Un punto di vista differente: ‘Ecco perché non devono essere vendute le partecipazioni statali nelle imprese’

di di Claudio Becchetti, Leonardo Becchetti |

Gli scandali e il deficit statale danno un forte impulso alla proposta di alienare le grandi aziende a controllo statale. Queste rappresentano però uno strumento necessario per perseguire il bene comune nel settore dell’innovazione.

Italia


Innovazione

In un periodo di forte criticità a livello di bilancio statale, la spasmodica ricerca di risorse aggiuntive induce a proporre soluzioni rapide, sorvolando sulle conseguenze di tali scelte sul sistema paese. Per ridurre la quota del debito pubblico, lo Stato italiano sta ipotizzando, tra l’altro, di vendere i cosiddetti “gioielli di famiglia”, ovvero le partecipazioni di controllo in aziende strategiche nel comparto dell’energia, dei trasporti e dell’alta tecnologia.

Oltre al vantaggio economico, le seguenti considerazioni inducono il governo a perseguire questa strategia:

1)           le partecipazioni statali possono avere rendimenti finanziari inferiori rispetto ad altri investimenti;

2)           le partecipazioni statali possono favorire clientelismo ed un asservimento delle scelte industriali alla politica del governo.

 

Per valutare gli effetti della vendita di tali industrie è utile menzionare le modalità di cessione utilizzate in passato. Un primo approccio consiste nell’individuare industriali italiani che possano acquisire il controllo: la storia delle privatizzazioni italiane indica la debolezza di tali scelte. Le grandi aziende italiane già partecipate dallo Stato sono state spesso depauperate nelle loro risorse finanziarie dagli industriali che ne hanno preso il controllo. I capitani d’industria hanno trasferito ingenti risorse economiche dalle società privatizzate alle società controllanti, a loro riconducibili, per massimizzarne il proprio ritorno economico.

 

Le privatizzazioni già realizzate hanno ridotto realtà dal respiro internazionale ad aziende immobilizzate da un ingente debito, per di più ereditato dalle società controllanti che hanno riversato sulle Aziende ex statali il proprio debito. L’effetto risultante è una perdita consistente di posti di lavoro nelle aziende e nell’indotto e l’abbandono di settori d’innovazione strategici per il Paese.

Un’analisi economica approfondita dimostrerebbe probabilmente che i proventi acquisiti dallo Stato grazie alle privatizzazioni sono stati di gran lunga inferiori alle risorse economiche perse a causa della scomparsa di posti di lavoro e della sensibile riduzione delle attività economiche dell’indotto.

Nel caso in cui la proprietà e il controllo delle aziende partecipate venga rilevata da fondi di investimento la dinamica negativa potrebbe essere ancora più evidente. Il fondo mira normalmente a una redditività di breve termine: minimizza quindi tutti gli investimenti di medio lungo termine distruggendo il futuro della azienda.

 

La seconda strategia consiste nel vendere tali partecipazioni a gruppi internazionali interessati. Per lo Stato italiano, però, nell’attuale momento storico i vantaggi economici sarebbero particolarmente ridotti. Esiste un’ulteriore giustificazione di carattere industriale alla vendita: occorre una dimensione minima per essere profittevoli in certi tipi di mercati. Un’operazione di concentrazione aumenta il vantaggio competitivo di una azienda italiana nel momento in cui si aggrega con un colosso internazionale, ma nella realtà queste operazioni hanno usualmente portato a risultati diversi. La logica dell’aumento della redditività aziendale porta ad eliminare le aree di business duplicate e i settori non produttivi favorendo nella ristrutturazione i settori aziendali più vicini alla casa madre. Una multinazionale con sede all’estero che acquisisce un’azienda italiana tenderà a chiudere l’area produttiva e l’ufficio acquisti italiano. Questo comporterebbe un primo evidente danno per l’indotto, in quanto le produzioni verrebbero spostate al di fuori dell’Italia e le attività esternalizzate verrebbero svolte al di fuori dei nostri confini. Subito dopo, di solito, la stessa sorte si ripete per il centro di ricerca. L’imprenditore straniero, conscio delle difficoltà che un’azienda straniera ha in Italia, tenderà a mantenere esclusivamente i settori che offrono un beneficio economico superiore alle diseconomie offerte dalla distanza e dalle inefficienze del sistema italiano.

In queste condizioni, pur di non avere significative perdite occupazionali, le istituzioni politiche del territorio offrono incentivi a fondo perduto alle aziende straniere. Si assiste perfino a dinamiche competitive fra Regioni italiane che rilanciano nella entità dei contributi erogabili pur di diminuire la disoccupazione nel proprio territorio. Queste filiali italiane di società straniere possono resistere fino al mantenimento degli incentivi statali o regionali e vengono disgregate successivamente alla cessazione del finanziamento, dopo avere ottemperato agli obblighi minimi relativi alla persistenza sul territorio imposti dalle leggi sui finanziamenti agevolati.

 

Qualche numero può dare evidenza della entità del problema dovuto alla alienazione di queste società controllate. Nel settore industriale dell’alta tecnologia vi è una spesa in ricerca, sviluppo e innovazione nell’ordine dei miliardi di euro/anno. Il Piano Operativo Nazionale per la Ricerca e Competitività 2007-2013 del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e del Ministero dello Sviluppo Economico ha una dotazione finanziaria inferiore al miliardo di euro /anno. La perdita di queste aziende significherebbe quindi per l’Italia la perdita di ulteriori settori di alta tecnologia come è avvenuto nel passato per il settore chimico.

Secondo il pensiero liberista questo è un necessario passaggio per consentire un più efficiente sistema industriale a livello mondiale e una più equa distribuzione delle ricchezze. Nella pratica, nel caso di acquisizione da parte di multinazionali, l’Azienda aggregata avrà a regime un valore normalmente inferiore alla somma delle due aziende pre-aggregazione. Inoltre lo Stato italiano si vedrà depauperato di un ulteriore settore tecnologico. L’effetto pratico poi potrà essere la perdita di occupazione e una riduzione significativa del volume di affari e della ricerca e sviluppo nell’area italiana.

 

La contraddizione fra il pensiero liberista che mira ad un incremento del benessere a livello globale e l’effetto negativo del risultato della liberalizzazione richiede un approfondimento: il caso del mercato dell’acqua può offrire spunti di riflessione.

 

I sostenitori della privatizzazione dell’acqua motivano così le proprie ragioni: una gestione privatistica è in grado di offrire un servizio qualitativamente migliore ad un costo inferiore. La realtà invece ha sostanzialmente dimostrato che il privato persegue il proprio interesse economico riducendo gli investimenti, aumentando le tariffe grazie ad un regime di semi monopolio e, soprattutto, riducendo tutti i costi industrialmente improduttivi ma essenziali per il bene della collettività. Un esempio fra tutti è rappresentato dai costi dei depuratori.  Le aziende private della gestione delle acque indirizzano tutti gli sforzi per minimizzare tali costi nell’ambito del quadro normativo vigente, spesso addirittura contestandolo o interpretandolo a proprio vantaggio, forti del grande peso economico che consente loro di trascinare gli organi di controllo in lunghe controversie giurisprudenziali. L’effetto complessivo è un danno significativo per i cittadini e per l’ambiente. Per queste considerazioni la gestione delle acque sta tornando pubblica in molti stati europei.

 

Il caso della gestione dell’acqua dimostra che esistono servizi dove gli obiettivi perseguiti da una gestione privata non potranno mai coincidere con l’interesse collettivo.  Ipotizzare di indirizzare il privato verso il bene pubblico attraverso un meccanismo di controlli non è plausibile in certi settori in Europa e probabilmente ancora di più nel nostro Paese. Nel caso dell’acqua, il privato punterà ad utilizzare tutti i mezzi leciti per massimizzare il proprio profitto. Tale scelta è palesemente in contrasto con il bene comune che si traduce in tariffe basse, investimenti in infrastrutture, incremento delle spese socialmente utili ma economicamente improduttive.

 

L’innovazione tecnologica determina il nostro futuro e pertanto è un bene comune che va indirizzato nell’interesse di tutti. Logiche puramente economiche applicate alla gestione di beni che hanno un rilevante impatto sociale danneggiano il sistema Paese e, probabilmente, anche l’economia mondiale nel suo insieme.

 

E’ indicativo a tal riguardo il caso di un paese dove il libero mercato è un pilastro imprescindibile. Negli Stati Uniti la ricerca è saldamente controllata dal Governo attraverso i fondi erogati dalle varie agenzie nazionali. Inoltre l’innovazione tecnologica è uno fra gli elementi governati con maggiore attenzione dallo Stato che impone uno fra i sistemi più controllati nel mondo.

 

Ci si può quindi chiedere come è opportuno gestire questa tipologia di aziende di interesse nazionali massimizzando il bene comune. Gli elementi che dovrebbero essere indirizzati in prima battuta sono: strategia, supporto e controllo.

 

Lo Stato dovrebbe indirizzare le partecipate attraverso una strategia che incrementi il bene comune del sistema paese. Questo può essere ottenuto attraverso la definizione di specifici parametri-obiettivo diversi da quelli normalmente utilizzati da aziende private. Il calcolo del ritorno dell’investimento va effettuato a livello di sistema paese e non a livello di singola azienda. Pertanto non è fondamentale la redditività dell’azienda che può anche essere nulla. È importante la redditività complessiva contenente l’effetto sull’indotto e l’occupazione. La spesa in ricerca, sviluppo e innovazione è inoltre un parametro fondamentale in quanto determina il futuro e la quantità di occupazione qualificata. L’incremento del capitale umano qualificato è la principale strategia competitiva per un sistema Italia/Europa che si deve confrontare con i bassi costi di manodopera del Medio Oriente.

 

Lo Stato dovrebbe fornire supporto alle proprie aziende per incrementarne l’impatto sulla società. In questo senso, lo Stato agisce in primo luogo come il presidente di una società calcistica che deve scegliere i migliori uomini per la propria squadra: i risultati della squadra, e, dunque della società, dipendono dagli uomini in campo. Lo Stato inoltre offre supporto in termini di finanziamenti e di politica industriale.

 

In ultimo, lo Stato dovrebbe svolgere un’azione di controllo per la valutazione della implementazione delle strategie, la verifica del raggiungimento degli obiettivi che in definitiva misura anche la qualità delle risorse messe in campo.

 

Le Aziende partecipate hanno una minore efficacia in termini di ricadute sul territorio quando il mix strategia/supporto/controllo non è ben bilanciato. Nell’attuale fase storica, assistiamo probabilmente ad un’eccessiva azione di indirizzo da parte dello Stato che ha portato a perseguire mercati/paesi poco efficaci. Nel passato invece queste aziende hanno goduto forse di un eccessivo supporto (finanziamenti) che ha determinato una minore efficienza delle aziende stesse. Il giusto mix delle tre componenti strategia/supporto/controllo indirizzate all’incremento del benessere nel sistema Paese potrebbero incrementare sensibilmente la ricaduta sul territorio.

 

Gli scandali correnti e il deficit statale danno un forte impulso alla proposta di alienare le grandi aziende a controllo statale. Queste aziende rappresentano però uno strumento imprescindibile per perseguire il bene comune nel settore dell’innovazione da parte dello Stato. La loro alienazione comporterebbe l’impossibilità da parte dello Stato di dare impulso all’innovazione con ricadute pesanti per il futuro del Paese.

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