Cina
La Cina vuole inasprire ulteriormente il livello di controllo sulla rete e, secondo quanto riferito dal Wall Street Journal, vorrebbe imporre ai produttori l’obbligo di integrare nei computer un software in grado di bloccare l’accesso a determinati siti.
Obiettivo del piano sarebbe quello di proteggere i cittadini cinesi dai contenuti pornografici, ma è cosa nota che il vero target del governo è quello di soffocare il dissenso, con le buone o con le cattive.
Il software, che potrà essere preinstallato o fornito su CD, si chiama ‘Green Dam-Youth Escort‘ e collega il Pc con una ‘lista nera’ di siti costantemente aggiornata. Il suo scopo dovrebbe essere quello di creare un ambiente internet “sano ed armonioso”, oltre che di evitare che le menti dei giovani vengano “influenzate e avvelenate” da contenuti inappropriati.
Progettato per lavorare sui sistemi operativi Windows esso provocherebbe però, secondo i tecnici che l’hanno testato per conto del Governo, anche diversi malfunzionamenti e renderebbe il Pc più vulnerabile ad attacchi hacker.
Va inoltre ricordato che la portata di ciò che il governo ritiene inappropriato per i suoi cittadini, va ben al di là della pornografia: i motori di ricerca negano infatti l’accesso a tutto ciò che riguarda la sfera della democrazia, dei diritti umani, della religione. Tutto ciò che potrebbe dare vita a un dibattito aperto sulle politiche del Paese in merito a questi temi è dunque inviso al governo, che nei giorni scorsi – in occasione del 20° anniversario dei fatti di Piazza Tienanmen – ha oscurato i siti internet più popolari, tra cui il social network Twitter, la posta di Hotmail, il nuovo motore di ricerca Microsoft Bing e il server fotografico Flickr.
Restrizioni che vanno aggiunte a quelle cui già sono soggetti siti utilizzati ogni giorno da milioni di cittadini cinesi, quali Youtube, Blogspot, Skype, WordPress e le versioni in lingua cinese di vari network internazionali come la CNN e la BBC.
La censura si inasprisce, in particolare, in occasione di eventi che vedono la Cina al centro dei riflettori mondiali: per le Olimpiadi dello scorso anno a Pechino, gli oltre 5 mila giornalisti che lavoravano dal centro stampa allestito per l’occasione, non hanno avuto libero accesso a internet, constatando l’impossibilità di visitare siti ‘dissidenti’, come quelli a favore del Tibet o delle organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo, come Amnesty International o Reporters sans frontières.
Il sistema di controllo messo in piedi dalla Cina – conosciuto come ‘The Great Firewall” – è considerato tra i più sofisticati al mondo e si basa su un sistema di ‘ispezione’ del traffico http volto a determinare la presenza di determinate parole o espressioni invise al governo.
La lista delle parole sgradite comprende oltre 250 termini, dei quali soltanto 18 riguardanola pornografia. Gli altri sono legati alla politica e a svariati altri argomenti. Oltre a nomi di personalità malviste dalle autorità (da Bao Tong a Hu Xingdou) anche espressioni come ‘China liberal’, ‘dipartimento della propaganda’, ‘Patriots Alliance’, ‘banlieu francesi’, ‘Falun Gong’, ‘indipendenza del Tibet’, ‘questioni ambientali’.
Quando il sistema intercetta una parola chiave, reagisce inviando pacchetti ‘resettatori’ ai punti finali della connessione, la quale quindi dovrebbe essere interrotta.
Le società occidentali, già molte volte finite nel mirino per il loro appoggio alle politiche censorie del governo cinese, dovranno ora sceglier se rifiutare questo nuovo ordine – e perdere il diritto a lavorare in un mercato estremamente importante per il loro business – oppure accettare e attirarsi nuove accuse di sostegno alla censura.
Società come Skype, Google, Yahoo! e Microsoft, che hanno accettato di sottostare ai dettami della Cina in fatto di censura, hanno espresso la convinzione che la sola industria non può influenzare le politiche di un governo straniero su argomenti quali il libero scambio di idee, l’accesso alle informazioni e il rispetto dei diritti umani, nodi per i quali occorre piuttosto rafforzare il dialogo tra governi.
Per gli utenti, hanno sottolineato più volte, è meglio rendere i servizi più accessibili anche se non al 100%, perché alla fine essi avranno più informazione, anche se non proprio tutta.
Queste società, lo scorso anno, hanno deciso di dotarsi di alcune linee-guida per limitare il numero di dati da condividere con le autorità e stabilire i confini dell’ingerenza governativa, così da proteggere le informazioni personali dei loro utenti in qualunque Paese si trovino a operare, e a interpretare e implementare in modo restrittivo le richieste dei Governi che mettono a rischio la privacy.
Alla redazione del documento hanno partecipato anche associazioni per i diritti umani come Human Rights First e il Committee to Protect Journalists, ma anche investitori e accademici.
Tuttavia, Human Rights Usa ha criticato il fatto che le linee-guida offrano un’interpretazione aperta dei punti chiave e non prevedano punizioni per non le rispetti.
Il governo cinese, certo, non è solo nei suoi sforzi per sorvegliare il web.
Nel 2005 il New York Times rivelo che anche quello statunitense non era da meno: