Sta facendo rumore la non-notizia secondo la quale Apple, pur di vendere i propri prodotti in Cina, ha accettato di localizzare nel Celeste Impero i data centre che ospitano i dati degli utenti cinesi e di consegnare le chiavi per accedervi al Governo.
Le reazioni alla notizia hanno stigmatizzato la “doppia morale” dell’azienda di Cupertino che in Occidente si pone come “campione della privacy” e in Oriente come pragmatico operatore “business-oriented” che a Roma fa come i romani o, meglio, a Pechino fa come (il Governo dei) cinesi.
Apple non ha alcun “dovere” di proteggere la privacy – questo spetta alle istituzioni pubbliche ma prima ancora a ciascuno di noi – e se lo fa (quando è possibile) lo fa sulla base di ragionate strategie di marketing e non necessariamente in ossequio a “valori morali”
Dunque, non dovrebbe scandalizzare nessuno il fatto che in nome del “i soldi non puzzano” in Occidente e in Oriente la privacy sia un potente strumento di vendita che funziona sia in un senso (attiro gli utenti promettendo inviolabilità), sia nell’altro (tranquillizzo i governi mostrando che se spingono abbastanza, ottengono quello che vogliono).
Quindi, se proprio dobbiamo cercare un problema da risolvere in relazione a questa notizia, dovremmo orientarci verso la mistificazione del ruolo attribuito alla privacy da aziende private e istituzioni pubbliche, che la considerano ipocritamente una reliquia – ma di plastica – da esibire e svendere a una platea ignorante per ottenere soldi e potere.
E se guardiamo a cosa sta accadendo su scala europea con la bolla del GDPR, la notizia dell’accordo fra Apple e il Governo cinese non fa poi così notizia…