Abbiamo passato anni ad alzare gli occhi al cielo all’ennesimo break (a volume più alto) con i cereali del mattino o l’anticalcare per la lavatrice a interrompere un inseguimento, un colpo di scena, la soluzione dell’enigma. “Non si interrompe un’emozione”, diceva una vecchia campagna contro la pubblicità durante i film, e la tv streaming era riuscita a realizzare questo sogno: ore e ore di visione senza interruzioni, così come il regista l’aveva pensata. Poi è arrivata la recessione, è arrivata la concorrenza (un’occhiata al comparatore di SOSTariffe.it basterà per capire quanto sia affollato oggi il mercato dello streaming) e, usciti dalla porta, gli intervalli pubblicitari sono rientrati dalla finestra. È successo con Netflix, che da mesi parla di una nuova opzione di abbonamento a basso costo ma con la pubblicità, proprio come sulla Rai o Mediaset.
Ora gli annunci hanno finalmente avuto un seguito, e delle 17 del 3 novembre è partito l’abbonamento “Basic with Ads“: 5 euro e 49 per accedere alla maggioranza dei contenuti (al momento del lancio non tutti, a causa di problemi con le licenze che dovrebbero essere risolti in un tempo ragionevole) del piano base di Netflix (che invece costa 7,99 euro al mese). Insomma, 2,50 euro al mese in meno in cambio di circa 4-5 minuti di interruzioni pubblicitarie ogni ora. E non manca chi, rimasto ancorato ai modelli della televisione in chiaro, dichiara di preferire il modello con la pubblicità a prescindere dal costo, in modo da evitare lo stordimento causato dal binge-watching– in cui sì, può essere lo stesso utente a premere il pulsante della pausa, ma chi è in grado se il programma che sta guardando è particolarmente avvincente?
Netflix: la pubblicità ora è dominata dall’algoritmo
Un particolare interessante del ritorno della pubblicità in televisione è quello che segnala come l’anno sia il 2022, non il 1992: niente pensionati costretti a sorbirsi spot sui videogiochi e niente teenager che apprendono le spiacevoli verità sui denti dei nonni, per capirci. Il sogno di ogni inserzionista, già (più o meno) realizzato su Internet, si prepara ad avverarsi anche nella tv streaming grazie a una profilazione che tiene conto dei gusti di chi è davanti al televisore, al tablet, allo smartphone, in base ai programmi che ha visto in passato. L’algoritmo, come sappiamo, serve a Netflix per proporci prodotti audiovisivi in grado di suscitare il nostro interesse, e ora permetterà anche alla pubblicità di essere su misura, oltre che adattata al tipo di programma. Grazie alla partnership che Netflix ha stretto con DoubleVerify e Integral Ad Science, il traffico pubblicitario verrà calibrato con cura, in modo che le proposte d’acquisto arrivino a un target più ricettivo.
A questo punto, la grande domanda: questo sistema attecchirà? 2,50 euro in un mese, meno di dieci centesimi al giorno, possono sembrare pochi, ma c’è una recessione in corso e soprattutto siamo diventati così schiavi degli abbonamenti – del resto l’unico modello possibile per accedere a una miriade di servizi che una volta contemplavano anche l’abbonamento una tantum – che, se sommiamo le manciate di euro per ogni singolo abbonamento, rischiamo di avere sorprese molto brutte riguardo all’impatto sul nostro bilancio familiare. Una ricerca condotta da Sensemakers ha mostrato che ben due utenti su tre accetterebbero volentieri questo tipo di abbonamento: per la precisione, il 29% preferirebbe una piattaforma interamente gratuita con più pubblicità, il 39% una via di mezzo con un canone più basso e una quantità moderata di spot. Solo il 15% degli intervistati, infine, dichiara che disdirebbe l’abbonamento se la pubblicità diventasse obbligatoria per tutti i tier disponibili.
Quando Stranger Things non basta più
L’inserimento dell’abbonamento con pubblicità fa parte di una serie di iniziative e di risultati economici che hanno spinto molti analisti a parlare del “ritorno di Netflix”, dopo un anno di continue difficoltà dovute alla recessione economica e a una proposta sempre più ampia e vasta sul mercato. Uno dei casi più spinosi è quello di Amazon Prime: vista la comodità del marketplace più famoso del mondo, molti utenti abituali si abbonano a Prime per non pagare più le spese di spedizione, e nel pacchetto hanno anche l’accesso a Prime Video, sempre più interessante in quanto a esclusive (il caso più evidente è quello di Rings of Power, la serie più costosa di sempre).
Ultimamente, però, le cose vanno meglio, almeno a giudicare dai 2,42 milioni di nuovi abbonamenti annunciati durante le comunicazioni per il terzo trimestre. Non una grande crescita rispetto all’anno scorso (+2,6%) ma, comunque, una crescita, il che non è poco considerando il milione di abbonati persi nei primi due trimestri. Il merito se lo sono presi in gran parte le produzioni originali: la quarta stagione di Stranger Things ha avuto un successo superiore anche alle precedenti, con un totale di 1,35 miliardi di ore complessive di visione, e anche in Italia si è da poco placata la mania di Dahmer, la serie (piuttosto “estrema”) sul mostro di Milwaukee creata da Ryan Murphy, ormai lo showrunner più pagato del mondo e punta di diamante dell’offerta Netflix dopo un inizio un po’ altalenante. Netflix ha anche pubblicizzato molto i successi dei suoi film originali, come The Gray Man.
Ma, come hanno mostrato alcuni recenti dati di Parrot Analytics, non tutto è come sembra: a dominare il mercato delle produzioni originali negli USA è infatti il colosso dello streaming, con una quota del 40,9%, molto superiore ai concorrenti, ma anche inferiore di ben cinque punti percentuali rispetto all’anno scorso, quando era il 45,8%. Insomma, i competitor – in prima fila HBO Max, Apple Tv Plus, Prime Video, ma anche Paramount Plus e Hulu – stanno continuando a rosicchiare terreno: Rings of Power, House of the Dragon, le varie serie del franchise di Star Wars hanno fatto sì che anche i successi di Netflix fossero in qualche modo oscurati da un’offerta sempre più di livello. A differenza di qualche anno fa, non c’è piattaforma che non abbia oggi un prodotto originale di punta: e se queste sono cattive notizie per l’ex monopolista, non possono che essere buone per gli spettatori, con pubblicità o meno.