Ci abbiamo messo un po’ a capirlo, ma l’elemento fondamentale della comunicazione via social degli ultimi tempi non è un concetto generico come “la fotografia” (Instagram) o “il video” (TikTok): è, più di tutti, il filtro, inteso sia nel suo senso metaforico (il modo con cui decidiamo di proporci al mondo, pubblicando cose che ci riguardano solo se ci consentono di dare la migliore versione di noi stessi) sia in quello più pratico di algoritmo in grado di cambiare le apparenze fisiche. All’inizio soltanto una curiosità o un modo per differenziarsi dalla concorrenza, i filtri sono rapidamente diventati un fattore fondamentale per la scelta di un social network rispetto a un altro, soprattutto per i giovanissimi. Non molto tempo fa il massimo che si poteva fare era mettersi orecchie e naso da cane; poi sono arrivati i programmi come FaceApp, con cui modificare in maniera radicale – e un po’ inquietante – il proprio volto, invecchiandolo, ringiovanendolo, cambiando il genere, potenzialità presto implementate anche nei vari social; infine, si è sviluppato nel giro di pochi mesi un ricchissimo mercato degli effetti speciali, che vede le più popolari case di moda proporre i propri filtri, e i programmatori più abili diventare delle vere star, i cui ultimi algoritmi sono attesi come il disco del più popolare tra i rapper.
L’ansia da prestazione per i giovanissimi
Questo, ovviamente, ha delle conseguenze, soprattutto tenendo conto che smartphone e tablet finiscono in mano ai giovanissimi sempre prima. Teoricamente, l’età minima per poter accedere a Instagram è 13 anni, ma non è difficile aggirare la regola; e soprattutto, non si può fare nulla, anche se si è un genitore preoccupato, per accedere al profilo di chi ha più di tredici anni, a meno di non conoscere la password. La peer pressure rende di fatto dipendenti dai filtri i ragazzi, che si trovano immersi in un contesto in cui ognuno è più “bello” di quanto non sia in realtà, e spesso l’unica possibilità per non soccombere è cedere a propria volta all’uso degli algoritmi che permettono di “migliorare” le proprie fattezze (su quali standard ci si basi, tra cui di solito un’eccessiva magrezza, è un ulteriore genere di problema). Ma i social sono soltanto una delle dimensioni, per quanto importante, dove vivono i ragazzi, e il contrasto tra quello che si vuole mostrare di sé e la realtà causa non di rado vere crisi d’ansia e inadeguatezza, o peggio. Le preoccupazioni di genitori ed esperti sono quindi comprensibili. Ma davvero non è possibile fare alcunché?
BeReal, quando la mancanza di controllo fa bene
Posto che vietare serve a poco – come si è detto, qualsiasi “regola” può venire superata agevolmente, e i prezzi di Internet mobile, sempre più bassi come mostra SOSTariffe.it, permettono la navigazione praticamente a tutti – si stanno sperimentando delle alternative più sane agli standard irrealistici posti da Instagram e simili. Una di quelle di cui si sta più parlando ultimamente è BeReal, e non si tratta di un’app dalle buone intenzioni che però non viene scaricata da nessuno: al momento è al quarto posto in quanto a download nel settore social per il primo trimestre del 2022 negli Stati Uniti, in Regno Unito e in Francia, dopo Instagram, Snapchat e Pinterest. Il 55% degli utenti USA sono millennial, il 43% generazione Z.
Qual è il trucco di BeReal (che è stato sviluppato in Francia)? Uno, e molto semplice: è possibile inviare solo un’immagine al giorno divisa in due, un selfie e una foto POV con la fotocamera sul retro del telefono, per far vedere il proprio volto e ciò che si sta facendo; non è possibile utilizzare filtri, finto makeup, luci strategiche o altro, e nemmeno visualizzare la classica interfaccia da autoritratto per il selfie quando si scatta. L’app invita senza preavviso a postare l’immagine in un momento qualsiasi della giornata (o quello, o non si può più fino all’indomani: si hanno due minuti di tempo per farlo), quindi non si può scegliere l’istante più “cool”; infine, non si possono vedere le immagini degli altri prima di aver postato la propria, e anche così le uniche foto visualizzabili sono quelle di quel giorno.
Come bambini in un negozio di caramelle
Un social media “incontrollabile”, dunque, che va in direzione opposta rispetto alle vite controllatissime – e, a essere sinceri, un po’ tutte uguali – di chi scimmiotta influencer e celebrità assortite con l’illusione che non ci sia un abisso di distanza, e parecchi zeri di fatturato. Se non si può essere Chiara Ferragni o Kim Kardashian, insomma, piuttosto che imitarle tanto vale essere sé stessi, al di là dei facili proclami della bellissima o del bellissimo di turno che tra cinquanta foto posate mettono quella con un po’ di acne in evidenza per mostrare la propria “sincerità”. Non è dato sapere se BeReal potrà continuare a riscuotere lo stesso successo anche in futuro, o se il semplice meccanismo alla base stancherà presto (il dimenticatoio nel quale è finito Clubhouse, che fino a pochi mesi fa sembrava essere destinato a diventare il social network del futuro, è piuttosto eloquente).
Però il problema rappresentato dai social network senza controllo è reale: secondo Jessica Griffin, professore associato di psichiatria e pediatria all’Università del Massachussets, «TikTok influenza il cervello, che è ancora nel suo sviluppo fino ai vent’anni e più». Il meccanismo dei brevi video, che spesso vengono “consumati” a grappoli, l’uno dopo l’altro, ricorda molto quello alla base delle dipendenze: «Come le caramelle, i video brevi causano un afflusso di dopamina, che – come dei bambini in un negozio di caramelle – spinge a volerne ancora e ancora», continua Griffin. Gli studi in questo campo sono ancora agli inizi, ma uno studio del 2021 su studenti dei college cinese ha mostrato come i centri di “ricompensa“ del cervello vengano attivati molto più spesso guardando i video suggeriti dall’algoritmo invece che quelli scelti casualmente: come a dire non soltanto che i social dominano le vite nostre e in particolar modo dei più giovani, ma che li conducono verso sentieri predefiniti, in un loop apparentemente senza fine di contenuti costruiti su misura. Chissà se la risposta è “essere veri”, come BeReal, fin dal titolo, suggerisce.