Non tutti gli internet service provider (o più comunemente conosciuti come Isp) svolgono la propria attività nel rispetto delle regole e delle leggi vigenti in tema di proprietà intellettuale. Ce ne sono tanti, troppi, che oltre a svolgere il proprio ruolo, tendono anche a lucrare più o meno alla luce del sole sui contenuti o i prodotti protetti da diritti.
Si tratta di promuovere, pubblicizzare e/o diffondere illecitamente contenuti/prodotti/servizi in violazione dei diritti di proprietà intellettuale (Intellectual property rights, o Ipr) e senza pagare il giusto prezzo a chi su questi contenuti/prodotti/servizi ha investito tempo e risorse.
Sono 840 milioni di euro i proventi illeciti di cui parliamo e di cui ha scritto l’avvocato Alessandro La Rosa sul sito web dello Studio Previti. Un dato che proviene dal Report realizzato a gennaio 2018 dall’Office of the United States Trade Representative (“2017 Notorious markets list spotlights global piracy and counterfeiting, defends american products and workers”) e dedicato alle migliori pratiche degli Isp per limitare e prevenire il più possibile le violazioni di diritti di proprietà intellettuale attraverso piattaforme digitali e marketplace offline.
La Rosa evidenzia alcune di queste best practice messe in campo dai provider durante lo scorso anno, con ottimi risultati nel contrasto alla pirateria online. Tra queste, precisa l’autore dell’articolo, troviamo: “l’adozione di business model che prevedono la negoziazione di contratti di licenza con i titolari dei diritti, l’accelerazione dei tempi di risposta ai reclami dei titolari dei diritti e l’implementazione di tecnologie digitali per individuare e prevenire la diffusione di materiali illeciti sulle piattaforme online”.
Riguardo al confine tra i provider che fanno il loro lavoro onestamente e quelli che invece lucrano sull’illecito: “È sempre più difficile distinguere le due categorie di operatori – ha affermato La Rosa – e questo non fa altro che contribuire all’incremento di soggetti il cui primario (talvolta unico) obiettivo è, appunto, lo sfruttamento monetario di materiali illeciti attraverso pubblicità correlate, abbonamenti premium alla piattaforma stessa, data breach e malware”.
Secondo lo studio americano, la perdita dovuta alla pirateria online, le frodi, la contraffazione e gli attacchi informatici, si aggira attorno ai 4-5 miliardi di dollari, soprattutto nel settore dei media e dell’entertainment.
Come ha sottolineato ancora l’avvocato, è da “porre in evidenza come la lista di operatori fornita da “The List” dia atto della massiccia presenza di fornitori di servizi di cyberlocking e marketplace quali principali protagonisti delle violazioni degli Ipr”.
Nelle conclusioni, La Rosa suggerisce che le autorità competenti nel settore “predispongano quanto prima una “lista” europea dei mercati “notoriamente” dediti alla pirateria ed alla contraffazione (online e offline)”.
Per i legislatori europei, infine, l’invito è a riflettere concretamente “sull’opportunità di non escludere incondizionatamente i cyberlocker ed i marketplace dai providers destinatari della Proposta di modifica della Direttiva Copyright nel mercato unico digitale”.
Proprio sul tema dei cyberlocker, Federico Bagnoli Rossi, Segretario Generale FAPAV, ha ricordato in una nota come “questi servizi siano tra i più utilizzati per condividere online contenuti protetti da copyright. Il business model dei cyberlocker è tra l’altro proprio basato principalmente sulla distribuzione di questi contenuti illeciti”.
Secondo uno studio condotto dalla Digital Citizens Alliance, ha ricordato Bagnoli Rossi, “almeno il 78,6% dei file caricati su tali siti per il download e l’83,7% dei file caricati per lo streaming, hanno dei contenuti acquisiti in violazione del diritto d’autore. Il contrasto a tali “servizi”, pertanto, è decisivo per la tutela dei contenuti audiovisivi sul web”.