La vecchiaia porta con sé problemi fisici, di salute e anche relazionali. Da qualche anno, si fa sempre più forte l’offerta di macchine a sostegno delle persone anziane, magari affette da malattie motorie o relative al sistema nervoso, compresa la classica demenza senile (o altre enormemente invalidanti come l’Alzheimer e il Parkinson).
Se un tempo, immaginare i robot in giro per casa indaffarati a lavare e stirare, cucinare e fare due chiacchiere con i padroni di casa, nel frattempo liberi di fare qualsiasi altra cosa, era compito della letteratura o il cinema di fantascienza, oggi sono le imprese a (ri)proporci questo panorama a metà strada tra il distopico e l’utopistico.
Il video promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli (SSVP France), organizzazione caritativa cattolica francese, esplora proprio questo duplice aspetto del “caregiving”, dell’assistenza sanitaria agli anziani (più in generale alle persone non autosufficienti della famiglia): da una parte l’aiuto costante e quotidiano al paziente offerto dai robots, dall’altro la necessità inevitabile di affiancare alla macchina un essere umano.
Si, perché il limite del caregiving offerto attraverso la robotica è proprio nel fatto che ogni essere umano, ammalato che sia, avrà sempre bisogno di un contatto umano, di affetto, vicinanza e comprensione, l’aspetto umano del rapporto che nessuna macchina, per quanto dotata di intelligenza artificiale potrà mai offrire, perché è un aspetto intrinsecamente legato alla natura stessa delle parti chiamate in causa.
La malattia e la vecchiaia creano come primo risultato, oltre alla sofferenza per la persona colpita, tanto isolamento e inevitabile solitudine. Al netto della patologia di cui si soffre, la ricerca di un contatto umano è l’unica via di uscita da questa situazione.
Eppure, sono tante le aziende che investono in robotica e automazione applicata al settore sanitario, della salute e dell’assistenza ai malati e gli anziani.
Robot con un elevato livello di socialità, non solo umanoidi, ma anche simili ad animali domestici (come il cane ad esempio), possono dare una mano, secondo i ricercatori, nello stimolare l’attenzione, la concentrazione, la capacità di relazionarsi con gli oggetti e le persone attorno, tenere vive le funzioni intellettuali, percettive, cognitive mnemoniche e nervose di base.
C’è il robot Koala chiamato Wandakun, che fornisce supporto emotivo al paziente e interagisce con le carezze che gli vengono date (percependo dalla pressione lo stato emotivo della persona), favorendo magari anche un allargamento delle relazioni sociali con le persone che ci sono attorno.
Lo stesso servizio, in questo senso, è offerto dal robot con sembianze canine chiamato Tombot.
Altro discorso è invece il supporto operativo che la robotica e l’automazione possono dare a chi lavora nel settore dell’assistenza ai pazienti, i cosiddetti “caregivers”, che possono trovare un valido sostegno ed aiuto nelle macchine e nei software di intelligenza artificiale.
Dell’argomento si è occupata Laurel Riek, professoressa associata di Computer Science and Engineering presso l’Università della California a San Diego, con il suo team, sviluppando robots per il caregiving assieme agli assistenti stessi, per programmare non solo un lavoro di assistenza al malato, ma anche agli stessi operatori del settore che vengono supportati nelle operazioni quotidiane (anche da esoscheletri ad alto contenuto tecnologico, in grado di “sorreggere” con una struttura esterna il corpo del paziente).
In sostanza, la digitalizzazione del caregiving non è un male e non è una minaccia. Le persone hanno bisogno di altre persone per vivere, gioire, condividere emozioni ed affetti, ma allo stesso tempo hanno bisogno della tecnologia per migliorare la qualità della vita e purtroppo, ad un certo punto, anche per migliorare la qualità delle cure.