Sembra che compriamo molti più vestiti di quanti realmente ne utilizziamo nella nostra vita. Ogni anno in tutto il mondo sono acquistati qualcosa come 100 miliardi di vestiti, che poi a quanto pare vengono buttati, diventano 92 milioni di tonnellate di spazzatura.
È come buttar via materiali ancora riutilizzabili per 500 miliardi di dollari l’anno. Secondo stime aggiornate, questo volume di scarti di abbigliamento dovrebbe raggiungere le 134 milioni di tonnellate l’anno entro il 2030.
Tanto inquinamento, quindi, senza contare il lavaggio dei vestiti rilascia nell’oceano 500.000 tonnellate di microfibre di plastica ogni anno, equivalenti a più di 50 miliardi di bottiglie di plastica.
La “Green Machine” per l’economia circolare
La speranza ora è in una tecnologia di nuova generazione dedicata alla promozione dell’economia circolare, quindi del recupero, riciclo e riuso.
Si tratta della “Green Machine”, che potrebbe consentire un recupero e riciclo diffuso degli abiti non più utilizzati. Un po’ come si fa con la plastica, il vetro e la latta.
Il progetto, partito per iniziativa della Fondazione H&M, con la collaborazione tecnico-scientifica della Ehime University e della Shinshu University in Giappone, e dell’Hong Kong Research Institute of Textiles and Apparel, ha come obiettivo il riciclo dei tessuti misti, che sono i più utilizzati (cotone e poliestere, che compongono circa il 90% dei capi di abbigliamento in circolazione).
H&M è uno dei brand che più ha fatto profitti sulla cosiddetta “fast faschion” (in compagnia di altri celebri come Zara, Peacocks, Primark, Xcel Brands e Topshop), cioè la moda usa e getta che tanto sta preoccupando gli ambientalisti di tutto il mondo.
Ancora oggi, tale azienda sforna ogni anno circa 3 miliardi di capi di abbigliamento, per più di 4 miliardi di dollari di prodotti invenduti, molti dei quali finiscono come combustibile per le centrali termo elettriche in Paesi come la Svezia.
Come funziona il riciclo dei vestiti
Senza l’utilizzo di sostanze chimiche (che sono altamente inquinanti), le fibre da recuperare sono “sciolte” tra loro a partire dalla tecnologia idrotermica, molto efficace per rompere le maglie dei tessuti e riciclarli.
Un sistema altamente efficace, si legge nel comunicato della Fondazione, che dura a lungo nel tempo e che si vuole portare ad un volume lavoro giornaliero di 1,5 tonnellate di tessuto recuperato al giorno.
Anche in termini economici, il tessuto riciclato avrebbe un costo/guadagno praticamente già simile a quello di un tessuto prodotto da zero: al momento, il primo costa appena 2 centesimi di dollaro in più rispetto al secondo.
Il poliestere è molto, molto economico sul mercato, ma il riciclo e il riuso stanno crescendo e il prezzo di tali fibre si abbasserà rapidamente, scendendo al di sotto del nuovo di produzione, rendendole più economiche e quindi più appetibili dai grandi marchi di abbigliamento.
Ad oggi, la cordata della fondazione e dei centri di ricerca universitari per l’economia circolare nel mercato dell’abbigliamento ha dato vita a due Green Machine, investendo più di 100 milioni di dollari in cinque anni per migliorare l’efficacia della tecnologia.
Moda e inquinamento
Ogni anno si stima che l’industria della moda nel suo complesso rilascia in atmosfera circa 5.000 milioni di tonnellate di CO2, consumando 80.000 miliardi di litri d’acqua per i processi industriali.
I rilasci negli oceani sono calcolati in 200.000 tonnellate di microplastiche l’anno, rendendosi responsabile del 20% dell’inquinamento delle risorse idriche globali.
Dal 1975 ad oggi, la produzione di capi di abbigliamento è passata da 6 a 13 kg di vestiti a persona. Secondo stime più recenti, la richiesta per il”ready to wear” cresce annualmente del 2%.
Un trend che va considerato in tutta la sua gravità, non solo per l’ambiente, come abbiamo visto, e quindi per l’impatto sulla nostra salute, ma anche per la sostenibilità sociale ed economica di tale industria, che genera diffusamente violazioni costanti delle leggi sul lavoro e diseguaglianze crescenti.