Ecco i primi dieci brand del mondo che fanno pubblicità su siti pirata. Chi salverà l’industria creativa dalla crisi?

di Raffaella Natale |

Se anche gli advertiser preferiscono i siti illegali e ingrassano questi parassiti come faranno gli artisti a sopravvivere? Ecco quanto emerge da un Report dell’USC.

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Pubblicità su siti pirata? Ormai non è un mistero, anzi è una pratica dilagante quanto pericolosa sempre più spesso adottata anche dai grossi brand.

Il mese scorso, Key4Biz aveva denunciato un banner di PagineGialle.it, subito rimosso dal gruppo dopo la nostra segnalazione, sul sito pirata mp3hulk.com (Leggi Articolo Key4biz), Solo un esempio, di un trend che preoccupa l’industria musicale e cinematografica.

L’Annenberg Innovation Lab della University of Southern California ha offerto un Report che dettaglia il supporto dell’online advertising ai maggiori siti di pirateria di musica e film del mondo.

 

Dalla nascita della radio, il business della pubblicità è sempre stato essenziale per l’economia del mercato dei contenuti. Il denaro della pubblicità ha finanziato la produzione della televisione, della musica e anche dei videogames.

 

L’ascesa di ads a supporto delle reti pirata è un fenomeno relativamente nuovo che ha fatto la sua comparsa nel 2001 con la nascita dei primi siti p2p.

 

Negli ultimi cinque anni, grazie all’ampia diffusione della banda larga, sono aumentate a dismisura le reti di pubblicità online, molte delle quali poggiano il loro business su oltre 150 mila siti pirata di entertainment.

 

Il Report ci offre la top ten dei maggiori advertising networks che fanno pubblicità su siti di file-sharing illegale. Questi sono:

 

1. Openx

2. Google (incluso Double Click)

3. Exoclick

4. Sumotorrent

5. Propellerads

6. Yahoo (incluso Right Media)

7. Quantcast

8. Media Shakers

9. Yesads

10. Infolinks

 

La lista dei maggiori siti pirata è stata compilata facendo riferimento ai dati del Rapporto sulla Trasparenza di Google con le indicazioni delle richieste di oscuramento previste dal Digital Millennium Copyright Act (DMCA).

 

Un recente Report, “The Six Business Models of Copyright Infringement“, finanziato da Google e dall’azienda PRS for Music on Brands, ha indagato sulle reti di pubblicità e sul loro supporto ai maggiori siti di pirateria del mondo.

I dati raccolti hanno evidenziato che l’advertising sostiene economicamente l’86% dei siti p2p che distribuiscono contenuti illegali.

Questo indica che chiaramente che la maggior parte dei brand non sono ancora consapevoli, o forse sì, d’essere la principale fonte economica dell’industria della pirateria.

L’obiettivo di questo Report è quindi quello di invitare queste aziende a portare le loro pubblicità lontano da questi siti che sfruttano illegalmente il lavoro dell’industria creativa per ottenere guadagni criminali.

 

La contraddizione è che anche Google appare in questa top ten, anche se la società s’è recentemente impegnata con l’industria creativa ad aumentare i propri sforzi nell’avvertire prontamente gli advertiser che le loro pubblicità appaiono su siti pirata. Dovrebbe però cominciare da sé stessa. I risultati di questi sforzi saranno visibili a partire dai prossimi mesi.

 

Nel recente Report sulla Trasparenza di Google si rileva che Filestube.com possiede oltre 2 milioni di indirizzi web denunciati per violazione di diritto d’autore.

E sono ormai tantissimi questi siti di file-sharing che sottraggono milioni di dollari all’industria creativa, rendendo molto difficile la vita degli artisti. Come possono guadagnarsi da vivere?

 

A differenza dei grandi siti legali, come Spotify, Hulu o Pandora, questi siti, infatti, arricchiscono solo le tasche dei criminali e non contribuiscono all’economia dell’arte.

Dal Report emerge anche che molti advertiser non sono consapevoli che il loro denaro ingrassa questi parassiti oppure hanno ritenuto che i vantaggi dell’arrivare a un pubblico giovane, che è solitamente quello che usa questi servizi illegali, siano maggiori della propria responsabilità sociale.

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