La rivoluzione tecnologica sembra aver travolto qualsiasi cosa, anche quell’idea stessa di Rete iperlibertaria che John Perry Barlow aveva delineato nella famosa ‘Dichiarazione di indipendenza del Cyberspazio’. È evidente che dal 1996 l’architettura tecnologica e conseguentemente il ruolo del web sia stato totalmente stravolto. Non è un caso che ormai anche la tradizionale distinzione tra online e offline sia superata in favore di quella condizione che, già qualche anno fa, Luciano Floridi, filosofo dell’Oxford Internet Institute, definiva come “onlife”.
Ebbene, nella infosfera digitale in cui l’informazione è intermediata dai colossi del web e dove le fake news si diffondono con modalità e rapidità inedite, c’è ancora spazio per i diritti?
Non è di questo avviso Barry Lynn, ormai ex direttore della sezione Open markets della New America Foundation, colpevole di aver commentato positivamente la multa da quasi due miliardi e mezzo di dollari comminata a Big G dalla Commissione europea lo scorso giugno, che negli ultimi giorni ha costretto la società a presentare degli impegni, ora all’attenzione di Bruxelles. Un connubio quello tra potere economico e pressioni lobbistiche che non conosce limiti. Non a caso anche la Commissaria Vestager, a Cernobbio, ha evidenziato con timore il fenomeno, e un’inchiesta del Wall Street Journal ha recentemente sottolineato che Google avrebbe velatamente finanziato diversi papers accademici per asseverare la propria posizione di non dominanza nei mercati di riferimento.
In questo scenario, riecheggia la frase “The Internet is broken”: la Rete, nata come uno spazio libero, refrattario alle regole, ma modello di democrazia partecipativa in cui gli utenti divengono allo stesso tempo consumatori e produttori dei contenuti, in cui l’intermediazione compiuta dalle elite e dai giornali è superata a fronte di un sapere libero, rischia oggi invece di delineare un nuovo e oscuro Medioevo.
Certo dobbiamo essere consapevoli che per “riparare Internet” occorre uno sforzo particolarmente complesso, ma altrettanto necessario. Le dinamiche della Rete ci hanno posto dinanzi a fenomeni complessi: alle notizie false, ai pericoli di manipolazione dell’opinione pubblica; ci hanno esposto allo sfruttamento dei dati utilizzati per manovrare le nostre scelte di consumo. In questa battaglia purtroppo i risultati non sono ancora soddisfacenti. Del resto l’assenza di un sistema di regole e una situazione di sostanziale e quasi incontrastata dominanza di questi operatori determina notevoli criticità. Una su tutte: la “manipolazione delle masse”. In Rete i colossi del web finiscono con l’ergersi a fonti di narrazione di “fatti alternativi”, in una realtà in cui – per riprendere Nietzsche – non ci sono fatti, ma esistono solo interpretazioni.
Ecco che allora, in questo scenario, le dichiarazioni dell’ex direttore Lynn e le inchieste d’Oltreoceano pesano come un macigno, delineando un sistema in cui la formazione delle opinioni sembra divenire ad appannaggio degli interessi di nuove lobbies.
Le piattaforme digitali, diventate ormai delle entità statuali, si autodefiniscono comunità, dettano leggi rigorosissime e forniscono la dieta informativa per ciascun utente, ma è quando intervengono massicciamente anche a livello istituzionale o accademico che si comprende come il ruolo – e la responsabilità – di questi soggetti siano davvero mutati.
Al di là delle possibili autoregolamentazioni prospettate dagli operatori di Internet, non v’è dubbio che i tempi siano maturi perché i pubblici poteri individuino regole idonee nei confronti degli oligopoli tecnologici. Del resto il principio del winners take all non può prevalere anche sulla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali: è tempo di decidere se regolare gli OTT o rimanere inermi dinanzi al loro strapotere.