Il periodo pandemico che stiamo vivendo pone non solo interrogativi e sfide di tipo sanitario, ma ci impone – come Società Civile, Istituzioni, forze Politiche, tessuto produttivo – una profonda riflessione sul necessario cambio di paradigma nel nostro modo di vivere e rapportarci (con e) nelle nostre comunità.
Cambierà cioè radicalmente – una volta tornati alla “normalità” – il nostro approccio alla trasformazione digitale di tutti i settori e servizi alla popolazione, ad iniziare dai servizi sanitari, tele-monitoraggio / medicina, ecc. Trasformazione digitale non più strumento di miglioramento della qualità della vita, ma nuovo modello di vita.
D’altra parte, appare ormai evidente come un reale ritorno alla normalità dalla pandemia potrà verificarsi solo con la disponibilità di un efficace vaccino somministrato a tutti – a pena di continue ondate di contagi di ritorno.
Per i Paesi avanzati si parla di almeno 12÷15 mesi per vaccinazioni di massa, mentre gli altri vedranno probabilmente tempi molto più lunghi. Nel frattempo, dovremo convivere con il virus realisticamente per tutto il 2020 (se non 2021), e prevedere processi organizzativi e procedure sanitarie di convivenza con la pandemia, utilizzando decision support systems (DSS) con l’utilizzo di moderne information & communication technologies (ICT) per il monitoraggio e il contrasto al virus. Da sottolineare la funzione di “supporto alle decisioni” (umane), ponendo estrema attenzione a che non diventino strumenti di scarico di responsabilità (o peggio di supremazia assoluta dell’”algoritmo”) rispetto alle necessarie cautele di confidenzialità e tutela della dignità / dati sensibili delle persone.
L’app Immuni
A fronte delle discussioni generate dalla app Immuni, riteniamo però necessaria una riflessione organica allargata a tutti gli aspetti della questione. Occorrerebbe definire obiettivi, ruoli e requisiti di tali tecnologie di tracciamento all’interno di un processo organizzativo complessivo di contrasto al Covid-19 e ristoro delle condizioni di sicurezza (sanitaria, economica e sociale) nel rispetto dei principî di libertà, democrazia e convivenza civile.
In altri termini, si ha l’impressione che si sia partiti non da un “progetto” top down organico in tal senso, che individui con realismo e concretezza tutti i termini del problema (situazione oggettiva, previsioni / obiettivi realistici, margini di aleatorietà, strumenti a disposizione, vincoli burocratici, fattore tempo, … ) da cui derivare requisiti / specifiche di app e/o altri strumenti tecnologici, ma sostanzialmente il contrario. Sia stata cioè posta molta enfasi su supposte capacità “salvifiche“ di una app (al momento identificata in Immuni) da cui partire, ipotizzando che possa risolvere il problema complessivo (“bottom up”), con tutti i suoi interrogativi.
Andrebbe viceversa approfondito lo scenario complessivo – sostanzialmente organizzativo, sia dal punto di vista sanitario che di sostenibilità socio-economica -, approfondendo i processi operativi e la compatibilità con infrastrutture, strumenti, tempi, salvaguardia dei principi democratici (a cominciare dalla protezione dei dati personali).
Non bisogna infatti dimenticare come, a fronte delle grandi aspettative per un utilizzo efficace delle tecnologie digitali di contrasto alla pandemia, i Paesi che per primi hanno affrontato il virus (Cina, Corea del Sud, Singapore, …) hanno fatto uso tempestivo di dispositivi digitali già largamente diffusi e utilizzati prima della pandemia, in (discutibili) condizioni di rispetto dei diritti fondamentali tutti da verificare. Infatti, l’uso del “contact tracing” è avvenuto già dalla Fase 1, portando a delimitare e sigillare più o meno ermeticamente – con criteri e modalità talvolta difficilmente accettabili per la libertà e la dignità delle persone – i focolai di potenziale contagio. La cui individuazione ha però coinvolto una mole enorme di tamponi a tappeto (talvolta anche contro la volontà degli interessati) per scovare anche gli asintomatici.
L’evoluzione comunque sostanzialmente positiva della situazione sanitaria in quei Paesi, dovuta come detto all’insieme delle misure sanitarie dispiegate (in cui il fattore umano e organizzativo, più che le tecnologie di supporto, è in grado di fare la differenza) ha contribuito a sopravvalutare in Europa le aspettative positive dalla disponibilità di sistemi di tracciamento digitale. Ed è in questo contesto che anche in Italia si sta discutendo – più che realizzando – di una applicazione nazionale per il tracciamento del contagio, le cui funzioni e caratteristiche operative non sono adeguatamente conosciute e attentamente valutate. Da quanto si sa, a domande sui dettagli di funzionamento, gli sviluppatori intervistati rispondono “come fare questo, dovrà dircelo il Governo”, il che vorrebbe dire che l’applicazione non c’è ancora ovvero è un’applicazione esistente sulla quale inserire una serie di “patch” per adattarla alla bisogna.
In un successivo articolo entreremo nel dettaglio tecnico di come dovrebbe funzionare una applicazione di questo genere, con quali protocolli e meccanismi di sicurezza e protezione dati. Diamo quindi al momento per scontato che questa applicazione verrà sviluppata nel migliore dei modi, in termini sia di efficacia nel contenimento della pandemia che di garanzia della privacy.
Le problematiche
Resta il problema centrale dell’efficacia di una tale app nelle condizioni date di organizzazione e protocolli sanitari, insieme agli strumenti di prevenzione e cura attualmente e prevedibilmente disponibili. Non si tratta infatti solo di garantire, anche in un contesto di emergenza sanitaria, diritti fondamentali legati alla protezione dei dati personali sensibili, ma soprattutto di analizzare le condizioni organizzative che possano rendere utili questi dispositivi e le conseguenze sociali che possono derivare dal loro utilizzo e generare ulteriori e inedite forme di disuguaglianza. Il divario digitale “culturale” (scarso uso di smartphone / internet da parte di settori disagiati della popolazione), se non quello infrastrutturale (oggettivamente sostanzialmente risolto in gran parte del Paese), rischia infatti di emarginare le fasce sociali più deboli da qualunque misura basata sulla tecnologia digitale.
La valutazione dell’impatto complessivo, soprattutto in termini di relazioni sociali oltre che di efficacia operativa in termini di costi-benefici, dovrebbe precedere l’effettiva adozione di qualsiasi ipotesi realizzativa. Mai come in questo caso ogni realizzazione tecnologica è anche progettazione dell’organizzazione sociale che da essa viene abilitata.
L’app dovrebbe possedere sia l’informazione sulla quantità di contatti avvenuti con una o più persone risultate positive, sia la durata di questi contatti. Su queste basi e su un modello definito e dinamico, l’app potrebbe seguire e supportare il singolo utente nell’evolversi dell’evento e consigliarlo sul come comportarsi. Isolarsi e monitorare autonomamente i propri parametri ed i sintomi più comuni? Richiedere un consulto al proprio medico di base? Nei casi più concreti, richiedere il famoso tampone? L’app potrebbe quindi essere di supporto sostanzialmente come strumento di screening, sempre sotto il controllo del proprio medico e dei Servizi Sanitari.
Per capire quanto sia complicata la questione se svincolata dal contesto operativo che tenga conto di tutte le variabili – organizzative, sanitarie, tecnologiche e soprattutto umane – basta osservare quanto accaduto in Australia a fine Aprile, quando oltre un milione di persone hanno scaricato CoViDSafe. È stato fin da subito evidente come ci fossero problemi di risultati potenzialmente falsati (positivi o negativi), di necessità di reminder governativi di attivare l’app almeno ogni mattina (con massicce intrusioni da “grande fratello”), ecc. Il problema nasce (anche) dal fatto che il governo Australiano non ha atteso soluzioni tecnologiche interoperabili globali ma ha imitato l’approccio di Singapore, uno dei primi Stati a dotarsi di una app di contact tracing. Questa è però risultata non molto efficace (anche a causa della scarsa utilizzazione che non è stata in grado di rilevare svariati contagi), e oggi si percepisce siano alle prese con problemi di si o no al lockdown inizialmente evitato.
In Europa, in accordo con le linee guida del Comitato europeo per la protezione dei dati, Organo europeo indipendente per la promozione della cooperazione tra le Autorità competenti nazionali e l’applicazione coerente delle norme sulla protezione dei dati nell’UE, ogni soluzione tecnologica deve essere compliant con il Regolamento GDPR e la direttiva sulla protezione dei dati personali (e-Privacy). Restano comunque in primo piano i problemi di proprietà e gestione dei dati raccolti sui comportamenti della popolazione, specialmente in presenza di una (non ancora dimostrata) efficacia sanitaria ex-post a fronte della cessione di dati sensibili ex-ante, non si sa bene a chi e come gestiti — nonostante le (comprensibili) rassicurazioni governative.
Ed è altresì fondamentale che la soluzione tecnologica sia interoperabile con eventuali altre app sviluppate a livello sia europeo che nazionale o regionale. Cosa succederebbe altrimenti a chi viaggia? Si dovrebbe dotare di una diversa app per ogni Regione / Paese visitati? Una soluzione standard comune o almeno interoperabile con altri sistemi sarebbe altamente auspicabile (oltre che per efficacia statistica ed economie di scala), al posto dell’ordine sparso in cui si stanno muovendo attualmente i singoli Paesi, e addirittura Regioni e Comuni. In Austria ci sono due app (“Stopp Corona” e “NOVID20”), in Germania “GeoHealthApp”; in Spagna “CoronaMadrid”, ecc. In Italia, diverse Regioni hanno realizzato la loro app, e siamo in attesa di Immuni, sulla quale si sono rincorse varie notizie sul come verrà implementata. Sembra ci si stia orientando verso la soluzione Decentralised Privacy-Preserving Proximity Tracing (DP-3T), integrata con il sistema Apple-Google — su cui circolano news non proprio rassicuranti.
Troppe soluzioni = nessuna soluzione? No, la tecnologia è fondamentale in supporto alle decisioni, ma il dispiegamento di una efficace soluzione tecnologica non dovrebbe partire dalla coda (app) ma eventualmente arrivare ad essa, progettandola in maniera quanto più possibile interoperabile alla fine di un rigoroso processo di approfondimento (top down) di TUTTI gli aspetti del problema — sanitari, organizzativi giuridici, socio-economici e soprattutto umani.
Ad esempio, si potrebbe ragionare su un sistema (alternativo o sinergico) di bio-sorveglianza tipo il Digital Enabler della Regione Veneto, piattaforma di analisi big data che consente di integrare dati territoriali da varie fonti — laboratori di analisi (tamponi), occasioni e luoghi di possibile incontro (lavoro, scuole, mobilità, …), ecc. I dati già disponibili alle P.A. locali (ad es. anagrafici) insieme ad altri rilevati permettono di ricostruire in tempo reale relazioni e probabili contatti, da cui derivare una mappa dinamica dell’epidemia, con accuratezza territoriale definibile a piacere secondo le esigenze. In questo caso, la tecnologia gioca un ruolo fondamentale di supporto alle decisioni (DSS) delle Autorità preposte (sanitarie e amministrative), consentendo di delimitare aree di possibili focolai, effettuare test di massa, isolamenti e quarantene, analisi ed elaborazioni statistiche, … in maniera potenzialmente meno intrusiva (ancorché comunque in presenza di profilature big data) del contact tracing.
A questa ipotesi si potrebbero poi aggiungere altri strumenti ed opzioni che aiutino la ripresa delle attività produttive – tutte da verificare ovviamente dal punto di vista privacy e tutela delle libertà fondamentali. Ad esempio, è istruttivo quanto sembra verrà attivato in Svizzera per un accesso controllato ai bar e ristoranti. Sarebbe previsto avere nome e telefono di ogni singolo avventore, per poi poterlo avvisare di un eventuale possibile contatto.
Nei luoghi pubblici potrebbero essere attivate delle apparecchiature capaci di recepire i codici temporanei degli avventori, per tracciare meglio i possibili contatti. In un locale forse non ci si è avvicinati troppo a quella persona che si scoprirà successivamente come positiva, ma è possibile che all’interno di questo ambiente si possano utilizzare in tempi diversi le stesse strutture — ad es. lo stesso bagno. Anche autobus e vagoni di treni e metropolitane potrebbero essere attrezzate in questa modalità.
Un ulteriore utilizzo di queste apparecchiature potrebbe essere quello di verificare in tempo reale, tramite uno scambio dati con l’app, lo status della singola persona. Una persona che risulti dall’app come positiva o con quarantena in atto, non dovrebbe poter accedere a luoghi pubblici (e neppure uscire dall’isolamento). Ancora una volta, con interrogativi e impatti operativi tutti da verificare dal punto di vista privacy e tutela delle libertà fondamentali.
In sintesi, per poter disporre di una soluzione / app efficace, occorre prima aver tenuto conto della situazione operativa reale ed aver preparato il sistema sanitario a gestire questo passaggio decisivo e imponente. Altrimenti, si corre il serio rischio di una soluzione inefficace – se non controproducente per via dei falsi positivi o negativi, contagiati asintomatici, ecc. Gli USA avrebbero pianificato l’assunzione di 150.000 “tracciatori” umani (telefonate, contact center, telediagnosi, ecc. per monitoraggio diffusione / focolai, analisi ed elaborazioni statistiche, …) supportati da sistemi DSS piuttosto che ricorrere esclusivamente ad app di contact tracing. Così come il Belgio, che ha preferito concentrarsi sul tracciamento umano piuttosto che quello tecnologico, anche sulla base dello scarso numero stimato di utenti che scaricherebbero e utilizzerebbero la app, sulla scorta di analoghe esperienze in altri Paesi — ad es. l’Austria, con solo 4,5% di tasso di utilizzo nonostante le due app disponibili.
La gestione dei dati
Temi come quanti tamponi siano necessari / possibili realisticamente, quanto a lungo tenere chiusi o semideserti stadi di calcio, teatri e cinema, eventi musicali pubblici, … in assenza di un vaccino sono comunque da affrontare e risolvere indipendentemente dall’utilizzo o meno di ausili tecnologici, se del caso mantenendo una serie di limitazioni alla vita di tutti i giorni per ragioni di emergenza pubblica, come stabilito dall’art. 16 della nostra Costituzione (“Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”).
Il tema della gestione dei dati privati è invece indubbiamente importante e di pertinenza di qualsiasi soluzione tecnologica, ma ci si dovrebbe chiedere se uno Stato non sia obbligato ad agire in presenza di un cittadino che risulti portatore ufficiale di un virus altamente infettivo e pericoloso per la salute pubblica. Infine, tutta la tecnologia, le linee guida, le app, ecc. sono sicuramente secondari rispetto ad una precisa progettazione di tutto l’edificio del sistema di controllo sanitario, di cui ogni soluzione tecnologica / app di contact tracing è semplicemente un “building block” di supporto alle decisioni umane.
(Le considerazioni sopra ripotate riflettono le opinioni degli autori e non necessariamente quelle delle organizzazioni di appartenenza).
Articolo a firma di Fulvio Ananasso, Presidente di Stati Generali dell’Innovazione e Consigliere CDTI e Sandro Fontana, CEO & Digital Architect GT50, Stati Generali dell’Innovazione e CDTI.