In un mondo plasmato da connessioni volatili e schermi digitali, il concetto di proprietà muta radicalmente. In un certo senso, possedere per sempre qualcosa (in specifico i prodotti virtuali, come i software) non è più la priorità per i clienti. La ‘ownership’ viene sostituita dalla ‘membership’, l’accesso temporaneo a un bene o servizio. Dato questo orizzonte, le aziende orientati alla membership avranno un ruolo sempre più centrale. La rivoluzione della membership economy è un fenomeno piuttosto recente, anche se affonda le sue radici in tanti cambiamenti avvenuti nell’ultimo decennio. Non a caso, il primo a predire questo shift è stato Jeremy Rifkin in un saggio visionario del 2001 intitolato The Age of Access. C’è voluto più del previsto per realizzare quanto previsto da Rifkin ma oggi i business più intelligenti e proattivi hanno già intrapreso la strada dell’evoluzione.
Una volta ci si abbonava soltanto allo stadio per le partite della propria squadra del cuore, a un servizio di Tv via cavo e ai mezzi pubblici della propria città. Oggi si possono invece sottoscrivere abbonamenti per quasi tutto, biancheria intima compresa. Il fenomeno si chiama subscription economy, economia della sottoscrizione, e il mercato degli Stati Uniti è pioniere di innovazioni, nel modo di consumare e vendere, che sta già arrivando in Italia.
Ovviamente, la subscription economy ha cominciato ad andare forte sul mercato dei software, grazie alle enormi innovazioni portate dal sistema dei cloud. Il software è sempre meno qualcosa che si installa sul proprio computer e sempre più un servizio che viene erogato via Web. I privati o le aziende pagano una tariffa mensile o annuale, e il fornitore offre il servizio (e tutti i suoi aggiornamenti) in rete. Un modello simile ha rivoluzionato anche i consumi culturali. Spotify, per la musica, e Netflix, per il cinema e le serie Tv, hanno dimostrato che l’utente non vuole il possesso del prodotto culturale, ma l’accesso. Quindi, oltre a una base gratuita (ma con pubblicità) si può pagare un abbonamento per avere accesso libero a una serie illimitata di file.
Ma le innovazioni più curiose vengono da altri settori. Un esempio: Un sito chiamato Manpacks offre questo innovativo servizio in abbonamento – si paga una quota annuale, e in cambio si ricevono regolarmente via posta pacchi di biancheria nuova. Tra gli altri prodotti, Manpacks consegna piccoli strumenti di cosmesi (esclusivamente maschile: rasoio, deodorante eccetera). Le consegne vengono effettuate ogni tre mesi. Una fornitura media di mutande, calzini e amenità varie per un anno costa intorno ai 500 dollari (senza spese di consegna). E per chi cerca qualcosa di specifico per la rasatura, c’è anche il Dollar Shave Club, che con 164 dollari all’anno permette di avere una fornitura di rasoi, schiume e dopobarba con consegne gratuite ogni mese.
Gli abbonamenti stanno cambiando qualcosa anche nel settore dei viaggi aerei. In California, ad esempio, ci si può abbonare al servizio Surf Air, che con una quota mensile di 1650 dollari permette di spostarsi quante volte si vuole, via aereo, in California. E visto che ormai in aereo si paga tutto, compresi chili extra di bagaglio e spazio in più per le gambe, compagnie come la United Airlines permettono ai frequent flyer di non pagare più questi servizi volo per volo ma di sottoscrivere un abbonamento per poterne godere ad ogni viaggio. Le cifre sono ancora piuttosto alte: 349 dollari all’anno per i bagagli e 499 dollari per lo spazio in più per le gambe. Ma la direzione è segnata.
L’economia in abbonamento può essere utile anche per imporre servizi che non hanno ancora grande diffusione sul mercato, come il Car-fi, ovvero il wi-fi da usare in macchina. La startup Auto-net è uno dei primi clienti che si è lanciato con servizi subscription. Il Car-fi è destinato alle aziende, che vogliono che i dipendenti siano sempre collegati, via cloud, alla Rete e al sistema operativo centrale, per poter avere accesso a file, documenti e applicazioni condivise. Ma può essere utile anche per le famiglie. Con 9,95 dollari al mese, ad esempio, lo si può installare sull’auto di un figlio, per sapere sempre dove si trova e poter verificare la correttezza del suo stile di guida.
La decisione è semplice: riconoscere un cambiamento in atto nelle dinamiche di mercato e nei comportamenti dei clienti, oppure rifugiarsi in un modello economico superato, rischiando di diventare obsoleti. Citando William Gibson, il futuro è già qui – solo che non è distribuito in maniera uniforme. E’ stata necessaria una decade perché connessioni digitali, smartphone e cloud economico riuscissero a spianare la strada al modello più evoluto di membership economy. La velocità con cui le aziende riusciranno a compiere questo passaggio stabilirà la rilevanza delle stesse nella mente dei clienti. Clienti che, da parte loro, hanno già ben compreso la differenza tra il pensare in termini di proprietà top-down e il pensare (e agire) in condivisione, trasparenza e apertura. Alcune delle aziende più importanti dell’industria software sono già basate su un modello di subscription, si pensi a Microsoft e Adobe. Altre incorporano i principi della membership in una struttura più tradizionale. Le più innovative, come Netflix e Spotify, stanno facendo scuola portando un passo avanti il concetto di ‘membership organization’, con evidenti ricadute positive sull’esperienza dei clienti.
Se prendiamo per buona la teoria secondo cui il software ha inglobato il mondo – e quindi ogni azienda è oggi una software company – è facile capire perché questo nuovo modello economico produce effetti profondi sullo sviluppo tecnologico e sul rapporto che si instaura tra brand e utenti. Subscription, sharing, loyalty sono termini che devono far parte della definizione strategica del business. Per costruire connessioni di valore e monetizzare la relazione con i clienti.
Per approfondimenti: www.neosperience.com