Pubblichiamo di seguito il contributo di Paolo Luigi De Cesare, poeta, autore radiofonico e audiovisivo e autore di format, alla rivista DEMOCRAZIA FUTURA, promossa dal gruppo di “Infocivica 4.0” e diretta da Giampiero Gramaglia, a cui seguirà quotidianamente la pubblicazione di tutti gli altri articoli.
Alle origini delle Film Commission
Mentre il 2020 sconvolto dal Covid19; chiude con dati di ascolto dei contenuti audiovisivi in crescita e abbiamo assistito al boom, probabilmente irreversibile, delle videoconferenze, due anniversari, il 50° dalla Fondazione delle Regioni ed il 20° da quella delle Film Commission regionali in Italia, sono quasi passati sotto silenzio.
Vent’anni or sono nasceva il primo “coordinamento nazionale” delle “Commission” del Cinema anche se diverse “agenzie” erano ancora “sperimentali”. Fu il frutto di un impegno dell’Emilia-Romagna a seguito di un Protocollo di Intesa del 1998 con l’Istituto per il Commercio con l’Estero (ICE). A Bologna avevano già dato vita al “primo esperimento”, in splendida solitudine, di una Film Commission quando il Ministro del Commercio con l’Estero del Governo Prodi Augusto Fantozzi, rimasto in carica dal 1996 al 1998, invitava le sedi ICE a promuovere anche il Made in Italy Audiovisivo.
Si incontrarono così due esperienze, quella della Regione con più maestri del Cinema e l’ICE di Los Angeles, nel cuore dell’impero, che aveva aperto lo sportello “Italian Film Commission”. L’impostazione data dall’ICE ed Emilia-Romagna era in sintonia filologica con le Film Commission americane, ed al Coordinamento parteciparono diverse Film Commission espressioni di Comuni, di Province e di Regioni.
La mission era molto orientata sull’attrazione delle produzioni internazionali, che dovevano poi accelerare la formazione delle maestranze e dei talenti locali, rafforzando lo standard professionale per la crescita di produzione autonoma di contenuti. Una strategia, di fatto, saggia e “decentralista”, orientata all’ottimizzazione industriale di tutte “le ricchezze” disponibili sul territorio nazionale.
L’operazione fu molto ridimensionata dal pressing massiccio dei produttori italiani, di entourage ministeriale, che cercavano, nelle Film Commission, non tanto un erogatore di servizi, quanto un intermediario per accedere alle risorse economiche delle Regioni, ovvero denaro aggiuntivo a quello del Ministero dei Beni Culturali e dello Spettacolo e a quello dei broadcaster. Il pressing mirava, di fatto, a sganciare le Film Commission dal rapporto organico con l’ICE e a risucchiarle nella piramide che vedeva al vertice il Mibac. Al fine di responsabilizzare, loro malgrado, le Regioni al ruolo di “finanziatori/soccorritori” del cinema italiano.
Due eventi concorrono a questo scenario: l’attentato nel 2001 delle Torri Gemelle, che azzera per un po’ tutti i voli dagli Stati Uniti, e il Decreto Urbani, del 2004, che riduce dall’80% al 50% la quota di finanziamento del Ministero alle opere cinematografiche.
Le nascenti Film Commission prendono invece come “modello”, per realizzare al meglio le loro aspirazioni, opere coeve o realizzate nel periodo immediatamente precedente quali Il paziente inglese, (1996), Io Ballo da sola (1996) Il Talento di Mr. Ripley (1999) Hannibal (2001), Passion (2004), seguendo la lunga scia, della produzione ad impatto Cineturistico globale, iniziata in Italia nel 1953 di Vacanze Romane.
La ambiguità del modello italiano
A quasi vent’anni da quella stagione si arriva nel 2020 con Fondazione Film Commission Lombardia in prima pagina come “Cronaca giudiziaria”, e poi come oggetto di inchiesta di Report, perché usata come presunto acquirente sciocco e pilotato di un immobile. Ultimo atto di una serie di criticità emerse, assolutamente trasversali. Va detto che quello del “gonfiaggio dei prezzi” da parte dei fornitori della Pubblica Amministrazione è un vecchio problema del “Sistema Pubblico” italiano.
La problematicità è tutta interna al “modello adottato” più che al “tasso etico” della governance umana. Un modello che rende fragile “il dispositivo” di fronte ai difetti tradizionali del modus operandi politico italiano. Ovvero il tema dell’egemonia pubblica e della discrezionalità delle scelte.
La storica confusione sul “modello di Film Commission” vissuto nell’Immaginario degli utenti italiani come “ente erogatore” di finanziamenti è stata purtroppo non completamente dipanata dal “riconoscimento legale” da parte del MIBACT, che definisce, nella recente Legge Cinema, un ruolo delle Regioni nell’attivazione delle Film Commission.
Per fortuna la Legge non parla espressamente di “materia esclusiva”. Ma qualcuno si è sentito autorizzato a dire che è addirittura “illegale” istituire Film Commission di Comuni o Province, o perimetri di Comunità Montane o associazioni Turistico-Rurali di Comuni.
A consolidare la confusione contribuisce, ed ha contribuito negli ultimi 20 anni, l’utilizzo stesso del termine “Film Commission” che è di invenzione tutta statunitense, ed è in California che è nata la rispettiva “associazione mondiale”, in sigla AFCI. E’ l’unico organismo internazionale che ha un decalogo. Criteri ai quali bisogna attenersi per, legittimamente, autonominarsi Film Commission. Altrimenti sì incorre in una tipologia di comportamenti erronei come il “falso ideologico”, il “millantato credito”, e il “conflitto di interessi”. Il decalogo dei criteri AFCI spiega che:
- le Film Commission devono essere pubbliche o a “carattere pubblico”, quindi non necessariamente gestite direttamente dalla Pubblica Amministrazione, ma affidabili ad associazioni no-profit di cittadini.
- devono comunque espletare i servizi agli utenti in modo gratuito;
- non devono essere dirette da management espressione di imprese e di interessi privati nel campo audiovisivo o ad esso collegabile;
- devono comportarsi in modalità “trasparente”, di “pubblica evidenza” ed “equidistanza”.
Circa la presunta illegittimità di Film Commission di aree inferiori alle regioni. va detto che esse, nella versione europea, non possono essere altro che agenzie di sviluppo locale e di marketing territoriale. E come tali non di esclusiva emanazione dell’ente Regione.
In merito ai “comportamenti” elencati al quarto punto va detto che sono comunque già presenti nel lessico giuridico della pubblica amministrazione italiana.È stato molto trendy, venti anni fa, denominarsi con una formula americana.
Ma non si è fatta la dovuta attenzione al dato che quella formula racchiudeva in sé una diversa impostazione del rapporto tra “pubblica amministrazione” e “produzione audiovisiva”. Diversità che esiste da molti anni tra Stati Uniti e Italia. In USA la pubblica amministrazione “non finanza” la produzione audiovisiva, a differenza dell’Italia, dove il finanziamento è fondamentale e strutturale.
In larga parte d’Europa la situazione è molto più chiara
Nel Belgio francofono ad esempio, a partire dal 2003, grazie all’Associazione CINEREGIO, con capofila il Film Fund della Vallonia Wallimage, c’è uno schema di riferimento che separa, o rende separabili, le competenze della Film Commission da quelle dell’agenzia finanziaria Film Fund. Si è creato cosi uno schema delle strumentazioni più razionale.
In altri casi le competenze di offerta servizi e autorizzazioni, tipiche delle Film Commission, sono solo un accessorio del Film Fund. In altre ancora sono spesso compagini totalmente separate.L’Italia partecipò alla nascita di Cineregio con l’allora Provincia di Lecce, e questo ha fatto si che la successiva Film Commission pugliese, la AFC, avesse un esplicito Film Fund (tra i meglio articolati d’Italia) anche se convive in una Fondazione con funzioni di Ente Culturale.
Mettiamo da parte, per un attimo, l’analisi comparativa tra Italia e Paesi organicamente federali come Spagna e Germania, ed esaminiamo il confronto con la Francia. In Francia il finanziamento centrale non è gestito direttamente dal Ministero ma da una agenzia specifica che è il Centre National de Cinématographie (CNC).
ùQuesto rende più facile il rapporto con le agenzie culturali regionali e i Film Fund. Il Film Fund della regione di Parigi “Ile de France” eroga circa 14 milioni di euro l’anno a fondo perduto. Caricandosi compiti culturali, affiancati al CNC, di tutela e promozione della lingua francese, anche fuori dai confini dell’Esagono.
Da segnalare la risposta competitiva di Auverge-Rhone Alpes Cinema e di Pictanovo (Picardia e Nord Pas-de-Calais) esempi di agenzie finanziarie o Film Fund che entrano in coproduzione e, reinvestendo i ricavati, moltiplicano il loro impatto.
Quello che prevale in Italia, ovvero il Cash Rebate (rimborso in percentuale dei soldi spesi nel perimetro regionale), non risulta dominante in Francia, dove sono prioritarie la qualità e la forza sui mercati delle opere cinematografiche, ispirate alla storica “tensione” Oltralpe verso il concetto di identità culturale francese e verso il ruolo dei talenti e dei produttori locali. Elementi sempre tenuti in considerazione anche nel caso in cui il film è ambientato all’80% nelle Isole Eolie e lì girati gli esterni.
Nel sistema di Auvergne Rhone-Alpes Cinéma è attivo il villaggio digitale “Pole Pixel” di Lione, centro di produzione del Cartoon “La mia vita da zucchina” Premio Oscar 2017. Pole Pixel non è un TechPark pubblico, sono pubblici solo gli immobili e una parte delle infrastrutture, mentre il tutto viene utilizzato in stretta associazione con i privati.
C’era una volta il Centro Multimediale di Terni…
In Italia il quadro è ben diverso: quella degli Studios, dei Cineporti e dei Virtual/Reality Park è una vecchia idea che circola da quando le Film Commission italiane sono nate nasce prima, se facciamo riferimento al Virtual Reality Park di Torino o al Centro Multimediale di Terni. Non emergendo purtroppo in Italia la razionale scelta di entrare in coproduzione nei territori con gli stessi “Parchi Digitali”, tali infrastrutture rischiano di non avere le risorse per aggiornare i propri impianti tecnologici e restare competitive.
Il Centro Multimediale di Terni – come gli Studios torinesi della fu soap “Centovetrine” – è nato su pressione politica per il riutilizzo di ex-spazi manifatturieri e, comunque, nella scia di spinte verso il decentramento che si sono progressivamente manifestate in Italia, intrecciandosi nella fattispecie con quattro fenomeni:
- le riforme istituzionali che hanno aumentato il potere degli Enti locali,
- l’avvio dei fondi europei destinati alle politiche regionali di sviluppo e coesione, in particolare i Fondi Europei di Sviluppo Regionale (FESR), dai quali il finanziamento per i Film Fund di diverse Film Commission, e per nuovi interventi immobiliari, o riconversioni immobiliari, destinati alle imprese di innovazione; e ai “Parchi Tecnologici” fioriti un po’ ovunque, questi ultimi destinati, secondo la Mission europea, a democratizzare le opportunità occupazionali “locali” per i giovani che completavano la carriera formativa, ma esterni alle grandi metropoli;
- la “democratizzazione tecnologica” che ha permesso progressivamente di accedere alla strumentazione produttiva, riducendo le barriere tra classi sociali e tra territori
- il decentramento formativo, realizzato principalmente con la moltiplicazione delle circa 20 sedi DAMS e delle circa 35 facoltà di Scienze della Comunicazione sparse per l’Italia, cui si aggiungono i 54 Conservatori di Musica in gran parte preesistenti, in altrettante città italiane. Tutte imprese formative con migliaia di iscritti e diplomati che diventano “domanda esponenziale di decentramento e di estensione di opportunità”.
Va detto a margine che questi quattro fenomeni concomitanti hanno influito minimamente in Italia sul servizio pubblico radiotelevisivo che, nell’insieme della sua estensione a tutte le Regioni e nell’organizzazione del suo palinsesto, è rimasto abbastanza statico. Al punto che possiamo legittimamente sostenere che territori regionali che sviluppano una grande mole di domanda occupazionale con una proporzionata produzione di talenti, trovano, nella principale industria culturale del Paese, praticamente le “porte chiuse”.
I doveri verso l’Unione europea, e i Patti di Stabilità, combinati con quote di irrazionalità nella modalità pubblica di erogazione delle risorse nella nostra Penisola, impongono sempre di più che le risorse per la produzione culturale, siano sostenute anche dal mercato. E non solo dal mercato interno ma da un mercato “internazionale”. Il confronto competitivo, nella stessa Europa, con territori regionali di analoghe dimensioni e popolazione è, per alcune regioni italiane, assolutamente perdente:
- sul piano dell’impegno dei servizi pubblici radiotelevisivi per la produzione e diffusione in ambito territoriale, e trovando nei numerosi Festival, emersi in tutta la Penisola, la sede di prima verifica con il pubblico;
- sul piano linguistico a fronte di altri Paesi membri dell’Unione europea che parlano lingue intercontinentali (inglese, francese, spagnolo, portoghese) o comunque lingue intereuropee (come il tedesco). L’Italiano sotto questo profilo costituisce di fatto un caso analogo a quello del polacco.
Per un prodotto audiovisivo italiano non è facile raggiungere il “privilegio” dell’Irlanda che pur disponendo di un numero di abitanti inferiore alla Campania raggiunge, in presa diretta, Stati Uniti Commonwealth, e tutti coloro che nel mondo hanno dimestichezza con l’English Fluent. Né competere con la Spagna che dispone di un mercato iberico americano di 500 milioni di ispanofoni.
E’ forse quindi più facile rafforzare la propria potenza competitiva internazionale lavorando sulla massa critica diffusa nei territori, trasformando “i talenti” in fattore industriale efficace, creando sinergie, ottimizzazioni e dando una regia ai vari “poli tecnologici” nati senza strategia e mai sviluppando “lavoro di rete industriale”. Ma soprattutto adeguare lo Storytelling ad un mercato più internazionale. Giocando le diverse carte dei beni culturali, del Made in Italy, delle Religioni, dell’emigrazione italiana intercontinentale.
Ridefinire – prima che sia troppo tardi – il presidio produttivo audiovisivo dei territori
Quindi occorre modernizzare il “sistema Regionale della RAI” per farlo diventare, insieme alle Film Commission e ai Film Fund, un fattore di forza industriale per l’Internazionalizzazione. Prima che sia troppo tardi. La produzione dei contenuti nelle sedi regionali dopo la prima stagione sperimentale della Terza Rete televisiva dalla seconda metà degli anni Ottanta è rimasta limitata alla produzione delle notizie dei TG realizzati nelle sedi regionali dalla TGR, di alcune rubriche o rotocalchi settimanali trasmessi in ambito regionale, o destinati al Palinsesto nazionale curato dalla stessa testata su RaiTre, oltre alle solite storiche rubriche dalla sede di Corso Sempione a Milano, e alla serie fiction “Un posto al Sole” realizzata dal Centro di Produzione di Napoli.
Se si osserva con occhi pragmatici che il TGR è una fra le più grandi testate d’Europa con 850 giornalisti, emerge un evidente “illogico industriale”. Infatti intorno ad 850 giornalisti, radicati nei territori, sarebbe possibile creare un sistema editoriale con una potente offerta di contenuti. Essa crescerebbe come ramificazione dal “tronco solido” della Redazione che realizza giornali radio e telegionali, producendo economia attraverso la raccolta pubblicitaria su scala regionale e locale (purché autorizzata dal legislatore) e la vendita non solo in ambito nazionale, ma anche su scala internazionale dei propri prodotti audiovisivi. Creando un sistema misto anche su scala locale.
L’emittenza radiotelevisiva privata, nelle regioni, è molto cambiata. Il lockdown ha visto aumentare notevolmente il consumo televisivo. Il temuto abbandono totale dell’emittenza locale a favore dei Social Media non può essere considerato, almeno nel breve medio termine, una tendenza ineludibile né irreversibile. Probabilmente – come altrove in Europa – cresce la domanda di informazione di prossimità e cresce il desiderio di “valutazioni comparative” tra più testate.
Mettere in sinergia strategica i social media e le altre imprese che operano nella comunicazione
In questi ultimi cinquant’anni, Il rapporto tra evoluzione tecnologica ed economia dei consumi di massa si è intrecciato sempre di più con la domanda di “autodeterminazione” e protagonismo territoriale di tipo “Politico Amministrativo”. Nell’era analogica la pubblica amministrazione aveva un grande potere contrattuale perché si potevano trasmettere contenuti solo grazie al suo “potere autorizzativo”. C’è però stato, ad un certo punto, con l’inarrestabile evoluzione verso la cablatura, un tentativo di trasformazione da Azienda Pubblica “Territoriale” di Utilities ad Azienda Pubblica “Territoriale” di Telecomunicazioni. Come nel caso di Fastweb, evoluzione di Metroweb, nata dalla cablatura ottica della Rete Gas e Luce di AEM Milano (poi A2A). La sua ben nota “privatizzazione” ha impedito l’evoluzione del “Modello”. Di fatto replicabile, con medesima o maggiore facilità, in Regioni dove sono presenti capillari reti ferroviarie locali e acquedotti pubblici. Ma il tema potrebbe ritornare di attualità con l’Autonomia Differenziata.
Oggi l’industria della comunicazione e di “trasferimento di contenuti” si fonda su algoritmi ed importanti dimensioni di numero di contatti. Ed una azienda globale che produce beni di largo consumo, come per esempio la Ferrero, possiede dei “numeri contatto” sei volte superiori a quelli dei broadcaster a favore dei quali eroga investimenti pubblicitari. Se davvero lo volesse, con una piccola parte dei suoi utili, la Ferrero diventerebbe più potente di qualsiasi altra impresa di comunicazione operante ad Alba dove ha la sede legale e gli impianti di produzione.
Questo in ogni caso potrebbe aprire una opportunità per i territori e per la modernizzazione della RAI nei territori medesimi. Il Covid19 ha messo in crisi l’economia dei “flussi fisici di persone”. In un’Italia che non possiede multinazionali dell’algoritmo o dei beni digitali, ai produttori di beni materici di largo consumo sono affidate molte chance di tenuta del sistema attraverso l’e-commerce. I territori potrebbero essere il luogo dove il bisogno del valore aggiunto della comunicazione per l’internazionalizzazione della produzione materica si incontra con la maturata consapevolezza che dar vita ad un moderno servizio pubblico mediale vuol dire anche mettersi al servizio dell’estensione delle opportunità economiche e sociali, da un lato, e della valorizzazione di tutti i talenti professionali, dall’altro.