Lucio Saya prosegue i suoi ritratti e ricordi degli anni Sessanta nella rubrica Passato prossimo non venturo descrivendo la sua “scoperta del Jazz negli anni de La Dolce Vita” in un pezzo dedicato alla figura di un musicista afroamericano, scomparso nella primavera del 2021 fondatore del più noto locale romano: “Harold Bradley e il primo Folkstudio a Trastevere”. Per un giovane poco più che ventenne sbarcato nella capitale nel 1960 l’alternativa ai costosi night club di Via Veneto sono alcuni retrobottega di trattoria di Trastevere dove “Con 500 lire, ossia circa 25 centesimi di euro di oggi, si trascorrevano delle serate di jazz a volte memorabili, condite da un piatto di penne all’arrabbiata verso mezzanotte”. Qui nasce nel 1962 il “Club di Musica Folkloristica Internazionale e Jazz” noto come “FOLKSTUDIO” di Harold Bradley: “[…]l’atmosfera che si respirava era qualcosa di nuovo e diverso. Subito oltre la porta un minuscolo spazio era riservato alla “Cassa”, mentre un corridoio proseguiva fino a svoltare a sinistra ma appena per qualche metro. Nell’angolo formato da questa “L” una bassa pedana in legno era a disposizione degli artisti […] “l’anima, il cuore, la voce, il tutto del “Folk” [era] Harold Bradley. Pittore, scultore, cantante, campione di Football Americano, attore, insegnante d’arte, e si potrebbe continuare. […] Nato nel 1929 a Chicago approdò in Italia trentenne nel 1959. All’Università per stranieri di Perugia conosce Hannelore che diventerà sua moglie. Trasferitosi a Roma inizia la sua carriera di attore teatrale e cinematografico. Nel 1960 prende in affitto un locale in via Garibaldi per la sua attività di pittore e scultore. A poco a poco però lo Studio diventa luogo di incontri musicali degli amici di Harold. Jazz, musica popolare e alternativa richiamano ormai tanti appassionati che lui decide di creare una Associazione per regolarizzare la frequentazione del locale. Nasce così il Folkstudio. Bradley ne sarà l’animatore, il “regista” e anche l’interprete di gospel, spiritual, blues e di indimenticabili “sermoni”.
Era il 1960, il mio primo anno a Roma e quando potevo gironzolavo nelle strade del centro per prendere confidenza con la città.
Anni de La Dolce Vita. Al Caffè Greco, in via Condotti, magari incontravi Renato Guttuso, Pier Paolo Pasolini o Federico Fellini. Passando da Fontana di Trevi ti aspettavi di vedere Anita Ekberg nell’acqua e invece ci trovavi i ragazzini che cercavano di ripescare le monetine gettate dai turisti.
Nel pomeriggio a via Veneto, seduti ai tavoli di Doney, del Cafè de Paris o dell’Harry’s bar spesso si vedevano Marcello Mastroianni, Gina Lollobrigida (Lollo per gli amici), Richard Burton.
Ma a parte personaggi famosi, Dive e Paparazzi con relative scazzottate, una caratteristica di quel periodo sono stati i Night Club, più semplicemente “Night”. Capriccio, Rupe Tarpea, Grotte del Piccione, Club 84 e altri, significavano Bruno Martino, Fred Buscaglione, Peppino Di Capri, Don Marino Barreto jr.
Ma in tutta questa musica vi era una nota dissonante: il “Conto” che veniva presentato a fine serata, assolutamente oltre qualunque possibilità di noi giovani. Così eravamo alla continua ricerca di musica dal vivo, spesso non sapendo bene cosa cercare e a volte non conoscendo neppure il significato delle “etichette” affibbiate ai diversi generi: musica folk, etnica, Work Song, canti popolari, blues, jazz. E non sapevamo nemmeno bene cosa fosse il Cabaret? Ma … continuavamo a cercare… L’unica mia scoperta sino a quel momento era stata er Purgatorio, niente altro che un grande stanzone dal soffitto molto alto, ricavato nel retro della costruzione che ospitava Meo Patacca, una delle tre notissime trattorie (con Ettore Fieramosca e Ciceruacchio) che si fronteggiavano in piazza dei Mercanti a Trastevere. Con 500 lire, ossia circa 25 centesimi di euro di oggi, si trascorrevano delle serate di jazz a volte memorabili, condite da un piatto di penne all’arrabbiata verso mezzanotte.
L’alternativa al night club: il Club di Musica Folkloristica Internazionale e Jazz a Trastevere
Poi un giorno, il 1962 balbettava le sue prime settimane, cercando un’alternativa ai Night tornai in Trastevere e passando per via della Scala sbucai su via Garibaldi. Là però non sembrava esserci che qualche agonizzante segno di vita. Stavo per tornare sui miei passi quando mi raggiunse il flebile suono di una musica e di voci che cantavano. Continuai allora per la strada in salita e al numero 58, oltre una piccola porta a vetri, feci la conoscenza del “Club di Musica Folkloristica Internazionale e Jazz” ossia del “FOLKSTUDIO” di Harold Bradley.
Che il locale fosse “spartano” è dire molto, molto poco. Ma l’atmosfera che si respirava era qualcosa di nuovo e diverso. Subito oltre la porta un minuscolo spazio era riservato alla “Cassa”, mentre un corridoio proseguiva fino a svoltare a sinistra ma appena per qualche metro. Nell’angolo formato da questa “L” una bassa pedana in legno era a disposizione degli artisti.
L’arredamento del “Folk” è variato nel tempo, soprattutto a seconda della presenza o meno di qualcosa su cui sedersi; ma questo non è mai stato un problema. All’occorrenza tutti a terra, i ragazzi come le signore chic, mischiati agli artisti, cantando e battendo il tempo con loro, magari sgranocchiando i popcorn caldi di Benito o bevendo Sangrìa. L’assenza di formalismo unita all’empatia che si stabiliva fra i presenti costituivano l’indiscutibile fascino del Folkstudio. Tutti si sentivano un po’ protagonisti, coinvolti nello svolgimento delle serate. Talvolta si ascoltava grande jazz, altre musica celtica, un cantastorie o un poeta, Work Songs dei neri d’America, folklore italiano e di tanti altri paesi. Sul palco o nel buio corridoio fra gli spettatori, molti giovani artisti allora del tutto sconosciuti hanno fatto le loro prime preziose esperienze. E partecipavano sempre con quel misterioso entusiasmo che suscitava il Folkstudio (oggi difficile da spiegare) anche artisti già affermati. Come si dice in questi casi “solo per citare qualche nome”: Toni Santagata, Pippo Franco, Luisa De Santis e Gabriella Ferri, Marcello Rosa, Otello Profazio, Carlo Loffredo, Giovanna Marini, Ettore Zeppegno, il Duo di Piadena[1]. E c’era l’anima, il cuore, la voce, il tutto del “Folk”: Harold Bradley. Pittore, scultore, cantante, campione di Football Americano, attore, insegnante d’arte, e si potrebbe continuare.
Chi era il mio grande amico Harold Bradley
Nato nel 1929 a Chicago approdò in Italia trentenne nel 1959. All’Università per stranieri di Perugia conosce Hannelore che diventerà sua moglie. Trasferitosi a Roma inizia la sua carriera di attore teatrale e cinematografico. Nel 1960 prende in affitto un locale in via Garibaldi per la sua attività di pittore e scultore. A poco a poco però lo Studio diventa luogo di incontri musicali degli amici di Harold. Jazz, musica popolare e alternativa richiamano ormai tanti appassionati che lui decide di creare una Associazione per regolarizzare la frequentazione del locale. Nasce così il Folkstudio. Bradley ne sarà l’animatore, il “regista” e anche l’interprete di gospel, spiritual, blues e di indimenticabili “sermoni”. L’intera storia del Folkstudio non può essere raccontata qui. Quella della prima stagione romana di Harold si conclude alla fine del 1967, quando riparte per gli Stati Uniti. Il locale continuò l’attività in via Garibaldi poi cambiò sede ma né qui né là fu più la stessa cosa.
Harold Bradley tornerà a Roma nel 1988 e, sorpreso di essere ancora così presente nella memoria e nell’affetto della gente, decide di rimanere. E sarà ancora per anni il personaggio che tutti hanno conosciuto. Un piccolo personale ricordo. All’inizio del 2019 Harold si ruppe un femore ed era ricoverato in ospedale. La sera prima dell’intervento ero andato a trovarlo. Una dottoressa era venuta a controllare la tonicità muscolare. Dopo aver palpato i muscoli di una gamba e rimesso su il lenzuolo, si accingeva ad uscire. Allora le chiesi se per caso sapesse cos’è il Super Bowl (praticamente il campionato del mondo di Football Americano) e lei, sorridendo, rispose “si”. Allora aggiunsi: “Quelle gambe che ha appena toccato hanno vinto un Super Bowl”. E Harold, dal letto, con un filo di voce: “DUE…”.
Il 30 aprile 2021 abbiamo salutato Harold alla Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo. E per concludere riporto un passo della Prefazione di Pippo Franco per un volumetto dedicato a questo nostro grande amico:
“Le proposte artistiche del Folkstudio non avevano nulla a che vedere con la musica dell’epoca. Erano esibizioni proiettate in un futuro che avrebbe visto il diffondersi del Jazz e di quel genere che veniva identificato con il folklore, non avendo altra similitudine [… Noi cantautori ci infilavamo fra i grandi protagonisti del Jazz per uscire dagli schemi, per dissacrare e divertire, fedeli a un’originalità che avrebbe avuto negli anni successivi un sorprendente successo. Grazie Harold”[2].
Il 27 luglio del 2012 è stata apposta una Targa accanto al numero 58 di via Garibaldi per ricordare che lì una volta c’era il Folkstudio di Harold Bradley[3].
[1] Il Duo di Piadena è stato un gruppo musicale italiano di musica popolare composto da Delio Chittò (Torre de’ Picenardi, 2 maggio 1944 – Torre de’ Picenardi, 18 agosto 2018)[1][2] e Amedeo Merli (Torre de’ Picenardi, 15 marzo 1939)
[2] Sandro Bari, Folkstudio 1961 – 1967. La fondazione. Prefazione di Pippo Franco, Roma, Edilet, 2017, 136 p.
[3] Mia figlia Gloria Saya ha realizzato un ricordo video visibile su YouTube cliccando al seguente link: https://youtu.be/HnYdy8sHrG0.