Inutile negarlo: buona parte degli allarmi su un controllo delle nostre vite da parte dei grandi player digitali spesso si riducono a mero complottismo, accuse infondate e un pizzico di paranoia. D’altra parte una scrollata di spalle non può essere sufficiente per considerare l’evoluzione di istituzioni e mercato attraverso Internet alla stregua di puro, luminoso progresso, senza implicazioni di alcun genere per gli utenti. Il caso Snowden ha dimostrato come la politica possa e sappia tenerci sotto controllo, per motivazioni più o meno nobili, ma anche i soggetti privati – proprietari degli strumenti software a cui ci rivolgiamo ogni giorno – sanno molto di noi e delle nostre abitudini.
Google, ad esempio. Che sulle modalità di navigazione, sui siti visitati, sulle ricerche che gli utenti fanno ha costruito un impero pubblicitario in grado di offrire annunci mirati, sui quali la freccia del mouse si sofferma più di frequente. Il fatto è che le pubblicità sul web, ormai, hanno raggiunto una concentrazione impressionante, che fa quasi rimpiangere i vecchi banner di una decina di anni fa: senza la precauzione di un adblocker, video che partono da soli in autoplay e crocette striminzite da cliccare (ma solo dopo 15 o 20 secondi) fanno perdere la pazienza anche ai più stoici.
L’adblocker a misura di Google
È di qualche giorno fa la notizia che Google ha deciso, per una futura versione del suo browser Chrome, di includere un adblocker “fatto in casa” in grado di bloccare le pubblicità. Non tutte – a Mountain View non spiccano per masochismo – ma solo quelle particolarmente fastidiose. E come definirle? Con il mancato rispetto dei parametri stabiliti dalla Coalition for Better Ads. Di cui, guarda caso, fa parte proprio Big G.
Insomma, Google avrebbe (il condizionale è d’obbligo) un’ottima arma, se non per far passare solo le “sue” pubblicità, per ostacolare la concorrenza in ambito pubblicitario. Intanto, per non causare il fallimento immediato di tutte le piccole realtà che si mantengono proprio grazie agli inserti pubblicitari, sono stati pensati due strumenti: Funding Choice (che permetterà agli editori di mostrare agli utenti un messaggio personalizzato, come già succede con AdBlock oggi, dove si invita a disattivare il filtro per quel sito) e Google Contributor, per acquistare un pass in grado di rimuovere tutte le pubblicità. Per il momento, sapendo che Chrome ha una quota del mercato browser superiore al 50%, non stupisce che si siano levate molte voci critiche verso il colosso americano.
Google, Facebook e gli altri: chi comanda nella pubblicità
Ma quant’è lo spazio di Google (e di Facebook, di Amazon e degli altri dominatori digitali: insomma, i cosiddetti “Over the top”) nell’ecosistema pubblicitario mondiale? E in Italia? A rispondere ci ha provato l’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, durante la presentazione dei dati sugli Internet Media dello scorso 14 giugno.
Secondo l’analisi, come hanno illustrato Andrea Lamperti, Direttore dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, e Giuliano Noci, responsabile scientifico dell’Osservatorio Internet Media, il 67% degli investimenti totali è assorbito proprio dai grandi big del web. In particolare, il dominio di Google e soci è incontrastato nell’ambito mobile, con una percentuale pari addirittura all’82%.
In questo senso, l’Italia si trova in una posizione un po’ particolare. Da sempre una nazione di utenti di telefonino e poi smartphone, tanto che l’anno scorso il 60% del tempo online è trascorso proprio con uno di questi dispositivi in mano, è in qualche modo ancora poco coinvolta dalla pubblicità mobile: questa infatti rappresenta solo il 30% del totale di quella online, e il tablet non si discosta di molto (5% del mercato pubblicitario).
Insomma, se è vero che siamo compulsatori di smartphone, con la complicità di offerte sempre più convenienti per i gigabyte di traffico (su SosTariffe.it si possono trovare le migliori occasioni per Internet Mobile), la maggior parte della pubblicità passa ancora attraverso il desktop, come se ci fosse un certo ritardo rispetto a un cambiamento di abitudini ormai conclamato. Per la verità si tratta di un ritardo che diminuisce giorno dopo giorno, visto che l’anno scorso la pubblicità sui device mobili ha raggiunto i 706 milioni di euro, con una crescita pari al 54% in più.
La situazione dell’Italia
Il ritardo italiano, di solito cronico su queste cose, è al tempo stesso una notevole opportunità per chi si sa muovere per tempo. In molti non hanno ancora reso il proprio sito responsive anche per dispositivi mobili, e navigare una homepage pensata per PC con il proprio smartphone è un’esperienza così frustrante da far rischiare di perdere non pochi clienti.
Anche perché la pubblicità ormai si sta sempre più spostando sul web: la televisione in Italia la fa ancora da padrone (controlla il 50% del mercato, con una crescita del 5%), ma gli ad via Internet aumentano a una velocità quasi doppia: 30% del mercato e +9% rispetto al 2015. A farne le spese è la stampa, sempre più in crisi (-6%), con una quota che rispetto al 2008 si è praticamente dimezzata. Nel resto d’Europa la situazione è già ben diversa, visto che in molti Paesi Internet ha superato i “vecchi” media e ora guida saldamente la classifica.
In particolare, sono i video a “tirare” di più: secondo Andrea Lamperti, “la componente video pesa già il 22% del totale Internet advertising e rappresenta il formato che nell’ultimo anno è cresciuto di più in valore assoluto; nel 2017 si prevede un’ulteriore crescita intorno al 35%, che la porterà a rappresentare oltre un quarto del totale Internet, grazie non solo alla raccolta all’interno delle piattaforme di social network ma anche alla crescita di molti altri player e alla diffusione di nuovi formati out-stream a fianco di quelli in-stream”.
Ma un vero e proprio boom si è verificato anche per il Native advertising, per molti la vera frontiera della pubblicità del futuro, l’ibrido tra contenuto e annuncio pubblicitario – nello stesso stile e dallo stesso team del sito che lo ospita – che invece di distrarre il lettore lo coinvolge. Che sia questa la via per resistere agli onnipresenti Google ads? Sempre ricordando che l’app in assoluto più utilizzata è l’unica che non monetizza ancora (ed è di Facebook): WhatsApp.
Fonti: http://www.osservatori.net/it_it/osservatori/executive-briefing/la-internet-advertising