La scuola, fino ad oggi, è stata la zona ‘franca’, il posto della digital detox per milioni di studenti italiani, il luogo in cui i ragazzi utilizzano poco o per niente lo smartphone, mentre per il resto della giornata sono praticamente sempre connessi. Non a caso Michele Serra, in un suo libro, li ha definiti ‘Gli sdraiati’, perché molti giovani trascorrono le loro vite sul divano di casa con gli occhi sul cellulare.
A breve la quantità di ore di utilizzo dello smartphone aumenterà, drasticamente, per gli studenti in Italia perché i device mobili sono stati, ufficialmente, sdoganati anche tra i banchi di scuola da parte del ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, che va a cancellare il divieto imposto negli istituti scolastici dalla circolare del 2007, dell’allora ministro Giuseppe Fioroni, entrata in vigore sull’onda dei primi casi di cyberbullismo.
In queste ore, addirittura, la ministra Fedeli ha tra le mani un decalogo su come gli alunni possono usare ‘… per uso didattico e in modo responsabile’ smartphone e tablet e presenterà il nuovo manuale digitale questa sera a Bologna all’evento sulla scuola ‘Futura’.
L’iniziativa del Governo italiano non è una prassi in Europa né nel mondo.
La Francia ha di recente ampliato il precedente limite di utilizzo dello smartphone a scuola, vietandolo completamente. Dall’armadietto in cui sono custoditi i telefonini possono essere usati solo per telefonare a genitori per un motivo urgente. In Gran Bretagna già nel 2012 il 90% delle scuole l’ha vietato, in Germania la decisione spetta autonomamente agli istituti e in Baviera vige il divieto assoluto dal 2006, stesso stop totale anche negli Stati Uniti, dove solo dal 2015 New York concede agli studenti di usare lo smartphone per contattare i genitori.
In Italia, invece, si adottano smartphone e tablet alla stregua di un libro di testo. “Per conoscere, grazie alle mappe, una città; per i riassunti via Twitter, per tracciare percorsi col Gps durante una visita”, si legge da Repubblica che ha intervistato sia la ministra dell’Istruzione sia un pool esperti nominati dal Miur per scrivere le linee guida e i individuare i benefici per gli alunni delle elementari, medie e superiori che studiano con il cellulare sul banco.
L’educazione dei ragazzi nelle mani delle lobby digitali, problema di privacy
Questa scelta del ministero suscita perplessità e stimola diverse domande.
- Quali sono gli studi che dimostrano un apprendimento migliore attraverso smartphone e tablet?
- Con quali criteri sono stati scelti i componenti dei gruppi di studio chiamati a valutare l’incidenza della tecnologia sulla qualità dell’apprendimento degli studenti?
- Con quali ragioni questo pool di esperti ha dato il via libera allo smartphone in classe?
- Gli stessi ‘saggi’ hanno valutato i gravi rischi legati al cyberbullismo? Così ci sarebbero decine di ‘telecamere’ in classe, pensate a quante Facebook Live (come questa) potenzialmente attivabili, e video, anche hot, a insegnanti e a studenti (anche con ricatto). La cronaca non insegna nulla?
- È stato chiesto il parere del Garante Privacy per una decisione così invasiva e importante?
Perché qualcuno potrebbe ritenere necessario il parere dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali.
Che c’entra il Garante? C’entra eccome, perché sotto il tetto di una scuola connessa si immettono online una molteplicità di dati personali degli alunni: quando navigano anche con il Wi-Fi, quando cedono alle app ‘didattiche’ Big data preziosi per le multinazionali digitali, che con quest’imprimatur concesso sul tappeto rosso dallo Stato entrano ufficialmente anche in classe. Così si “svende la scuola alle lobby digitali”: questo è il grande rischio dell’iniziativa e forse il suo vero obiettivo. “Lo smartphone in classe è l’ultimo atto della consegna della scuola italiana alle lobby digitali. Il ministero confeziona come novità la svendita della scuola agli interessi dei colossi dell’informatica. La didattica digitale non appartiene in alcun modo alla didattica progressista e innovativa”: a scagliarsi in questi termini contro il telefonino in classe è stato il pedagogista Daniele Novara.
E ha ragione.
Negli Stati Uniti se ne sono accorti in ritardo, solo dopo aver adottato i tablet a scuola per poi scoprire che i dispositivi e servizi digitali utilizzati rubano più dati personali del dovuto senza il consenso dei genitori. Su 152 dispositivi esaminati e su 1000 questionari somministrati è emerso sia l’assenza di un sistema di crittografia sia di una policy sulla raccolta, sul trattamento e sulla diffusione dei dati (anche a terzi).
(per leggere la notizia dei tablet-spia nelle scuole americane).
La circolare che il Miur invierà alle scuole nei prossimi giorni propone di far utilizzare agli studenti i propri ‘dispositivi’ per una ‘Politica di uso accettabile (Pua) delle tecnologie digitali’. Ma, involontariamente, non si creerà una gara e una discriminazione tra i ragazzi a chi ha l’ultimo modello di smartphone e chi non ha la possibilità di permettersi neanche quello più economico?
E questa iniziativa del ministero dell’Istruzione non è forse il primo passo per poi indire, appena possibile, gare pubbliche rivolte alle multinazionali hi-tech per la fornitura delle nuove tecnologie per ‘uso didattico’?
Di sicuro qualche azienda offrirà anche gratuitamente i device a molte scuole, ben consapevole che il prezzo del gratis è la privacy e mettere quindi le mani sui dati degli studenti.
E il caso americano lo dimostra: la metà degli studenti ha il computer di Google (Chromebook) e oltre 30 milioni di alunni, insegnanti e amministratori scolastici usano G Suite Education, un prodotto in hosting per email, calendario e chat.
Milioni di Big Data di studenti e docenti per le multinazionali digitali.
Che lo Stato italiano ha deciso di cedere in nome della “cultura digitale”, che non può essere di certo trasmessa da insegnanti analfabeti digitali, nella maggioranza dei casi.