Multinazionali e tasse: dal 1° gennaio nuove norme Ue contro l’evasione fiscale

di Raffaella Natale |

Le web company sostengono di non avere stabili organizzazioni nei Paesi dove sono in corso accertamenti. Ma cosa vuole dire stabile organizzazione? Perché non devono pagare le tasse come tutti?

Europa


Paradisi fiscali

La Ue si dà una mossa nella lotta all’evasione fiscale. Con una nota, la Commissione europea comunica oggi che dal 1° gennaio 2013 entreranno in vigore nuove regole che renderanno più facile per gli Stati membri la possibilità di riscuotere le tasse.

La Direttiva sulla Cooperazione amministrativa in campo fiscale getta le basi per una maggiore collaborazione tra le autorità tributarie nella Ue.

Uno dei passaggi chiave della Direttiva è quello che pone fine al segreto bancario, in altre parole, uno Stato membro non potrà più rifiutarsi di comunicare informazioni a un altro per il solo fatto che queste sono detenute da un istituto finanziario.

 

A riguardo, Algirdas Semetas, Commissario Ue per la fiscalità, ha dichiarato: “Le nuove regole permetteranno di stabilire una maggiore trasparenza, un migliore scambio d’informazioni e una cooperazione più forte, strumenti fondamentali della lotta alla frode fiscale”.

 

La Direttiva stabilisce misure concrete ed efficaci per migliorare la cooperazione amministrativa in materia fiscale. Fissa, inoltre, procedure comuni per lo scambio d’informazioni, che consentiranno di scambiare più velocemente i dati tra le autorità nazionali.

I funzionari del fisco potranno, poi, essere autorizzati a partecipare ad azioni di accertamento amministrativi condotti da altri Stati membri. Potranno anche chiedere che le loro decisioni vengano notificate in altri Paesi della Ue.

 

La Direttiva ha un ampio campo di applicazione riguardante tutte le imposte, ad eccezione di quelle coperte da disposizioni comunitarie specifiche, come l’IVA.

 

Ogni anno nell’Ue si perdono mille miliardi di euro a causa dell’evasione fiscale. Se riuscisse a fermare tutto ciò, ci vorrebbero solo 9 anni per ripianare tutti i deficit dei vari Paesi Ue. Ai primi posti di questa classifica troviamo l’Italia con 180 miliardi all’anno e un’economia-ombra pari al 27% del suo PIL. E’ quanto emerge da un dossier, firmato dall’inglese Richard Murphy, economista e fondatore del centro Tax Research LLP, ripresto oggi dal Corriere Economia.

 

 “E’ uno scandalo“, ha detto il Commissario Ue, annunciando le misure, “In un mercato unico, nel contesto di un’economia globalizzata, le incoerenze e le lacune nazionali diventano il terreno di gioco per chi cerca di eludere la tassazione”.

 

Ma limitarsi con una raccomandazione per chiedere agli Stati membri d’individuare i paradisi fiscali e a inserirli in una sorta di Black List era davvero poco.

Oggi, con la comunicazione della prossima entrata in vigore della Direttiva, sono previsti nuovi e più efficaci strumenti, specie per affrontare i tecnicismi e le lacune giuridiche che alcune aziende sfruttano per evitare di pagare il loro giusto contributo.

Gli Stati membri vengono così incoraggiati a rafforzare le proprie convenzioni contro la doppia imposizione, per evitare che esse si traducano in un’assenza totale di imposizione.

 

Tra le società che più di altre sfruttano le leggi europee per pagare le tasse nei Paesi dove ci sono regimi fiscali più vantaggiosi, ci sono ovviamente le web company.

Google, Amazon, Facebook, eBay, ma anche Apple e altre regine dell’hi-tech si servono di sistemi di ottimizzazione fiscale adesso nel mirino delle autorità tributarie di Francia, Gran Bretagna, Italia e Australia.

 

Le ‘tecniche’ di profit shifting hanno consentito alla società di Mountain View di pagare solo 2 miliardi di dollari d’imposte sul reddito nel 2011, traghettando 9,8 miliardi di dollari di fatturato in una società di comodo alle Bermuda, quasi il doppio rispetto al 2009.

 

In Italia, per Big G risultano redditi non dichiarati per oltre 240 milioni di euro e una Iva non pagata pari ad oltre 96 milioni di euro. I dati si riferiscono a una verifica svolta dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Milano nel maggio 2007 per gli anni 2002-2006 e sono contenuti nella risposta del Ministero dell’Economia a una interrogazione del deputato del Pd Stefano Graziano in Commissione Finanza (Leggi Articolo Key4biz).

Per il presidente di Google, Eric Schmidt, “Questo è il capitalismo”: “Siamo orgogliosi della struttura che siamo riusciti a creare. E’ tutto legale” (Leggi Articolo Key4biz).

 

E’ vero, si tratta di sistemi legittimi, ma in ogni caso di dubbio profilo morale.

 

Di Amazon, con sede a Seattle e quartier genere in Lussemburgo, s’è occupato ieri Report, programma televisivo di Rai3 condotto da Milena Gabanelli. Un servizio interamente dedicato al sistema di elusione fiscale adottato dal grande retailer online, ma estendibile ovviamente a molti over-the-top, che nel caso specifico riguarda anche un altro problema: il disallineamento dell’IVA tra libri di carta ed eBook, che provoca forti distorsioni sul mercato a danno dei piccoli rivenditori nazionali.

 

In Italia, l’IVA sui libri digitali è del 4% mentre per quelli di carta è del 21%. Gli editori italiani hanno chiesto alla Ue di “rispondere in modo deciso e far cessare la discriminazione tra libri di carta e libri digitali che, oltre a essere incomprensibile, è sempre più dannosa” davanti all’avanzata dei player americani, come appunto Amazon, che sfruttano vantaggi fiscali sull’IVA (Leggi Articolo Key4biz).

Ma da Bruxelles, per il caso della Francia che aveva cercato di abbassare l’aliquota, l’invio di un parere motivato e l’invito ad allineare la legge alle norme comunitarie (Leggi Articolo Key4biz), pena le sanzioni previste.

 

Per le tasse, a Report i dirigenti di Amazon non hanno saputo dare alcuna risposta: non sanno quanto fatturano, quanto vendono e poi, visto che si tratta di una società quotata in Borsa, il tutto è coperto da ‘segreto’ aziendale.

 

Ovvia l’esigenza di riformare le disposizioni Ue che consentono con una certa facilità di permettere alle multinazionali di pagare le tasse nei Paesi dov’è più conveniente, sottraendosi al pagamento delle imposte in tutti i paesi dove comunque ottengono i loro ricavi.

Sembra normale per queste invocare uno dei principi fondanti della Ue, quello della libera circolazione dei capitali, per giustificare le loro pratiche.

In tutto questo, i Big dell’hi-tech per scrollarsi di dosso ogni responsabilità sostengono anche di non avere stabili organizzazioni in Italia, Francia, Gran Bretagna, insomma in tutti i Paesi dove sono presenti con varie sedi e succursali, e per questo si ritengono assolti in partenza dagli obblighi fiscali.

Ma cosa vuole dire stabile organizzazione? Perché non devono pagare le tasse come tutti?

 

Anche gli Stati Uniti si stanno mobilitando (Leggi Articolo Key4biz) e, nel tentativo di far rimpatriare questo enorme tesoro, si comincia a discutere di revisione del sistema di tassazione dei profitti aziendali.

Dai documenti depositati presso la SEC, risulta che Apple, giusto per citarne una, ha, infatti, pagato solo 713 milioni di dollari al 29 settembre (chiusura dell’anno fiscale in America) su profitti extra-Usa pari a 36,8 miliardi di dollari, corrispondenti a un’aliquota dell’1,9%. Apple veicola la maggior parte del suo business in Europa attraverso una società con base in Irlanda, dove le tasse sulle imprese sono più basse che in Gran Bretagna: il 12,5% rispetto al 24%.

I colossi del web tengono i loro capitali nei paradisi fiscali perché, se rimpatriati, sarebbero tassati negli USA al 35%, la più alta tassa al mondo per i redditi aziendali.

 

L’amministrazione Obama aveva proposto di ridurla al 28%, le multinazionali sarebbero d’accordo ma chiedono, parallelamente, l’aumento dell’imposta sulle persone fisiche.

 

 

Per maggiori informazioni:

Enhanced administrative cooperation in the field of (direct) taxation

Fight against tax fraud and tax evasion

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