Domenica scorsa l’americana Bloomberg Business Week ha anticipato un editoriale sul numero uscente intitolato “The EU Is Looking Like Europe’s Next Failed Empire”—pressapoco, “L’Ue ha sempre più la faccia del prossimo impero europeo fallito”. Oltre al titolo ad effetto, la nota propone anche i riferimenti d’obbligo all’Impero austro-ungarico.
La Bloomberg è stata—finora—la più accanita sostenitrice delle tesi anti-Brexit tra le grandi testate economiche Usa. Alla vista però della diplomazia dei pesci in faccia alla Premier inglese la settimana scorsa a Salisburgo, pare cominci a porsi delle domande. Arriva tardi. Forbes è già uscita con la sua “Investor’s Guide to the Collapse of the European Union”. A fine maggio, George Soros, il re degli hedge fund Usa—noto per un grande attacco alla sterlina—ha scritto: “L’Unione Europea è stata ingoiata da una crisi esistenziale… Tutto quanto potesse andare storto è andato storto… È inutile ignorare la realtà che una parte degli stati membri rifiuta esplicitamente l’obiettivo Ue dell‘unione sempre più stretta”.
I mercati dei capitali, da sempre contrari alla Brexit, iniziano a pensare che possa davvero avverarsi, e male—e che possa essere una ferita da cui l’Unione potrebbe non avere la capacità di riprendersi. Non sono solo gli americani a preoccuparsi. Forse paradossalmente, anche la Germania fa sapere—pur sottotraccia—di non trovarsi più in perfetta sintonia con la strategia “vendetta, tremenda vendetta” che anima i propositi di Jean-Claude Juncker e del suo negoziatore Michel Barnier. Berlino teme di finire a dover raccogliere i cocci. Già i sindacati tedeschi fanno notare che, con la guerra mondiale dei dazi, forse non è saggio sputare nell’occhio al Regno Unito. Salisburgo, un vertice Ue “informale”. Doveva—si pensava—essere un’occasione per raddrizzare un negoziato che pareva tendere al brutto. Non è andata così, e i mercati hanno avuto la conferma che le priorità di Bruxelles sono politiche, non economiche. È questo il problema. Finora si è parlato soprattutto degli effetti della Brexit sull’Inghilterra, non sull’Unione.
E se gli inglesi se ne vanno e gli va benissimo? Dopotutto, potrebbe succedere. Era opinione uniforme a Bruxelles che il voto Brexit del 2016 avrebbe scatenato un finimondo, azzerando l’economia britannica. Oggi il Paese registra il più basso tasso di disoccupazione da 41 anni. Permettergli di uscire pulitamente potrebbe incoraggiare emuli. Ovviamente i soldi e la politica a volte si toccano. Andando via con un accordo, gli inglesi dovrebbero —ora forse “avrebbero dovuto”—firmare un assegno d’addio per 39 miliardi di sterline, €43,5 miliardi, esattamente dieci multe alla Google. Gli americani però si stufano se si va troppe volte al pozzo della Silicon Valley, i cinesi non si toccano, e chi altro ha tanti soldi per finanziare l’Ue? Sarà duro bussare agli stati membri per trovarli, specialmente dopo aver bucato una trattativa che li poteva far arrivare.
L’Ue contava su un ritorno alle urne per revocare l’esito Brexit. Davanti però agli schiaffi al Paese da una parte e i dubbi sulla salute dell’Unione dall’altra, i politici inglesi del “Remain” iniziano a traccheggiare: “Se mi espongo per andare contro al voto già espresso e poi—anche vincendo, specialmente vincendo— l’Ue finisce a schifìo, beh, tanto varrebbe spararmi in testa. Forse mi dò malato…”
*Nota Diplomatica ‘Declini imperiali’ di James Hansen