Italia
Attesa per l’evento di domani, 10 maggio, quando a Roma alle ore 18,00 (presso la sede Agis/Anec in via di Villa Patrizi, 10) verrà presentato l’eBook “Blowin’in the Web. L’industria della musica alla prova del web“.
L’autore del libro è Giandomenico Celata, economista dell’Università Sapienza di Roma che da tempo collabora con Agis/Anec, che raccoglie e illustra i più importanti modelli econometrici che hanno valutato l’impatto della cosiddetta pirateria da file-sharing, cioè lo scambio online di file musicali tra gli utenti in violazione delle norme sul diritto d’autore.
Introduce e modera Francesco Soro (Corecom), ne discutono con l’autore: Ernesto Assante (La Repubblica); Richard Borg (Universal, NBC); Attilio Celant (Sapienza Università di Roma); Giampaolo Letta (Medusa Film); Alberto Marinelli (Sapienza Università di Roma);
Paolo Protti (Anec, Agis). Parteciperà l’editore Raffaele Barberio (Key4Biz, ebook.it).
Ciò che è accaduto nella musica con internet e la pirateria può insegnare qualcosa all’industria del cinema? Cosa sta accadendo in Italia e nel mondo?
Nell’incontro di domani si partirà dalle posizione dell’autore Giandomenico Celata per aprire un ampio dibattito sulla questione della pirateria. Focus quindi sul processo di digitalizzazione che sta investendo tutta la filiera cinematografica: dalla produzione all’esercizio.
Introduzione
La rincorsa dell’Industria della Musica
L’economia della musica, così come quella degli altri media, è sempre stata fortemente intrecciata con l’evoluzione delle tecnologie. La comprensione di questo intreccio è decisiva per capire il mercato della musica, la sua evoluzione, le sue prospettive, dal lato dell’offerta, della domanda e del consumo. La musica si distingue rispetto agli altri media innanzitutto per il suo linguaggio che, per natura propria, si fa comprendere al di là dei singoli alfabeti, rendendosi così universale. La musica, difatti, ha una doppia valenza. Da un lato è espressione di ciascuna cultura locale, costituendo il legame e l’identità stessa delle singole comunità. Dall’altro, esprimendo suggestioni e sensibilità comuni agli umani ovunque siano insediati e qualunque sia la storia che li distingue, si pone in termini globali.
Questa valenza si esalta nella specificità del prodotto musicale: a differenza di altri media è facilmente trasportabile, può superare agevolmente le barriere geografiche e politiche ed è ubiquo. Nel senso che può prodursi e consumarsi pressoché ovunque e nello stesso tempo. Non solo, ma la sua fruizione, a differenza di quella di altri media, non consuma tempo. Si può sentire musica e, nella stragrande maggioranza dei casi, svolgere nel contempo altre attività. Gli altri media, si pensi alla televisione, al cinema, alla lettura di un libro, di una rivista, di un quotidiano, sono invece divoratori di tempo che sottraggono, per forza di cose, ad altre utilizzazioni. Quindi, il consumo di musica non ha un costo opportunità, nel senso che non sottrae la possibilità al consumatore di svolgere attività da cui ricavare un valore d’uso o di scambio, secondo i casi.
Questi aspetti specifici del prodotto musicale sembrano, a una lettura superficiale, renderlo fragile e inconsistente. Al contrario, hanno operato esattamente nella direzione opposta: l’hanno reso tale da permeare e accompagnare il tempo degli umani come nessun altro media. In questo sta la sua pervasività, e quindi la sua capacità di taggare le sensibilità, gli stati d’animo, le fasi della vita di ciascuno di noi, diversi tempi della nostra esistenza.
Universalità, ubiquità, pervasività e intimità con ognuno di noi hanno fatto sì che, nello svolgersi della storia dei media, i percorsi del prodotto musicale abbiano sempre indicato le strade che gli altri prodotti media avrebbero successivamente seguito. Questa capacità predittiva, premonitrice, così come avviene purtroppo anche per altri insegnamenti della storia, più pesanti e gravidi di conseguenze per le vicende di tutti noi, viene usualmente sprecata dalle altre industria media.
Le reazioni che si colgono, ormai da tempo, nell’industria media per effetto dell’irruzione di Internet e del web, cioè delle tecnologie digitali che più caratterizzano la nostra epoca, ne sono un segno evidente. Invece di imparare dall’esperienza della musica ci si attarda a inutili resistenze, a ergere fragili maginot destinate ad essere scavalcate.
La musica per prima ha affrontato i cambiamenti imposti dalla diffusione di Internet e dalle applicazioni rese possibili dal web. La possibilità della musica di trasformarsi in bit, la capacità di un brano di essere compresso in pochi spazi digitali e quindi la sua trasportabilità su banda larga, l’hanno resa il terreno più e immediatamente fertile per l’applicazione delle nuove tecnologie. Questa situazione è stata prima patita dall’industria della musica che, però, ha ormai tutte le possibilità di trovare la strada per trasformare le criticità indotte dal digitale in opportunità di mercato. E nelle sue parti decisive lo sta facendo, in ritardo, ma lo sta facendo. Questo ha già comportato e comporterà ancora cambiamenti negli assetti industriali, nella filiera produttiva, nei modi dell’industria di rapportarsi con il consumatore. Perché la grande opportunità delle nuove tecnologie è quella di dare al consumatore la possibilità di riappropriarsi della sovranità perduta e, nello stesso tempo, di dare alle imprese la possibilità di leggere questi tracciati e interpretarli. Sovranità preziosa dal lato dei prezzi in un mercato dominato da un oligopolio composto da quattro grandi major: Universal Music Group, Sony BMG Music Entertainment, EMI Group e Warner Music Group, che insieme detengono più del 75% del mercato musicale mondiale. Ma anche per le industrie nel loro complesso perché aumenta il livello di concorrenza.
In Italia la situazione, come sempre, è più semplice e complessa nello stesso tempo. L’industria discografica è composta da poco più di mille aziende che si dividono in due mercati distinti: da un lato quello più stabile e concentrato delle quattro grandi; dall’altro quello più concorrenziale e con un alto tasso di natalità/mortalità, delle etichette indipendenti, che comprende imprese di varie dimensioni, alcune di significativo successo.
La discografia è un business ad alto rischio di impresa perché richiede notevoli investimenti in nuovi artisti e repertorio. Mediamente le case discografiche investono il 12-13% del proprio fatturato in R&S. Una delle percentuali più elevate se confrontata con altri settori industriali. Solo una piccola parte dei prodotti riscuote un successo tale da recuperare l’investimento e anche da riuscire a finanziare i mancati guadagni del resto della produzione: secondo alcune stime, dei circa 30 mila album realizzati annualmente solo il 10% consente tale redditività (…).