esclusioni della garanzia.
Le condizioni del contratto
In particolare, nelle condizioni di contratto si stabiliva che “Apple farà uso delle proprie ragionevoli capacità e della dovuta attenzione nel fornire il Servizio, ma, nella misura massima consentita dalla legge applicabile, Apple non garantisce che i contenuti che potete memorizzare o a cui potete accedere attraverso il servizio non saranno soggetti a danno involontario, alterazione, perdita o rimozione in conformità con i termini del presente contratto, e Apple non sarà responsabile qualora tale danno, alterazione, perdita o rimozione dovesse verificarsi. È Vostra responsabilità conservare opportuni backup alternativi delle Vostre informazioni e dei Vostri dati”. Inoltre, veniva precisato che “Se un dispositivo non ha fatto il backup su iCloud per un periodo di centottanta (180) giorni, Apple si riserva il diritto di cancellare i backup associati a quel dispositivo”.
Rischio perdita dati in capo al consumatore
In tal modo Apple escludeva qualsiasi responsabilità per il cattivo o mancato funzionamento del servizio, nonché per i danni causati al dispositivo e ai dati caricati, ponendo a carico del consumatore il rischio della dispersione e del danneggiamento dei dati.
La clausola consentiva, altresì, che venissero cancellati i dati dell’utente, anche a fronte della mera inerzia per il breve periodo di centottanta giorni, limitando così una delle funzionalità principali dei servizi cloud, ovvero la conservazione dei dati dei dispositivi inutilizzati.
Disposizioni contrattuali in contrasto con il Codice del consumo
Come sopra accennato, il Tar Lazio ha ritenuto tali disposizioni contrattuali in contrasto con il Codice del consumo: vediamo perché.
Giova premettere che la disciplina posta dal Codice in materia di clausole vessatorie è volta a garantire e tutelare il consumatore dalla unilaterale predisposizione e sostanziale imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, quale possibile fonte di abuso, sostanziantesi nella preclusione per il consumatore della possibilità di esplicare la propria autonomia contrattuale, nella fondamentale espressione rappresentata dalla libertà di determinazione del contenuto del contratto (cfr. Cass. Civ., sez. III, 20 marzo 2010, n. 6802).
A ciò, infatti, conseguirebbe l’alterazione, su un piano non già solamente economico, della posizione paritaria delle parti contrattuali idonea a ridondare, mediante l’imposizione del regolamento negoziale unilateralmente predisposto, sul piano dell’abusivo assoggettamento di una di esse (l’aderente) al potere (anche solo di mero fatto) dell’altra (il predisponente).
È in tale ottica, dunque, che va interpretata la disposizione di cui all’articolo 33, comma 1, codice del consumo in forza della quale “nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”.
Clausola vessatoria
La vessatorietà della clausola non riguarda l’eventuale sproporzione economica delle prestazioni, ma lo squilibrio giuridico delle posizioni contrattuali contrapposte.
Venendo ora alla vicenda di cui ci si occupa, un primo spunto di interesse offerto dalla sentenza attiene la circostanza che, per la versione base di iCloud, la mera gratuità del servizio offerto non implica l’esclusione dell’applicazione della disciplina delle clausole vessatorie.
Come chiarito dai giudici amministrativi, “la disciplina consumeristica, nell’individuare le varie tipologie di clausole vessatorie e il loro differente regime, non opera alcuna deroga o distinzione in relazione all’onerosità o meno del contratto”. Non solo, ma “la gratuità del contratto non esclude che alla base dello stesso vi sia un interesse patrimoniale od economico, sicché anche a fronte di una prestazione gratuita risulta necessario assicurare che non sussistano, nell’assetto di interessi alla base del contratto, rilevanti squilibri tra la posizione del professionista e quella del consumatore che si affida al servizio, seppure gratuito, quale è, per esempio, l’acquirente del device Apple mediante il quale poi si accederà al servizio iCloud. In tale ipotesi, infatti, emerge l’interesse economico del produttore a rendere più appetibili, mediante l’offerta del servizio di conservazione dei dati su iCloud, i dispositivi Apple rispetto a quelli dei concorrenti, aumentando così le vendite”.
Ne consegue, secondo il TAR, che la gratuità del servizio non consente di escludere il contratto dall’applicazione dell’art. 33 del Codice del consumo.
Ciò detto, ad avviso del Tribunale, la vessatorietà sarebbe ravvisabile, per il servizio gratuito, nella totale omissione dei motivi che consentirebbero ad Apple l’esercizio dello ius variandi, e, per il servizio a pagamento, per analoga omissione concernente le eventuali modifiche inserite dopo il termine del periodo pagato, il tutto in contrasto con quanto previsto dall’art. 33, comma 2, lett. m) del Codice del consumo.
Vessatorie anche altre due clausole
Parimenti vessatorie vanno considerare le altre due clausole in tema di esenzione di responsabilità, considerando che la loro formulazione le fa ricadere pienamente nell’ambito di applicazione dell’articolo 33, commi 1 e 2, lett. b), del Codice del consumo, secondo cui si presumono vessatorie, fino a prova contraria, le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di “escludere o limitare le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista”.
Né a diversa conclusione potrebbe giungersi per la presenza di una formula di salvaguardia secondo la quale “alcune giurisdizioni non ammettono l’esclusione o la limitazione della responsabilità dei fornitori di servizi. Nella misura in cui dette esclusioni o limitazioni sono specificatamente vietate dalla legge applicabile, alcune di quelle stabilite di seguito potrebbero non riguardare l’utente”.
Come, infatti, sottolineato dai giudici amministrativi, questo non consente di individuare chiaramente la legge applicabile e i paesi nei quali la limitazione di responsabilità non avrebbe effetto, rendendo quasi impossibile per il consumatore comprendere agevolmente l’esperibilità o meno delle azioni contro l’inadempimento del professionista. A ciò aggiungasi che “facendo riferimento alla disciplina delle limitazioni convenzionali di responsabilità dell’ordinamento italiano, la nullità colpisce, ai sensi dell’art. 1229 c.c., l’esclusione o limitazione della responsabilità per dolo o colpa grave, mentre l’eventuale responsabilità per colpa lieve non ricade nel divieto posto dalla norma, ben potendo, così, rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 33 del Codice del consumo e nella correlativa qualificazione di vessatorietà”.
Si spera a questo punto che Apple, come fatto in via preventiva da Google in analoga vicenda riguardante il suo servizio di Cloud, voglia procedere alla modifica della condizioni generali di contratto per renderle conformi al nostro Codice del consumo, senza avventurarsi in un ulteriore grado di giudizio, lasciando i consumatori italiani privi di quelle tutele che la nostra legislazione accorda loro.