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Alla Rai serve davvero il direttore generale?

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Tra Rai e Mibac, il “governo del cambiamento” sta producendo scosse radicali, anche se la strategia complessiva non è chiara. Creato un Direttore Generale in Rai (non previsto dal piano industriale), ripartiti i fondi della legge cinema ( -100 milioni di euro nel 2019?), con squilibrio ancora favore dei produttori. Perché?

ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Quel che è avvenuto mercoledì scorso a Viale Mazzini conferma che le acque sono assai agitate, ai piani alti: approvato il “piano industriale” il 6 marzo (a maggioranza, 5 a favore e 2 contrari), il settimo piano ha deciso ieri l’altro di introdurre la “inedita” figura del Direttore Generale nel governo della Rai (questa volta, 5 consiglieri a favore, 2 astenuti), in evidente contrasto con quel che aveva previsto la legge di riforma della “governance” voluta a suo tempo dal premier Matteo Renzi.

Tra il Collegio Romano (sede centrale del Mibac) e Santa Croce in Gerusalemme (sede della Direzione Cinema del Ministero), si registrano decisioni piuttosto curiose, tra i primi passi del neo Direttore Generale Mario Turetta: è stata effettuata in questi giorni la “ripartizione” del Fondo per il Cinema introdotto dalla legge di riforma voluta a suo tempo dal ministro piddino Dario Franceschini, ma – anche in questo caso – non si comprende il senso strategico di questa decisione.

Premesso che è evidente che non esiste una interazione minimamente significativa tra queste “anime” dello Stato (tra Mibac e Rai, che pure dovrebbero invece – a parer nostro – ragionare con dinamiche convergenti, così come dovrebbe essere nel rapporto tra Rai e Siae-Società Italiana Autori Editori), è ardua intrapresa cercare di comprendere la logica che è alla base di queste decisioni.

In sintesi: il Cda della Rai ha deciso, bypassando la previsione di legge, di ri-creare la figura del Direttore Generale, sostanzialmente riducendo l’approccio “dirigista” che la legge renziana aveva determinato, assegnando all’Amministratore Delegato “pieni poteri”, al fine di rendere i processi decisionali del gruppo Rai più rapidi e semplici. Si ricordi che legge n. 220 del 28 dicembre 2015 (denominata “Riforma della Rai e del Servizio Pubblico Radiotelevisivo”) ha ridefinito il complessivo assetto di “governance” dell’Azienda: è stata introdotta, in luogo del Direttore Generale, giustappunto la figura dell’Amministratore Delegato, dotato di ampi poteri di firma degli atti e contratti aziendali nonché di gestione del personale e nomina dei dirigenti.

Va comunque precisato che si tratta di un “Direttore Generale Corporate”, al quale rispondono direzioni come le Risorse Umane, le Risorse Televisive, Finanza e Pianificazione, Infrastrutture Tecnologiche, etc. Per capirci, le reti, i telegiornali, la radio, la creatività, dipendono ancora direttamente dall’Ad. E direttamente da Fabrizio Salini dipendono anche la Direzione Editoriale per l’Offerta Informativa, il Coordinamento Palinsesti Televisivi e la Direzione Marketing (a questo ruolo, imperscrutabilmente vacante dall’ottobre 2018, è stato chiamato un dirigente di lunga esperienza come Roberto Nepote).

Quel che stupisce è che questa figura del Direttore Generale, che rappresenta innovazione non marginale, non è minimamente prospettata nel “piano industriale” elaborato in bozza da Boston Consulting Group (Bsc), ed approvato dal Consiglio di Amministrazione Rai tre settimane fa, con il voto contrario – come si ricordava pocanzi – dei due soli consiglieri Riccardo Laganà (eletto dai dipendenti) e di Rita Borioni (“in quota” Pd).

Quel piano prevedeva in verità la istituzione di un “Trasformation Office” (ma perché – ancora una volta – questo gusto per l’anglofonia?!), ovvero di una struttura che curasse la estrema complessità del processo di riorganizzazione aziendale “per generi”, piuttosto che “per reti” (processo che – si noti – potrebbe determinare la “riallocazione” funzionale di oltre 3mila dipendenti!): questo “Ufficio”, nella nuova organizzazione approvata dal Cda due giorni fa, viene messo alle dirette dipendenze del Direttore Generale Corporate, che è stato nominato contestualmente al nuovo funzionigramma, elevando a rango di Dg uno dei fiduciari dell’Ad, Alberto Matassino (già dg della società di produzione cinematografica Fandango ed ex dirigente Fox Channels, nonché per dieci anni consulente di Ey alias Ernst&Young, e già da dicembre scorso nello staff di Fabrizio Salini).

Ci si domanda se la creazione di questa nuova figura apicale nel funzionigramma Rai non possa essere oggetto di rilievi da parte della Corte dei Conti: un altro costo non indifferente, in effetti. E se si prospettasse, tra qualche tempo, il rischio di risarcimento per danno erariale per i consiglieri, per una (ennesima?!) spesa “ingiustificata”? C’era e c’è proprio necessità di un Direttore Generale a Viale Mazzini, a fronte di una legge vigente che non lo prevede?! Qui ed ora, questa potrebbe sembrare semplicemente una provocazione, ma ci permettiamo di porre la questione all’attenzione del Collegio Sindacale Rai (formato da Biagio Mazzotta – che lo presiede -, e da Anna Maria Magro, e Roberto de Martino) che pure assiste (silente?!) alle riunioni del Cda Rai.

E l’azionista di minoranza di Rai, ovvero quella Siae che detiene lo 0,44 % delle quote della Rai (a fronte del pacchetto azionario detenuto per il 99,56% del Ministero dell’Economia e delle Finanze-Mef), cosa ne pensa?!

Quel che stupisce è la totale assenza di dibattito pubblico su quel che sta accadendo a viale Mazzini (tra piano industriale e contratto di servizio) come abbiamo già avuto occasione di denunciare anche su queste colonne: la convocazione della Commissione di Vigilanza è stata annullata due volte (il 19 ed il 26 marzo), per quanto riguarda l’audizione di Salini, e quindi non vi è finora stata occasione di confronto (ufficiale) tra “la politica” ed “i governatori” del “public media service” italico.

Contattata da “Key4biz” questa mattina la segreteria della Vigilanza, ci è stato confermato che non vi è una previsione di data per l’audizione Rai, nel calendario imminente della Commissione .

Quel che comunque stupisce, di Viale Mazzini, è l’apparente “sganciamento” tra la logica del “piano industriale” e le previsioni del “contratto di servizio”: come abbiamo più volte spiegato, il primo sembra recepire assai poco del secondo, se non con modalità generiche ed evanescenti.

Basti pensare – esemplificativamente – al surreale sottodimensionamento delle risorse necessarie per il “canale in inglese” ed il “canale istituzionale” (un incredibile budget di soltanto 10 milioni di euro l’anno per ognuno dei due), così come alle caratteristiche vacue di quanto previsto in materia nelle pagine del “piano industriale”.

Ancora una volta, sembra che Rai consideri il “contratto di servizio” una sorta di scrittura labile quanto eterea, ben altro dalla logica sinallagmatica di un vero e proprio contratto.

Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa, in argomento, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazione, considerando che Agcom un qual certo ruolo rispetto a Rai potrebbe avere, superando prudenze e timidezze…

In effetti, tutta quella area di accresciuta sensibilità sociale della Rai – che pure il nuovo contratto di servizio tra Mise e Viale Mazzini prevedrebbe – sembra quasi ignorata, marginalizzata, finanche archiviata, nel nome della “grande razionalizzazione” tratteggiata dal “piano industriale: ancora una volta, la variabile sociale subordinata alla variabile economica, con buona pace di una visione organica e strategica, che risponda realmente agli interessi del Paese. Interessi che vanno anche oltre l’esigenza di una pur importante gestione aziendale efficiente ed efficace.

Marcello Ciannamea: coordinatore editoriale palinsesti televisivi

Il Cda di ieri l’altro ha registrato anche la nomina di una figura centrale, nel nuovo assetto Rai, qual è il Coordinatore Editoriale Palinsesti Televisivi: è stato scelto Marcello Ciannamea, profondo conoscitore della “macchina” Rai, e peraltro già in predicato per il ruolo di Direttore Generale. Questo ruolo attuale, sebbene quasi all’altezza di una Vice Direzione Generale, è comunque ancora lontano da quel che dovrebbe essere (tra qualche mese, se il “piano industriale” non verrà insabbiato) la nuova Direzione Coordinamento Generi, la quale, nel nuovo assetto operativo “concent centric”, sarà il vero cervello e cuore pulsante della nuova Rai (con il ridimensionamento dello strapotere delle reti).

Nasce l’ufficio Studi

Importante anche osservare che finalmente viene istituito un Ufficio Studi, come richiesto dal nuovo “contratto di servizio” (ebbene sì!): ci si augura che però che non si tratti di una “scatola vuota”, ma di una direzione dotata di risorse umane e budgetarie adeguate, in grado di dialogare con il mondo esterno (università, accademia, centri di ricerca…), magari recependo l’eredità (ormai lontana nel tempo) della mitica Verifica Qualitativa Programmi Trasmessi (Vqpt). Sarà importante che questo ruolo venga affidato ad un professionista esperto di ricerca, intesa anche come ricerca sociale ed analisi del “public media service”, e non soltanto studi funzionali al… “piano industriale” ovvero alle strategie di marketing aziendale. Riteniamo peraltro che questo Ufficio Studi dovrebbe essere denominato “Ufficio Studi e Strategia”, e dovrebbe essere allocato alle dipendenze del Consiglio di Amministrazione, se si vuole assegnare al Cda un ruolo non squisitamente… ornamentale, nei processi decisionali dell’azienda Rai. Perché diavolo la Direzione Pianificazione Strategica della Rai debba dipendere dalla Direzione Finanza e Pianificazione (Cfo), come è attualmente previsto (anche nel nuovo funzionigramma), è in effetti incomprensibile, per un “public service broadcasting”: ennesima riprova del predominio dell’economico-finanziario sul sociale-civile.

Unica voce fuori dal coro (cioè… emergente nel silenzio assordante), rispetto a Rai, è stata, in questi giorni, quella del consigliere di amministrazione Riccardo Laganà, che, in una lunga intervista di martedì scorso all’agenzia AdnKronos, ha dichiarato a chiare lettere che è necessario “riscrivere la governance dell’Azienda, per allontanarla dagli appetiti della politica e dagli interessi commerciali”, prospettando di fatto l’esigenza di una legge di riforma complessiva, richiamando alla memoria un progetto di radicale riassetto che era stato elaborato anni fa dall’associazione MoveOn alias Rai ai Cittadini. Questo progetto prevedeva la costituzione di un “Consiglio per le Comunicazioni Audiovisive” nominato in gran parte dalla società civile, ed affidava a quel “Consiglio” la nomina dei vertici Rai selezionati mediante concorsi pubblici… Fantapolitica, purtroppo, a fronte di quel cui stiamo assistendo in questi mesi.

L’indomani (mercoledì 27) lo stesso Riccardo Laganà precisava – ancora all’Adnkronos – le ragioni del proprio voto astenuto in Cda rispetto al “Piano di gestione delle risorse umane”, che ha ritenuto inadeguato rispetto ai criteri di trasparenza sulle nomine ed ai processi di valutazione delle professionalità (sono questi – comprensibilmente – i principali cavalli di battaglia di Laganà). Il consigliere ha anche giustamente chiesto chiarimenti sugli 80 milioni di euro (!) che Rai avrebbe speso nel 2018 per incarichi e collaborazioni esterne…

Complessivamente, lo scenario Rai appare piuttosto incerto e critico, e discretamente confuso. E la “battaglia per le nomine”, non soltanto per le nuove imminenti 9 direzioni è dietro l’angolo, e non sarà certo incruenta.

Attendiamo le prossime mosse del Presidente “leghista” Marcello Foa e dell’Amministratore Delegato “grillino” Fabrizio Salini, e soprattutto – in totale assenza di attenzioni altre (i partiti sono distratti, i sindacati silenti, la società civile assente) – una qualche decisione assunta da parte della Commissione Bicamerale per l’Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivo.

Mibac: partita una mini riforma del ministero

Sul fronte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, invece, mentre è partita una “mini-riforma” dell’organizzazione del dicastero (piccola cosa rispetto alla grande riforma prevista per Rai: vedi “Key4biz” del 25 marzo, “Mibac, previste 2mila assunzioni entro 2 anni. In anteprima le linee guida del ministero”), si registrano notizie controverse rispetto a quel che accade al “sistema cinema”: mentre nelle segrete stanze di Santa Croce in Gerusalemme è in gestazione il decreto che prevedere l’applicazione di obblighi anche per i grandi “big” della nuova produzione di contenuto, da Netflix ad Amazon, si sta procedendo alla “ripartizione” del Fondo per il Cinema, che, grazie alla legge Franceschini-Giacomelli, è stato elevato a 400 milioni di euro l’anno.

Questa mattina l’accurata (anche se purtroppo semi-clandestina) rivista settimanale “Odeon”, ha pubblicato in esclusiva la ripartizione di questo “fondo cinema”: se l’articolo, firmato dal sempre attento collega Andrea Dusio ed intitolato efficacemente “Fondi per il cinema: è un bagno di sangue, è fondato su informazioni attendibili, la novella ripartizione andrebbe a determinare sconvolgimenti non da poco nella complessiva economia settoriale.

Anzitutto, va segnalato che, a causa di ritardi nell’attuazione della legge, di errori di previsione e di valutazione (per esempio, il tax credit a favore della produzione televisiva avrebbe assorbito moltissime risorse), il fondo cinema realmente disponibile, che dovrebbe essere nel 2019 nell’ordine di 470 milioni di euro, registrerebbe invece un -100 (meno cento!) milioni di euro, e quindi si dovrebbe procedere tagliando… in ogni dove. Si passerebbe da una previsione virtuale di 469 milioni di euro a 348 milioni di euro realmente disponibili.

Molti rami dell’intervento pubblico nel settore verrebbero quindi ridimensionati, a vantaggio, una volta ancora, dell’anima produttiva della filiera, rafforzando nuovamente il bacino finanziario del tanto magnificato “tax credit”. Strumento rispetto al quale – martelliamo ancora – nessuno ha finora mai prodotto una valutazione d’impatto: e se questo strumento, alla resa dei conti, non fosse la miracolosa panacea che molti produttori teorizzano?!

Naturale, ancora una volta, sorge il quesito: perché questa grande enorme infinita “simpatia” della Direzione Cinema verso le potenti lobby di Anica ed Apt (ovvero i “poteri forti” del sistema)?!

Comprendiamo le eccellenti capacità relazional-politiche di Francesco Rutelli e di Giancarlo Leone (rispettivamente a capo della prima e della seconda associazione), e lo sforzo “seduttivo” nei confronti dell’ottimista Sottosegretario delegato al cinema, la leghista Lucia Borgonzoni (che ci appare simpaticamente irretita), ma ci permettiamo di ricordare che “il cinema” deve essere inteso anzitutto come fruizione in sala.

Ed è proprio questo l’“anello” della “filiera” che appare terribilmente debole fragile sofferente, così come la promozione (stendiamo un velo pietoso su iniziative effimere come il tanto decantato progetto “Moviement” o sulla inutile serata dei David di Donatello: pannicelli caldi veramente… vedi “Key4biz” del 19 marzo 2019, “‘Moviement’, ennesima iniziativa per tamponare la crisi del cinema italiano”), la ricerca e sperimentazione, l’estensione dell’offerta e del pluralismo, la formazione del pubblico, la funzione del cinema e dell’audiovisivo come strumenti di crescita civile e coesione sociale.

Il cinema è anche e soprattutto “arte” – di grazia – non soltanto “industria”! è tesi antica, questa (ed apparentemente banale e finanche scontata), ma ancora oggi assolutamente valida.

E l’intervento della “mano pubblica” non deve puntare soltanto al rafforzamento del tessuto industriale, trascurando la dimensione culturale ed artistica, ovvero l’esigenza di estendere il pluralismo espressivo e di stimolare la libera creatività. Anche in questo caso (vedi “supra”, alla voce “Rai”), si registra purtroppo in Italia una subordinazione della variabile culturale rispetto alla variabile economica.

Secondo la ripartizione del “piano cinema” 2019, per esempio, la dotazione dei fondi per la promozione scenderebbe da 64 a 39 milioni di euro, oscuramente. Verrebbero addirittura azzerati (!) gli spiccioli (perché tali sono 4 milioni di euro l’anno, una piccolissima fetta rispetto alla torta totale dei 400 milioni) destinati alla distribuzione all’estero del cinema italiano, che è senza dubbio una delle più preoccupanti criticità del sistema audiovisivo nazionale.

Su queste colonne, qualche giorno fa, abbiamo auspicato che un Ministro coraggioso, assistito da un Direttore Generale innovativo, vogliano decidere che almeno un decimo del totale dei fondi pubblici per il cinema e quindi almeno 40 milioni di euro previsti dalla legge Franceschini-Giacomelli) debba essere destinato ad un organico e strategico, robusto e lungimirante piano nazionale di promozione del cinema in sala, coinvolgendo attivamente in primis giustappunto Rai: questa sì sarebbe una decisione in grado di contrastare realmente la tremenda e miserabile deriva della fruizione del cinema in Italia.

Attendiamo le prossime mosse, in Rai e al Mibac, e si cercherà di comprendere se il processo innescato è vero “cambiamento” oppure, sostanzialmente, neo-conservazione delle logiche pre-esistenti.

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