La Brexit

Democrazia Futura. Nove mesi senza il Regno Unito

di Matteo Maggiore, direttore della comunicazione presso la Banca Europea per gli Investimenti |

Brexit, le ragioni profonde e le tristi conseguenze di una decisione poco ponderata. Il risultato di una scelta crudamente binaria: dentro o fuori, sulla base della condivisione emotiva per il progetto europeo piuttosto che dei suoi effetti concreti.

Matteo Maggiore
Matteo Maggiore

Matteo Maggiore direttore della comunicazione presso la Banca Europea per gli Investimenti a Lussemburgo nel suo articolo “Nove mesi senza il Regno Unito” esamina – come recita l’occhiello – “Le ragioni profonde e le tristi conseguenze di una decisione poco ponderata”:  “La Brexit è stata una decisione poco Britannica, più emozionale e identitaria che pragmatica. Il risultato di una scelta crudamente binaria: dentro o fuori, sulla base della condivisione emotiva per il progetto europeo piuttosto che dei suoi effetti concreti”. Per Maggiore nel giugno 2016 “La campagna referendaria ha diviso il Regno Unito in modo profondo, esistenziale” e oggi “Gli effetti negativi dell’uscita dall’Unione europea sull’economia britannica sono pesanti. Erano prevedibili e previsti. Ma la motivazione di chi votò per Brexit non aveva a che fare con l’economia. Nel Regno Unito il progetto europeo ha fin dall’inizio (e forse fin da prima) sofferto di una certa aura negativa. Nessuno in Gran Bretagna ha mai presentato l’unità europea come cosa desiderabile in sé. Nella migliore delle ipotesi, di Europa i britannici parlavano come di una triste necessità, un male minore dell’esclusione del Paese dal blocco europeo, ma pur sempre una scelta fatta con riluttanza e dettata dalla necessità” . L’articolo ricordando la “secolare politica britannica del Divide et impera verso l’Europa” esamina le ragioni che nel secondo dopoguerra portano “alle conseguenti necessarie intese durante la guerra fredda”. Dopo eventi quali il blocco di Berlino, la guerra di Corea e la Crisi di Suez.  l’”urgenza di  riarmare la Germania occidentale per difendere l’Europa” e la fine della “capacità d’azione degli imperi coloniali europei […] con la comparsa, nel 1957, della Comunità Economica Europea (CEE), l’abilità britannica di dividere e influenzare le politiche degli stati continentali subì anch’essa un colpo mortale”. Descritte queste ragioni storiche profonde che portano all’adesione del Regno Unito alle Comunità europee nel 1973, Maggiore ricorda che “durante la maggior parte degli anni in cui è stato membro della Comunità, poi Unione, Europea il legame fragile che richiedeva un equilibrismo politico basato su un’ambivalenza di fondo […]: Pubblicamente, i governi denigravano l’integrazione europea o ne minimizzavano i benefici per il paese, ammiccando a un pubblico euroscettico nutrito della narrativa del Regno Unito come paese vincitore della seconda Guerra mondiale. Nella pratica e nella diplomazia quegli stessi governi facevano funzionare la partecipazione attiva e costruttiva del paese alle istituzioni e alle strategie europee”. Emblematiche “Le crisi prolungate tra l’Europa e i governi presieduti da Margareth Thatcher”. Che “non era cultrice dell’ambivalenza e del pragmatismo di breve prospettiva. Nel 1990, di fronte al progetto di una valuta unica per l’Europa, resisté a ogni tentativo dei suoi ministri di addolcire il linguaggio degli impegni sia per permettere agli altri stati europei di procedere sulla strada della moneta unica, sia per lasciare che il tesoro britannico continuasse a allineare volontariamente la sterlina al marco tedesco e all’ECU”. Maggiore definisce poi “incauta” la mossa di David Cameron che, annunciando il referendum “pose la questione europea in termini espliciti, fondamentali e manichei”, denuncia “Le incertezze della BBC” e in particolare la “paura di apparire filoeuropei (e quindi filostranieri e antibritannici): Schiacciata tra punti di vista così irriconciliabili, la radio televisione pubblica britannica indebolì la sua funzione di custode della verità fattuale, trincerandosi dietro la pluralità di punti di vista, e spesso fallendo nel compito di criticare le fandonie prive di fondamento comunicate dalla campagna pro Brexit”, prima di soffermarsi brevemente in conclusione su “La reazione degli altri Paesi dell’Unione europea” al referendum osservando come “Fuori dall’Europa, solo la Russia e i suoi satelliti salutavano con soddisfazione questo profondo indebolimento del progetto europeo” e giudicando “deleterio” Il bilancio […] “ che possiamo trarre dal risultato del referendum del 2016 L’influenza di Londra sulla politica globale è ridotta dalla sua uscita dall’Unione. Importazioni e esportazioni di beni, servizi e manodopera verso e dal continente si sono complicate terribilmente, portando scontento, inefficienze, danni economici considerevoli e perfino carenze occasionali di servizi, generi alimentari e beni di consumo. Nuovi referendum in Scozia e forse anche in Irlanda del Nord, nazioni che avevano votato in grande maggioranza contro Brexit, potrebbero compromettere l’unità del Paese”. Esamina infine “le conseguenze sull’alleanza atlantica” per un’Europa che “si è sviluppata come gigante economico-commerciale e nano militare e geopolitico”: “Senza [i britannici] l’Europa potrebbe trovarsi imprigionata nella propria retorica autonomista […] e messa di fronte alle conseguenze delle proprie posizioni sul rapporto con Washington più rapidamente di quanto pensi. Dall’indipendenza alla concorrenza (se non l’opposizione) il passo è breve, e come nel caso della Brexit più chiarezza potrebbe portare a risultati imprevisti e dalle conseguenze assai profonde […].Senza paladini dell’unità europea come valore positivo e emotivamente condiviso oltre che concretamente vantaggioso per tutti, il consenso al progetto comunitario – osserva Maggiore in conclusione – si fragilizza e diventa ostaggio di vicende che hanno poco a che fare con il bene comune e molto con la manipolazione di elettorati con argomenti irrazionali”.


La Brexit è stata una decisione poco Britannica, più emozionale e identitaria che pragmatica. Il risultato di una scelta crudamente binaria: dentro o fuori, sulla base della condivisione emotiva per il progetto europeo piuttosto che dei suoi effetti concreti.

Il risultato del referendum fu accolto con sgomento e stupore da tutti, sia nel Regno Unito che nel resto di Europa, compreso dai leader della campagna referendaria per la Brexit. Attorno a mezzanotte del 24 giugno 2016, nelle fasi iniziali del conteggio dei voti, Nigel Farage dava interviste concedendo la vittoria del “Remain” e chiedendo un nuovo referendum. Le prime dichiarazioni degli altri leader pro-Brexit a risultato acquisito furono confuse, farfugliate e completamente impreparate. Col senno di poi, questo stupore stupisce.

La campagna referendaria ha diviso il Regno Unito in modo profondo, esistenziale. Gli effetti negativi dell’uscita dall’Unione europea sull’economia britannica sono pesanti. Erano prevedibili e previsti. Ma la motivazione di chi votò per la Brexit non aveva a che fare con l’economia. «Questa è una battaglia che aspettiamo da vent’anni nel partito conservatore. Ora va fatta», disse Nicky Morgan, ministra dell’istruzione, a Craig Oliver, direttore della comunicazione di Downing Street. «È una schifosa guerra civile» (“a bloody civil war”).

Il contesto rendeva la campagna in favore della permanenza nell’Unione Europea – il campo chiamato Remain – simile a una strada in salita tra le sabbie mobili, ad occhi chiusi e mani legate.

Nel Regno Unito il progetto europeo ha fin dall’inizio (e forse fin da prima) sofferto di una certa aura negativa. Nessuno in Gran Bretagna ha mai presentato l’unità europea come cosa desiderabile in sé. Nella migliore delle ipotesi, di Europa i britannici parlavano come di una triste necessità, un male minore dell’esclusione del Paese dal blocco europeo, ma pur sempre una scelta fatta con riluttanza e dettata dalla necessità.

Dalla secolare politica britannica del Divide et impera verso l’Europa continentale alla crisi degli imperi coloniali e alle conseguenti necessarie intese durante la guerra fredda

Questo sentimento era in linea con la politica europea del Regno Unito nel corso dei secoli, quella di dividere per vincere. Il nemico da battere era sempre stata la formazione di grandi entità continentali. I Britannici associano le varie forme di unione comparse sul continente nella storia con catastrofi nazionali o con la loro minaccia, dall’impero romano al consolidamento dello stato francese, dell’impero spagnolo, giù giù fino a Napoleone, gli imperi centroeuropei e il Terzo Reich. L’espressione “Europa unita” non ha connotazione positiva immediata in Gran Bretagna.

Il secondo dopoguerra è stato un momento dolce e amaro nella storia inglese. Da una parte il ruolo centrale del paese nella sconfitta di Adolf Hitler e dei suoi alleati dava al Regno Unito influenza e prestigio senza pari. Dall’altra, lo smantellamento dell’impero e la chiara, urgente subordinazione agli Stati Uniti per le esigenze della guerra fredda annunciavano a caratteri cubitali la diminuzione del Regno Unito da grande potenza imperiale a paese di media grandezza.

Peggio, la guerra fredda aveva rimescolato repentinamente le carte della geopolitica, trasformando l’URSS da alleato in nemico, e gli altri paesi europei – Germania e Italia comprese – da nemici a alleati, e da potenze sconfitte dal Regno Unito in paesi loro pari. Col blocco di Berlino e la guerra di Corea le glorie della vittoria britannica vennero rapidamente dimenticate, lasciando il posto all’urgenza di riarmare la Germania occidentale per difendere l’Europa. Questo metteva il principale paese sconfitto sullo stesso piano del Regno Unito in un nuovo ordine definito dai bisogni della difesa dell’Europa occidentale. Con la crisi di Suez nel 1956, la capacità d’azione degli imperi europei, Regno Unito e Francia, indipendente dal consenso statunitense fu dichiarata defunta. E con la comparsa, nel 1957, della Comunità Economica Europea (CEE), l’abilità britannica di dividere e influenzare le politiche degli stati continentali subì anch’essa un colpo mortale. La comunità europea segnalava ai Britannici che la loro vittoria bellica non aveva più importanza, era un fatto superato, e non conferiva loro alcuna preminenza sugli altri europei.

Per la generazione che la guerra l’aveva vissuta o era nata poco dopo – ovvero la maggioranza di coloro che hanno votato per la Brexit – questa non era una realtà facile da accettare o da superare. Nei primi anni Novanta del secolo scorso, un manager della BBC di ritorno da una riunione con altre televisioni europee mi disse:

“Tutti i partecipanti erano a favore di qualcosa che a noi non sarebbe andato bene. Alla fine li ho convinti a fare come dice la BBC. Ed è giusto. Dopo tutto, tutti i paesi rappresentati attorno a quel tavolo sono stati sconfitti o liberati dal Regno Unito durante la guerra”.

Scherzava solo fino a un certo punto.

Un legame fragile che richiedeva un equilibrismo politico basato su un’ambivalenza di fondo

Quindi, durante la maggior parte degli anni in cui è stato membro della Comunità, poi Unione, Europea, il Regno Unito ha fatto equilibrismo. Pubblicamente, i governi denigravano l’integrazione europea o ne minimizzavano i benefici per il paese, ammiccando a un pubblico euroscettico nutrito della narrativa del Regno Unito come paese vincitore della seconda Guerra mondiale. Nella pratica e nella diplomazia quegli stessi governi facevano funzionare la partecipazione attiva e costruttiva del paese alle istituzioni e alle strategie europee. La relazione poggiava su un’ambivalenza di fondo, volta a mantenere il sostegno di un elettorato scettico verso l’Europa e a costruire un legame di fiducia con gli altri governi europei, fondato sulla tacita promessa che ogni governo britannico faceva di non mettere a rischio i fondamentali della partecipazione britannica all’Europa.

Questo rendeva il legame tra Regno Unito e Europa terribilmente fragile. L’Unione Europea non aveva sostenitori veri e propri in Gran Bretagna. “Il profilo dell’euroscettico continentale coincide esattamente con quello del filoeuropeo britannico”, diceva Neil Kinnock ai tempi della sua vicepresidenza della Commissione Europea. “Al meglio, nel Regno Unito c’è chi dice che la partecipazione all”Unione Europea è un male necessario, e che starne fuori sarebbe peggio.”

Le crisi prolungate tra l’Europa e i governi presieduti da Margareth Thatcher

Lo sforzo di conciliare ostilità pubblica e cooperazione fattiva e discreta generava una tensione continua, ripetuti incidenti che portavano a politiche ostruzioniste da parte di Londra capaci di ritardare o perfino bloccare azioni su cui in Europa c’era ampio consenso, e anche prolungate crisi profonde, prima fra tutte quella tra l’Europa e il governo Thatcher.

Margaret Thatcher non era cultrice dell’ambivalenza e del pragmatismo di breve prospettiva. Nel 1990, di fronte al progetto di una valuta unica per l’Europa, resisté a ogni tentativo dei suoi ministri di addolcire il linguaggio degli impegni sia per permettere agli altri stati europei di procedere sulla strada della moneta unica, sia per lasciare che il tesoro britannico continuasse a allineare volontariamente la sterlina al marco tedesco e all’ECU.

Thatcher non lasciò spazio ad alcuna ambiguità. “Una moneta unica ha a che fare con la politica sull’Europa, è un’Europa federale camuffata”. Privò il suo governo della possibilità di dire uno di quei “no, but” che avevano segnato la storia della convivenza pacifica tra Regno Unito e Europa. Thatcher fu fatta cadere dal suo partito anche per questo. Donna di idee molto discutibili e controverse ma sempre forti e nette, dimostrò di non riuscire affatto a capire quest’aspetto della posizione dei suoi avversari. Parlando delle dimissioni del suo vice Goffrey Howe, scrisse nelle sue memorie,

“Esattamente perché (si dimise) non è ancora chiaro, di certo per me. Non so se volesse davvero una moneta unica. Né allora, né più tardi per quel che so disse mai quale fosse la sua posizione – solo quella che non voleva fosse la mia”.

L’incapacità per Margaret Thatcher di tollerare una certa pragmatica vaghezza e di apprezzarne i benefici resero la sua caduta necessaria per permettere al Regno Unito di appianare il contrasto con i paesi continentali sull’obiettivo finale dell’integrazione europea. Le relazioni tornarono sul piano della ricerca di soluzioni pragmatiche e l’Europa poté ricominciare a avanzare (sia pure a piccoli passi) senza che il Regno Unito se ne staccasse definitivamente.

L’incauta mossa di David Cameron

Poi David Cameron fece qualcosa che, meno esplicitamente (e forse inavvertitamente), somigliava all’approccio chiaroscuro di Margaret Thatcher: pose la questione europea in termini espliciti, fondamentali e manichei. Anziché tagliare il “salame” europeo a fette sottili, digeribili per un elettorato indifferente o ostile all’Europa perché presentate sotto forma di decisioni specifiche e specialistiche anziché scelte esistenziali di appartenenza, decise di dare ai sostenitori dell’uscita dall’Unione europea sia nel suo partito che nell’UK Independence Party di Nigel Farage che gli sottraeva voti, una scelta chiara legata proprio alla questione fondamentale: dentro o fuori.

Nel contesto britannico sorprende che un primo ministro potesse credere nella possibilità di vincere una gara così formulata.

Nel campo del “fuori” si allineavano schiere di fautori di valori e sentimenti patriottici percepiti come positivi. Sovranità, indipendenza, libertà, successo internazionale del paese, recupero della passata grandezza. Nel campo del “rimanere” (parola che già evoca al meglio uno stato senza miglioramento, una stasi) ogni evocazione emotiva, estetica, entusiasta del progetto europeo era squalificata proprio dal sospetto di duplicità, doppiezza, al meglio ingenuità legato a ogni visione positiva dell’Europa.

La campagna per “Remain” era confinata nello spazio intellettuale, minimalista e arido dei probabili svantaggi dell’uscita dall’Unione e di possibili instabilità geopolitiche troppo incerte e complesse per far presa nel dibattito pubblico. Confederazioni industriali, economisti e accademici si affrettavano a intervenire per difendere per la prima volta qualcosa di cui, prendendolo per scontato, si erano sempre sentiti liberi di parlare con sarcasmo, sussiego e sufficienza.

Non sorprende che queste uscite non abbiano convinto l’elettorato. Craig Oliver scrisse sconsolato che la campagna referendaria faceva pensare che

“votare per l’uscita dall’Unione Europea era un voto di fiducia nella Gran Bretagna. Sostenere Remain essenzialmente è ammettere che la Gran Bretagna è debole e non può farcela da sola”.

Si è scritto molto sul fatto che gran parte del 51,9 per cento dell’elettorato che ha votato a favore della Brexit fosse costituito da inglesi della provincia (non londinesi, scozzesi o irlandesi del Nord), per lo più di età matura, e che molti, soprattutto tra i giovani, non parteciparono al voto perché certi della vittoria di “Remain”. Si è anche giustamente sottolineato quanto il partito laburista guidato da Jeremy Corbyn guardasse con una certa simpatia alla possibilità di una Brexit e si sia mobilitato troppo poco per la campagna anti-Brexit.

Fatto sta che i britannici in favore della permanenza nell’Unione europea non si sono mobilizzati a sufficienza, che i loro argomenti non hanno emozionato e convinto i cittadini dell’urgenza di votare, e che nessuno in Gran Bretagna ha saputo trasformare la prospettiva europea da “male minore” in valore positivo da difendere. Il legame tra Regno Unito e Europa era troppo fragile per reggere a una conta semplicistica e brutale come un referendum. Priva di paladini votati alla sua causa, l’Europa non ha emozionato i suoi sostenitori, mentre i suoi avversari hanno raccolto il frutto di decenni di stampa e dibattiti pubblici che avevano trasformato il disprezzo più o meno intenso per l’integrazione europea in patriottismo e valore comune per il Paese.

Paradossalmente la posizione pro-remain costrinse David Cameron il Primo Ministro conservatore a sperimentare sulla propria pelle la terribile opposizione della potentissima stampa di destra, da sempre sovranista e antieuropea ma anche storicamente conservatrice e anti-laburista. Di fronte alle bordate dei tabloid di Rupert Murdoch, Ameet Gill, direttore della strategia di Downing Street, disse: “Stiamo scoprendo cosa si prova a essere [il leader del partito laburista] Ed Milliband”. Che Cameron e il suo team non l’avessero preso in conto si aggiunge agli aspetti sorprendenti di questa vicenda.

Su tutte le stratificazioni storiche e le radici che la questione europea affondava nel passato del Regno Unito si innestava la modernissima indifferenza verso la verità e i fatti. In una specie di mondo allo specchio, il milionario poliglotta Nigel Farage capovolgeva l’universo esclamando che l’Europa era “tutta roba per banchieri e figli di papà”.

Autobus usati per la campagna del “Leave” circolavano con scritte cubitali che esortavano a riprendere a Bruxelles la cifra inventata di 325 milioni di sterline a settimana che Londra avrebbe dato all’Unione Europea e finanziarci il sistema sanitario nazionale (in una stupefacente manifestazione di sostegno al servizio pubblico nazionale, perfino Farage suonava un paradossale allarme secondo cui se il Regno Unito fosse rimasto nell’Unione ci sarebbe stato pericolo che la sanità venisse privatizzata). E i leader della campagna, ogni volta che li si confrontava con pareri dotti ed esperti sui benefici dell’Europa per la Gran Bretagna e i potenziali pericoli di uscirne, esclamavano: “Basta. La Gran Bretagna ne ha abbastanza degli esperti!”.

Le incertezze della BBC

La paura di apparire filoeuropei (e quindi filostranieri e antibritannici) non risparmiava neanche la BBC. Il servizio pubblico britannico venne criticato da entrambe le parti. È comune che si dica, alla BBC, che quando tutti criticano vuol dire che la televisione pubblica fa bene il suo lavoro di essere imparziale. Ma nel caso del referendum sulla Brexit le critiche erano feroci e non solo toccavano professionalità e onestà intellettuale dei giornalisti, ma sollevavano sospetti – soprattutto da parte dei pro-Brexit – di complotti e complicità tra la BBC, le élite corrotte del paese e perfino potenze straniere. Schiacciata tra punti di vista così irriconciliabili, la radio televisione pubblica britannica indebolì la sua funzione di custode della verità fattuale, trincerandosi dietro la pluralità di punti di vista, e spesso fallendo nel compito di criticare le fandonie prive di fondamento comunicate dalla campagna pro Brexit. Durante la campagna referendaria, Cameron disse ai suoi collaboratori:

“In fin dei conti è un dibattito su sovranità contro influenza. Abbiamo più controllo sulle cose importanti con più sovranità nazionale, o esercitando maggiore influenza su un’organizzazione che continuerà a esistere e a avere impatto su di noi anche se ce ne andiamo?”

Questa sarebbe stata la versione razionale di un dibattito che razionale non era.

Non c’era neanche chiarezza su cosa sarebbe successo in caso di vittoria della Brexit.

Molti consideravano (quasi come atto di fede patriottica) che l’Europa avesse bisogno del Regno Unito più di quanto Londra avesse bisogno dell’Unione Europea, e che, se avesse vinto il fronte pro-Brexit, Bruxelles si sarebbe affrettata a fare proposte ben più vantaggiose per i britannici di quelle che aveva formulato fino a quel punto.

Oltre a illustrare una confusione profonda sugli effetti del referendum in quanto strumento giuridico (votare per la Brexit era effettivamente votare per l’uscita dall’Unione europea o una mossa negoziale reversibile?), questo atteggiamento era profondamente errato.

L’Unione teneva molto alla permanenza del Regno Unito al suo interno.

La reazione degli altri Paesi dell’Unione europea al referendum

Il risultato del referendum fu un vero trauma per gli altri Stati europei. Tuttavia, la posizione degli altri 27 membri dell’Unione fu compatta fin dal principio, con gran stupore dei britannici che contavano su divisioni e disaccordi (e anche con una certa meraviglia da parte degli stessi membri restanti dell’Unione europa).

Gli altri europei presero rapidamente atto della decisione britannica (che non esitarono a definire apertamente come errata, assurda, stupidissima) e la facilità con cui lo fecero fu un amaro risveglio per Londra.

Anzitutto, gli europei stimavano troppo il Regno Unito per non prendere sul serio un atto dell’importanza e della gravità di un referendum sull’Europa. Non restava altro da fare che mettersi al lavoro per dar seguito a questa decisione sovrana di uno dei più importanti stati membri.

In secondo luogo, gli Europei si preoccuparono di possibili ripetizioni e imitazioni tra i loro ranghi, e decisero di mostrare fermezza e unità di intenti per scoraggiare emuli potenziali.

Poi, trattandosi del Regno Unito, diversi paesi tirarono un sommesso sospiro di sollievo. Con l’uscita della Gran Bretagna, un partner sempre difficile e ostico, le cose in Europa sarebbero probabilmente diventate assai più facili. La campagna referendaria aveva scoperchiato i contenitori dei più riprovevoli e francamente disgustosi istinti nazionalisti, xenofobi e antieuropei del paese, il lato oscuro della cultura britannica. Questo non aveva certo procurato a Londra molti nuovi amici sul continente, e aveva raffreddato l’affetto di quelli di lunga data.

L’atteggiamento prevalente conteneva indifferenza, il “peggio per voi”, e la discreta, poco elegante fretta di spartirsi le spoglie dell’avventura europea della Gran Bretagna (sedi di istituzioni, seggi al Parlamento Europeo, eccetera). Fuori dall’Europa, solo la Russia e i suoi satelliti salutavano con soddisfazione questo profondo indebolimento del progetto europeo.

Il bilancio deleterio che possiamo trarre dal risultato del referendum del 2016

A cinque anni dal referendum britannico il bilancio della Brexit per il Regno Unito è chiaro e deleterio.

L’influenza di Londra sulla politica globale è ridotta dalla sua uscita dall’Unione. Importazioni e esportazioni di beni, servizi e manodopera verso e dal continente si sono complicate terribilmente, portando scontento, inefficienze, danni economici considerevoli e perfino carenze occasionali di servizi, generi alimentari e beni di consumo.

Nuovi referendum in Scozia e forse anche in Irlanda del Nord, nazioni che avevano votato in grande maggioranza contro la Brexit, potrebbero compromettere l’unità del Paese.

Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese e leader del Partito Nazionale Scozzese (SNP), ha promesso un nuovo referendum sull’indipendenza dal Regno Unito entro il 2023. A differenza del leader precedente, Alex Salmond, e del referendum nel 2014, Sturgeon ha intenzione di presentare agli elettori una mappa dettagliata di come la Scozia possa prosperare in quanto nazione indipendente da Londra e integrata in Europa. Mentre nel 2014 i nazionalisti scozzesi apparivano eversivi e il governo britannico rassicurante e di buon senso, nel 2023 potrebbe accadere l’opposto: la scelta europeista potrebbe essere vincente e rassicurare gli elettori dopo il salto nel buio della Brexit imposta da un governo londinese avventurista e scellerato.

La situazione in Irlanda del Nord è ancora più delicata. La frontiera tra Irlanda e Regno Unito praticamente non esiste, in virtù del mercato interno europeo e della libertà di movimento. Con l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, nasce il problema di creare, per la prima volta, una dogana e dei controlli di frontiera. Un irrigidimento delle frontiere tra il Nord e la repubblica di Dublino sarebbe inviso ai fautori di un’unione senza ostacoli tra Nord e Repubblica d’Irlanda, mentre una frontiera tra la Gran Bretagna e l’isola irlandese, con controlli di merci e persone all’arrivo in Irlanda del Nord o alla partenza da Scozia o Inghilterra, farebbe sentire i fautori dell’unità con Londra insicuri e traditi.

Ogni fragilizzazione degli equilibri creati dall’accordo di Belfast detto “del Venerdì Santo” del 10 aprile1998 porta il pericolo di nuove violenze settarie e religiose. Nei negoziati che seguirono al referendum è stato dato di assistere a un Primo Ministro britannico che si infuriava con gli Irlandesi del Nord, che erano “la coda che scondinzola il cane”, arrivando a borbottare fuori onda che il Regno Unito sarebbe stato meglio senza di loro, e a un Primo Ministro irlandese, Leo Varadkar, che calmava gli spiriti dei fautori dell’unificazione tra province del Nord e Repubblica di Dublino, rassicurando che il suo scopo non era quello di usare la Brexit per unificare l’Irlanda. Ma ora lo stesso Varadkar, ora vice primo ministro, dice di credere nell’unificazione dell’Irlanda nel futuro prevedibile.

Per finire, il futuro della libertà di movimento e di residenza per i cittadini europei residenti nel Regno Unito e i cittadini britannici sparsi per l’Europa è incerto e confuso.

Ma se Atene piange, Sparta farebbe meglio a non ridere.

La Brexit è stata una tragica battuta d’arresto nel progetto europeo, una menomazione traumatica del continente. Gli anglofili più o meno dichiarati sentiranno la mancanza dell’approccio pragmatico e concreto dei britannici a tutte le questioni. E non c‘è dubbio che dello stile negoziale e della cultura burocratica britannica, generalmente più snella, agile e attenta a sostanza e obiettivi piuttosto che a procedure, nel consesso europeo si sente nostalgia.

Più in generale, nessuno dei 27 membri residui dell’Unione europea dispone di legami profondi quanto quelli di Londra con l’anglosfera.

Il Regno Unito portava, politicamente, economicamente, ma anche culturalmente, un’apertura al mondo anglofono che la nuova Europa faticherà a ritrovare. Questa dimensione completava le altre relazioni e radici dell’Unione europea, quelle mediterranee e est-europee, che ora risultano monche del lato atlantico e, appunto, anglofono e globale. E una profonda influenza culturale, sociale e economica è uno degli strumenti principali di un’Unione disarmata come quella europea, importante per la sua prosperità e per la sua cultura quanto anche per la propria sicurezza.

Le conseguenze sull’alleanza atlantica

Parlando di sicurezza, l’uscita del Regno Unito mette l’Europa di fronte a una crisi di intenti. La Gran Bretagna era, ed è, il paladino più deciso dell’alleanza tra Europa e Stati Uniti, senza se e senza ma, al punto di considerare ogni tentativo di progetto comune europeo nel campo della difesa come un pericolo, un potenziale indebolimento, una possibile ragione per gli Americani di allontanarsi dall’Europa e dal suo destino.

Naturalmente gli europeisti vedono la fine del veto britannico alla cooperazione europea nel campo della difesa come una buona cosa. Tuttavia, è chiaro che per molto tempo dietro al veto (formale o sostanziale) britannico si nascondevano paesi europeisti a parole ma poco disposti a fare il necessario per dotare l’Europa di una capacità d’azione militare sia credibile, sia autenticamente comune.

L’Europa si è sviluppata come gigante economico-commerciale e nano militare e geopolitico. Come la convivenza tra il Regno Unito e gli altri membri dell’Unione, anche questo modello poggia su una certa ambivalenza. Presuppone un credibile impegno da parte americana a proteggere l’Europa e a discutere almeno in parte le proprie decisioni strategiche con gli alleati europei. Presuppone anche un impegno da parte europea a non contrastare in maniera fondamentale le scelte strategiche degli Stati Uniti. Relega i progetti di cooperazione europea nel campo di difesa e sicurezza alla dimensione periferica di complemento all’imprescindibile sforzo americano. Ma non impedisce il proliferare di una certa retorica che propone (in modo per la verità abbastanza vago e sommesso) un’indipendenza anche geopolitica e di sicurezza dell’Europa dall’America.

È un modello fragile, ostaggio in particolare degli umori delle successive amministrazioni americane che inizialmente tendono istintivamente all’isolazionismo e vanno di volta in volta educate sui benefici del sostegno alla sicurezza europea.

Gli autori più appassionati e efficaci di questi sforzi educativi sono senza dubbio i Britannici. Senza di loro l’Europa potrebbe trovarsi imprigionata nella propria retorica autonomista (si parla sempre più spesso a Bruxelles di “autonomia strategica” dell’Unione) e messa di fronte alle conseguenze delle proprie posizioni sul rapporto con Washington più rapidamente di quanto pensi. Dall’indipendenza alla concorrenza (se non l’opposizione) il passo è breve, e come nel caso della Brexit più chiarezza potrebbe portare a risultati imprevisti e dalle conseguenze assai profonde.

In conclusione, a cinque anni dal referendum sulla Brexit sembra chiaro che le radici dell’ostilità all’integrazione europea nel Regno Unito erano profonde e robuste.

Successivi governi britannici nel corso degli anni in cui il paese è stato membro della comunità, poi Unione, Europea, sono riusciti a ignorare quell’ostilità, a controllarla, manipolarla e aggirarla, ma non a indebolirla.

Questa « doppiezza » di linguaggio è costata cara ai fautori della permanenza in Europa : Non si può parlar male di una cosa per decenni e poi aspettarsi di esser creduti quando, in poche settimane, si cerca di convincere tutti che questa stessa cosa sia ottima e irrinunciabile per il paese.

Conclusioni

Senza paladini dell’unità europea come valore positivo e emotivamente condiviso oltre che concretamente vantaggioso per tutti, il consenso al progetto comunitario si fragilizza e diventa ostaggio di vicende che hanno poco a che fare con il bene comune e molto con la manipolazione di elettorati con argomenti irrazionali.

In queste condizioni, la campagna per restare nell’Unione europea era votata alla sconfitta dal principio.

Sembra anche chiaro che l’impatto economico non sia stato il fattore determinante nella scelta della maggioranza, contrariamente al famoso mantra della campagna presidenziale di Bill Clinton « It’s the economy, stupid ! » e alla nozione a cui la campagna per il « remain » si appoggiava secondo cui non c’era stata una singola elezione nel Regno Unito negli ultimi 100 anni in cui la gente avesse votato contro i propri interessi finanziari. Tutti gli argomenti razionali e radicati nei dati e nei fatti mostravano che l’impatto economico sarebbe stato negativo per il paese, ma questo non convinse la maggioranza dei votanti a opporsi alla Brexit.

Infine, la Brexit ha illustrato la fragilità del progetto europeo, sostenuto pubblicamente da pochi, trattato con sussiego da molti, e ostaggio di «schifose guerre civili» di partito o di fazione che possono repentinamente invertirne il corso. Il Regno Unito è un caso speciale ed estremo, ma la retorica anti-UE compromette la solidità dell’integrazione comunitaria anche nelle altre capitali (e province) europee.

Il negoziato sulla Brexit è stato speciale.

Generalmente le trattative internazionali servono a avvicinare le parti in causa. Questa volta era il contrario. Si è negoziato per dividersi.

Era la prima volta dalla dissoluzione della Cecoslovacchia divenuta operativa dal 1° gennaio 1993. L’anno prima il ministro degli esteri di quel Paese, Jirì Dienstbier, ebbe uno scambio con la commissione affari esteri del Parlamento Europeo. I deputati gli chiesero cosa pensasse dell’idea di separare Cechia da Slovacchia e se questo non fosse importante per rispondere alla giustificata sete di indipendenza della Slovacchia. Dienstbier rispose:

 “Mi sembra che dopo tutta la storia che conosciamo fosse venuto il momento di abbattere confini, non di crearne di nuovi”.

Quasi trent’anni dopo la separazione della Cechia dalla Slovacchia, i confini sono aumentati.

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