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I tantissimi ‘maniaci’ del cellulare possono stare tranquilli: l’uso del telefonino non provoca il cancro, almeno fino a quando un altro studio non affermerà il contrario…
A scagionare il cellulare è arrivato stavolta uno studio – “il più ampio condotto finora” – dell’Institute of Cancer Epidemiology della Danish Cancer Society, i cui risultati sono stati pubblicati dal British Medical Journal. Gli scienziati danesi hanno tenuto sotto osservazione più di 350 mila persone di almeno 30 anni abbonati a un servizio mobile per un periodo di 17 anni paragonando il tasso di incidenza dei tumori al cervello con quello riscontrato tra persone che non usano il telefonino.
Nel corso del periodo di follow up (1990-2007) sono stati registrati 10.729 casi di tumore al cervello ma non è emersa alcuna differenza di rischio tra coloro che hanno il telefonino per molti anni e coloro che non lo usano mai.
Il team di ricercatori ha quindi concluso che “Non c’è alcuna associazione tra l’insorgenza di tumori del sistema nervoso centrale o del cervello e l’uso del cellulare per un lungo periodo (10 anni o più)”.
“In generale, i nostri risultati sono in linea con la maggior parte della ricerca epidemiologica che è stata condotta fino ad oggi”, ha affermato Patrizia Frei, autore principale dello studio.
“I risultati – ha aggiunto – sono anche in linea con gli studi in vitro e dal vivo, che non mostrano effetti cancerogeni a livello cellulare”.
Lo studio si allinea in effetti a una ricerca pubblicata a luglio da un gruppo di esperti di Gran Bretagna, Svezia e Usa, che era giunto alla conclusione che “non ci sono prove convincenti di un legame tra l’suo del cellulare e il cancro”. In quel caso, gli studiosi hanno rilevato la mancanza dei meccanismi biologici attraverso cui i segnali radio dei telefonini potrebbero scatenare l’insorgere di un tumore.
I risultati contraddicono, invece, quanto sostenuto dall’International Agency for Research on Cancer (IARC), l’agenzia dell’Organizzazione mondiale per la sanità che si occupa di ricerca sul cancro, che a maggio aveva lanciato l’allarme e classificato i campi elettromagnetici come ‘potenzialmente cancerogeni’ (Gruppo 2B): aumenterebbero, infatti, il rischio di glioma, un tipo di tumore maligno del cervello.
Dal momento, però, che lo studio danese considera un uso medio di 13 anni, Patrizia Frei sottolinea che restano ancora “domande aperte come il rischio per coloro che usano moltissimo il cellulare o che lo usano da più di 15 anni e poi i dati sui bambini restano limitatissimi”.
Secondo uno studio condotto nel 2005 i bambini correrebbero più rischi degli adulti dall’esposizione prolungata alle onde radio dal momento che il loro sistema nervoso non è ancora perfettamente sviluppato, i tessuti cerebrali riescono ad assorbire maggiore energia ed essi saranno dunque più esposti degli adulti nel corso della loro intera vita, mentre secondo le valutazioni del National Institutes of Health americano, parlare al telefonino accelera l’attività cerebrale nell’area più vicina all’antenna.
Attualmente, circolano nel mondo quasi 5 miliardi di cellulari. Anche il Progetto Interphone, avviato nel 2000 e annunciato come uno tra i progetti scientifici più completi, avendo coinvolto per 10 anni 13 paesi (Italia inclusa) a livello mondiale – oltre 10.700 persone, tra i 30 e i 59 anni di età – è giunto alla conclusione che, anche se non si è rilevata una connessione diretta tra l’esposizione ai campi elettromagnetici dei cellulari e l’aumento di gliomi o meningiomi, neppure tra gli utilizzatori a lungo termine (10 o più anni) “…i possibili effetti sul lungo periodo di un uso intensivo dei cellulari richiedono ulteriori indagini, soprattutto tra gli utenti più giovani”.
Nessuno degli studi condotti negli ultimi anni, insomma, è ancora riuscito a stabilire con certezza un nesso tra l’esposizione ai campi elettromagnetici dei telefonini e l’insorgere di patologie gravi come il tumore.
“Nessuno studio può essere considerato definitivo”, ha affermato Peter Shields del Comprehensive Cancer Center della Ohio State University.
“Sulla base delle ricerche effettuate finora, non si può affermare con certezza che non ci deve preoccupare, ma lo studio danese sembra comunque il migliore condotto finora”, ha concluso Shields.