Italia
Ogni tot anni l’hardware mediatico fa un balzo evolutivo, e tutti ci adeguiamo, a prescindere su quale lato ci troviamo rispetto alla telecamera. Ci adeguiamo perché l’esperienza di fruizione migliora in maniera autoevidente. Seppure vaghi – ero bambino – ho ancora ricordi di quando d’un tratto ogni televisore in b&n venne spostato prima in cucina e poi quietamente nella spazzatura, lasciando spazio ai TV Color (e all’epoca il 22 pollici nel salotto mi sembrava enorme, figurarsi). Il vantaggio competitivo degli apparecchi a colori era autoevidente. Così com’era autoevidente il vantaggio di avere le private accanto alla RAI, di un pc con sistema operativo grafico al posto dell’MS-DOS e quello dell’offerta pay di film/sport via satellite, gemella dell’offerta via cavo americano, rispetto alle povertà delle emittenti analogiche. L’elenco ovviamente non è esaustivo.
Mi è un po’ meno autoevidente il vantaggio del digitale terrestre, soluzione tecnologica transitoria e nata vecchia, ancora fondata sul palinsesto lineare e scarsamente interattiva, ma resta il fatto che gli italiani sono stati convinti a dotarsi di televisori con decoder DTT in cambio di un segnale non corrotto e di una moltiplicazione dei canali da meno di 10 a meno di 100.
E tuttavia già è iniziato il salto evolutivo successivo, la convergenza tra tv e net-connettività. Ogni colosso ha i suoi modelli HD net-enabled in vendita negli States, quindi preparatevi a ricambiare di nuovo televisore. A meno che non vogliate attendere il 3D TV, in fondo mancano pochi mesi ai primi Sony e ha logica immaginare un’esplosione della domanda se pensiamo che già nel 2010, accanto a pletore di videogames, i 30 film più attesi dai teenager del globo saranno titoli 3D (e negli USA avranno attrezzato 5000 sale per il 3D entro Maggio; per forza, i biglietti 3D hanno fatto stabilire la scorsa estate il record assoluto d’incassi, alla faccia di The Pirate Bay).
Pur eliminando per ora dall’equazione il 3D, il vantaggio di passare ai NewTV convergenti mi è molto, molto più autoevidente. Un televisore che può accedere al web, può accedere a milioni, miliardi di siti in streaming. Non 100 canali, 100mila e globali, geofiltri IP permettendo. Inoltre, e soprattutto, zompa il palinsesto lineare. Bye bye, è stato bello, ti ricorderò senza rimpianti, finalmente posso personalizzare le mie serate televisive guardandomi quello che voglio all’orario che preferisco. E sì, lo so che esistono videoregistratori, DVR e Blockbuster, ma sono scomodi! Io voglio tutto con un pulsante restandomene sdraiato sul divano. Quindi benvenuto palinsesto non lineare e benvenuta video-on-demand totale [totale, si intende, se chi detiene i diritti mette online l’intero archivio].
Ah, non dimentichiamo, bisogna aggiungere anche l’aspetto social, che è alla base del Web 2.0 ed è ormai parte integrante della vita di chiunque. Forse sembrerà scemo a taluni, ma TV + chat, Twitter, motori di ricerca, Facebook, share this, rank that, comment here, embed there = mi diverto come un pazzo. Ripeto, immagino possa sembrarvi stupido. Probabilmente anche ai nobili in carrozza le prime automobili sembravano stupide.
A ogni modo, il punto è che il genio è uscito dalla lampada. Non esiste modo di farlo rientrare. Né lo vogliono le major USA, che da tempo hanno sposato il processo di metamorfosi, terrorizzate all’idea di un first mover tipo Google che le spazzi via, sia dall’interno che dall’esterno (leggi: cinesi).
Quindi, l’unica strada possibile è adattare al cambiamento i modelli di business. Per questo Hulu fa così notizia, perché è una risposta “giusta” al cambiamento, persino inattesa per rapidità e simpatia verso le esigenze dei consumatori. E se qualcuno chiuderà i battenti per via di Hulu; va beh, è successo anche alle aziende specializzate in sanpietrini. Tempo di riconvertirsi.
Ora, Hulu è una risposta americana. Poiché viviamo in Italia, e poiché non mi sembra brillantissimo augurarsi un futuro in cui l’industria nazionale è marginalizzata nel suo stesso territorio e si delega agli anglosassoni qualunque potere decisionale sull’ecosfera delle comunicazioni, continuo a scrivere questa rubrica sperando che una risposta italiana di pari peso arrivi al più presto. Nel frattempo, riporto quanto avviene altrove nella distribuzione dei contenuti audiovideo via terminali IP-based (pc, mobile, ultime console, NewTV, etc) e cerco di metterlo a confronto con la realtà autoctona.
Prendiamo ad esempio odierno il consumo di pellicole cinematografiche in VOD attraverso destinazioni web autorizzate e legali (ergo: il film di Bombolo caricato in spezzoni da 10 minuti su Veoh non rientra nel computo). Nella realtà italiana è tuttora assente un bouquet locale in streaming di rilievo. Da Ottobre 2006, da quando è stato lanciato FilmIsNow, ci sono invece servizi di download legale. Secondo i dati che mi ha fornito Maurizio Ferrari, business development manager della struttura, a oggi FilmIsNow ha accumulato 30.000 iscritti, a fronte di una library di 1.200 titoli frutto di accordi con 24 case di cine-distribuzione. L’obiettivo è di espandere il catalogo a 2.000 titoli, esplodendolo nel corso del 2010 con offerte in lingua spagnola, tedesca e francese nella versione .eu del portale.
Forte dei finanziamenti UE ottenuti vincendo il Bando Media VOD, quelli di FilmIsNow detengono al momento l’89% del segmento “download a pagamento” in Italia, l’11% del complessivo “online movie market” in Italia (il virgolettato è tratto dalla fonte dei dati, Screen Digest). E tuttavia questo 89% non riesce per ora a monetizzarsi in più di 1.200/1.500 download mensili, a seconde delle stagionalità. Intendiamoci, sono numeri importanti per gli stardard italici, numeri che premiano l’impegno della start-up, ma rappresentano una frazione del fatturato generato nei mercati avanzati da servizi analoghi.
In parte, per carità, sarà colpa della penetrazione lenta della banda larga nella Penisola. In altra parte è ragionevole ipotizzare un incremento delle performance nel 2010, quando FilmIsNow farà esordire un motore di ricerca verticale stile Clicker, dovrebbero partire i primi accordi sperimentali con produttori di media center (dunque fruizione in TV in modalità over-the-top dei contenuti del sito), e in generale è previsto un aumento della reach a seguito di maggiori investimenti sui social network, attività di SEO, affiliazione con retailer specializzati e co-marketing di multiforme natura. Nondimeno, rimangono delle zavorre di fondo, e sono quelle che pesano più di tutto il resto:
1) Il DRM imposto dai licenziatari. Nell’epoca dell’x264 e di iTunes DRM-free, acquistare film encodati/ristretti in un pesante formato .wmv che rende impossibile vedere l’opera su device differenti dal pc su cui è stata scaricata è un no-no per gli utenti; tra parentesi è anche un costo non indifferente per gli e-store, non parliamo mica di encoder gratuiti open source.
2) Le difficoltà a negoziare royalties che consentano un pricing aggressivo e concorrenziale rispetto ai dvd e alle proposte per cinefili di Sky e DTT Mediaset. Naturalmente è un serpente che si morde la coda. I detentori dei diritti non sono entusiasti al pensiero di danneggiare i ricavi certi dall’home video e dai diritti d’antenna per spingere l’online; al tempo stesso così facendo l’online non carburerà mai.
3) I contratti di licenza sono quasi tutti monoterritoriali, un ossimoro in epoca di world wide (notare il corsivo) web.
4) Ultimo in ordine di elenco puntato, ma non di importanza, la difficoltà nel licenziare accanto al diritto di vendita in pay-per-download anche la visione in streaming (in extrema ratio a costi nominali coperti da sponsorizzazione).
Gli internauti amano lo streaming e sono assuefatti a quei player che somigliano a YouTube. Perché non assecondarli? E se volete uno straccio di prova, Reed Hastings, CEO di Netflix, nell’annunciare i risultati definitivi del terzo trimestre 2009, ha appena confermato che il 42% dei suoi abbonati ha streammato per almeno 15 minuti un episodio di serie TV o un film tra Gennaio e Marzo 2009. Rispetto a un anno fa esattamente il doppio. Vi ricordo che un terzo dei nuovi abbonati Netflix sono precedenti clienti recuperati con le lusinghe di 20.000 film in streaming illimitato a partire da 9 dollari al mese flat, ed è questo dato che rende digeribilissime ai dirigenti Netflix le bollette per la banda consumata (non salatissime: secondo le stime del guru Day Rayburn spendono 0,10 dollari per ogni film consumato tramite Xbox 360 e 0,05 dollari per ogni film visto via pc; il 95% delle loro spese sono costi di licenza versati a Hollywood).
Ora il nocciolo della questione è che non basta convincersi, bisogna farlo in fretta o ritrovarsi, l’ho scritto e ripeto, colonizzati in via definitiva. La stessa Netflix ha deciso di internazionalizzare le operazioni dal 2010, e poichè non ha senso farlo con il tradizionale core business dei dvd inviati nelle bustine pre-pagate (poche Poste sono efficienti come quelle d’oltre Atlantico), ai clienti europei offrirà solo abbonamenti in streaming.
Una prospettiva che peraltro introduce un altro concetto-chiave: la Net Economy è destinata a riequilibranrsi nel rapporto tra contenuti free e pay. È inevitabile per la stampa, via via che i quotidiani spariscono dalle edicole e si reincarnano online, lo sarà altrettanto per il video. Badate bene, riequilibrio, non “tutto a pagamento, la festa è finita” come spesso e volentieri leggo nella blogosfera più emotiva. Finestre free finanziate dalla pubblicità co-esisteranno SEMPRE con offerte premium per nicchie di interessi. Tanto per battere ancora dove il dente duole, l’altra settimana un dirigente di Murdoch, tale Chase Carey, all’OnScreen summit della prestigiosa rivista Broadcasting & Cable, ha innescato un tale effetto valanga di tweet su Hulu da renderlo uno degli argomenti “trend” da homepage di Twitter. In che modo? Paventando Hulu a pagamento entro il 2010. E giù catastrofismi (per una volta non italiani, visto che i nostri IP sono tagliati fuori di default).
C’mon, le major sono avide, non stupide. Hulu è l’erede spirituale dei grandi network in chiaro, è il figlio enfant prodige di ABC, NBC e Fox. Sarebbe folle rinchiuderlo in una gabbia dorata di salate tariffe e lasciare campo libero ai concorrenti, Google in primis, sul versante della webTV gratuita. La pubblicità televisiva è un mercato da 80 miliardi di dollari solo negli States, non lo mollerebbe nessuno dotato di senno… Quello che avverrà sarà uno sdoppiamento del brand, con la nascita di un Hulu Plus a pagamento per chi non si accontenta di avere gli ultimi 25 episodi della sua serie preferita di 75 puntate totali (Hulu ha un catalogo vasto, immenso, ma non omnicomprensivo), li vuole tutti e 75, inclusi extra e dietro-le-quinte. Nulla di anomalo, nulla di inedito. Se si esclude il fatto che i content provider ora possono saltare qualsiasi intermediario – inclusi gli eurobroadcaster come RAI e Mediaset – e vendere direttamente il prodotto al consumatore planetario…
§§§ Uno degli infiniti segnali che l’offerta di audiovideo free via web non è affatto giunta al capolinea arriva dal canale YouTube di Ryan Higa. Il giovanissimo ninja nonsense, con il suo milione e quasi 600.000 iscritti, è diventato il #1 al mondo tra gli user-generati (appartenza di categoria invero formale, visto che ormai Ryan è a tutti gli effetti un professionista dell’online video). E adesso sulle sue clip sono apparsi i pre-roll, gli spot in testa di sapore squisitamente televisivo. Nello specifico uno spot di 15 secondi dell’Ultimate Fighting Championship di wrestling. È la prima volta nella storia degli UGC; in precedenza YouTube era riuscita a vendere pre-roll solo per contenuti di rango, come quelli della partnership con CBS. I pre-roll sono pubblicità pregiata, costosa, e antipatica perché non si possono saltare. Lo spettatore deve essere estremamente motivato per accettarli, attendendo con pazienza l’inizio del video prescelto. A oggi nessun canale user-generato era ritenuto così attraente da poter “reggere” i pre-roll alla pari dell’ultima puntata di Glee. Nel 2007 l’allora head of monetization di YouTube, Shashi Seth, dichiarò: “Pre-roll e post-roll non funzionano sulla nostra piattaforma. Il 75% dei nostri visitatori li odia”. Appena 18 mesi fa, per riprendere un tormentone di questa rubrica…
§§§ In chiusura di questo excursus nelle lande vergini dell’offerta legale di contenuti su Internet, una pillola sullo sport. Come avevo scritto in primavera, la “partita” dello sport in streaming è destinata a risultare una delle più eversive dell’attuale sistema mediatico. Abbiamo analizzato nell’ultimo NewTV gli introiti sbalorditivi delle offerte in streaming della pro Baseball League USA (introiti per il momento spartiti con i licenziatari dei diritti d’antenna, a compensazione del vulnus da potenziale perdita telespettatori). La scorsa settimana NBA.com ha annunciato il debutto sul proprio portale di un web show settimanale in diretta intitolato The Jump e condotto dall’ex-ala degli Orlando Magic Dennis Scott. Non è il primo web show originale prodotto dalla NBA; al contrario. Su NBA.com c’è già Fantasy Insider e una ricca varietà di videocontenuti. Il succo è che i tifosi hanno fame di trasmissioni 2.0, in cui possono interagire con i giocatori, inviare fan video, partecipare in tempo reale “all’azione” (per dirne una, in The Jump campioni del basket di ieri e oggi interverranno collegandosi via Skype, e ricevendo sempre via Skype domande dai navigatori). Questo è quello chiamo autoevidente vantaggio competitivo della NewTV. O se preferite, è il genio uscito dalla lampada, senza nessuna intenzione di rientrarci mai più…
Coming up before in NewTV: per una volta uso questo spazio per guardare indietro. Due lunedì fa avevo affrontato il tema dell’imminente lancio di Vevo. Ora, mentre MySpace prova a correre ai ripari in incredibile ritardo considerate le loro radici “musicali” e presenta alfine un suo portale di videoclip, gli sceicchi di Abu Dhabi hanno deciso di investire 300 milioni di dollari dentro Vevo. Domanda: perchè i petrolieri degli Emirati Arabi d’improvviso puntano le loro fiches sull’online video? La risposta è ovvia a chiunque non metta la testa sotto la sabbia (perdonate il gioco di parole). Mementote: 25-30 NewTV link utili ogni settimana per chi mi segue su Twitter.
NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.