La pandemia ha travolto tutti in maniera traumatica e globale, costringendoci ad adottare misure emergenziali che stentano a diventare quotidianità. Numerose sono state le “profezie” dai toni più disparati, accomunate da un vago “Nulla sarà più come prima. Non si tornerà alla normalità”.
Ma fino a che punto, prima dell’avvento del virus eravamo davvero consapevoli di quali vite vivessimo? L’emergenza ha costretto tutti a rimodulare il passo, determinando così un’accelerazione digitale globale, un incremento digitale. Eppure, le riunioni di lavoro su piattaforme di Google, sono davvero una novità senza precedenti? Una chat di gruppo di Whatsapp con i suoi spin-off, è forse qualcosa di così estraneo?
In concreto, tutto quello che possiamo fare di veramente innovativo in questa pandemia, è prepararci ad affrontare meglio la prossima.
Lo straniamento, le difficoltà di coloro che hanno sempre avuto poca dimestichezza e nessuna fiducia nei mezzi tecnologici dai quali si è sentita coattivamente traumatizzata, sarebbero in questo senso ridefinite all’interno di più ponderate prese di coscienza, che facilitano un avvicinamento più proficuo nei confronti del digitale.
Per reagire costruttivamente all’irruzione di questo evento pandemico non è necessario ricorrere a provvedimenti e strategie emergenziali, occorre piuttosto immaginare un processo complessivo da parte della società. Dobbiamo convincere, cioè vincere insieme e dobbiamo adottare una visione.
Tutto questo è ben rappresentato dall’opera di Valeria Manfredda intitolata Penelope (2018), realizzata con fibra ottica illuminata e annodata a mano su un telaio, si ripropone una sintesi visiva e concettuale della nuova intelligenza sociale, quella connettiva. Come nel telaio omerico, una parte della trama è lasciata sciolta, non ancora annodata e tessuta, passibile del farsi e disfarsi, così continuamente in atto come l’intelligenza connettiva.
L’opera ci ricorda che siamo tessuto sociale, ciascun nodo frutto dell’incrocio di due, crocevia di pratiche e saperi, di culture e linguaggi che danno vita al mondo, al lavoro, cornice e contenuto.
Pertanto, quello di cui abbiamo bisogno oggi è un acceleratore di visione, di una missione, frutto di un’eredità culturale da parte dell’organizzazione lavorativa ed economica.
Nel mondo del lavoro, in questa pandemia hanno resistito coloro che hanno avuto accesso alle piattaforme digitali, a differenza di quelle attività “fisiche” che hanno subito fortissime ripercussioni. Così, persino la psicanalisi e la psicoterapia si sono riorganizzate con la remotizzazione. Pertanto è importante riconsiderare la digitalizzazione quale strumento essenziale anche per i lavori che richiedono attività fisiche e del corpo, attraverso la creazione di siti e di consegne a domicilio, che possano permettere un nuovo futuro a queste attività.
Impossibile dimenticare la formazione e il mondo dell’istruzione. Bisogna tra i due però rammentarne la differenza e in questo senso chiare appaiono le parole di Platone, che nel dialogo Le Leggi avvertiva: “la formazione può avvenire solo e soltanto in presenza dei corpi. Ciascuno di noi è altro per qualcuno”.
E questo qualcuno ci insegna i nostri limiti. Così tra le mura scolastiche, la classe diventa una piccola città che permette agli alunni e agli studenti di diventare ‘urbani’, beneducati e rispettosi dell’altro. La didattica a distanza ha determinato, un nuovo modo di concepire l’istruzione: in un’ottica di reciprocità, se l’insegnante si mostra nel video mentre spiega, gli allievi dovranno farlo mentre ascoltano. Spegnere la funzione ‘video’ durante una lezione da remoto significa infatti costringere i docenti a interloquire con una finestra nera, riducendoli a meri emettitori di dati, disumanizzandoli, impoverendoli. E così il collegamento online di per sé, in assenza di altre possibilità, permette di continuare a educare.
In una società al passo con i tempi, è fondamentale unire insieme hard e soft skill, non dovranno più esistere analfabeti digitali, ma andranno forniti gli strumenti conoscitivi, così come impariamo le lettere dell’alfabeto e i numeri da bambini, dovremo poter usare i mezzi digitali.
D’altronde, nell’uomo coesistono sempre virtuale e reale. Lo è il ricordo, lo è il sogno, lo è il progetto, lo è ogni produzione mentale priva di un riferimento immediato nel reale. Lo è la parola stessa e lo è il libro, che parla senza la voce dell’autore e da sempre attraversa lo spazio e il tempo.
Oggi dobbiamo solo prenderne coscienza in maniera più tangibile. Dobbiamo immaginare, condividendo e confrontando visioni, spunti, dati, stimoli, bisogni, un nuovo modo di abitare pubblico e privato. Nell’era dello smart working, occorrerà riformare e riadattare gli spazi, così i soggiorni delle case diventano sale riunione, uffici, aule scolastiche e universitarie. Un Rinascimento che permette di rimodulare e riconfigurare il nostro modo di pensare.
E così anche le città dovranno diventare smart e dislocarsi nei borghi abbandonati, che solo grazie alla connessione web potranno tornare a ripopolarsi, tutelando la propria bellezza millenaria. La trasformazione digitale sarà uno strumento importante per alleviare i centri urbani dalla logica dei quartieri dormitorio, dal sovraffollamento dei mezzi trasporto, dall’inquinamento. Un’opportunità per ricostruire una cultura del lavoro sostenibile, che ruota intorno alle persone.
Anche la forestazione urbana non si dovrà limitarsi ad essere solo arredo, ma diventerà qualità della vita, resa a sua volta possibile da modalità alternative di lavoro e abitazione.
Interi territori e nuclei abitativi potranno tornare ad essere promotori di nuova etica e dignità. Inoltre, nessun recupero sarà possibile senza una diffusione di connettività (di cui il 5G è l’opzione concreta già disponibile e percorribile) e senza una formazione che parta dai primi anni di scolarità, che renda autonomo e capace di gestione dei mezzi tecnologici chi sceglie di vivere lontano, ma connesso alla capitale, ai capoluoghi, alle città industrializzate.