Sebbene debba affrontare difficili sfide legate all’evoluzione della tecnologia e al conseguente affermarsi di nuovi modelli di business, per tacere dei problemi derivanti dalla persistente piaga della pirateria, il settore dimostra una notevole vitalità. Secondo lo studio “Italia creativa” di Ernst & Young, nel 2015 l’audiovisivo si è confermato come il settore più importante nell’ambito dell’industria culturale, di cui rappresenta circa il 34% in termini di ricavi, con una crescita, rispetto all’anno precedente, dell’1,6%, riconducibile totalmente al trend positivo del comparto del cinema.
La legge cinema ha senz’altro recato un contributo significativo a questo fine. E non c’è nemmeno bisogno di consultare i dati statistici per cogliere i segnali di rinascita – culturale, prima che economica – del nostro cinema, dopo anni di declino prima e di stagnazione poi.
La dimensione dei problemi, però, travalica l’ambito nazionale. Come l’Agcom ha avuto modo di rilevare in due indagini conoscitive, concernenti rispettivamente la televisione 2.0 nell’era della convergenza e la produzione audiovisiva, gli operatori tradizionali si trovano a dover competere con nuovi players che non soggiacciono agli stessi obblighi e non sono gravati dalle stesse responsabilità. Vi è dunque una situazione di asimmetria normativa, più volte denunciata dall’Autorità e finora, purtroppo, senza alcun significativo riscontro.
Il settore audiovisivo deve inoltre scontare l’handicap del value gap, ossia del divario tra i ricavi degli intermediari che distribuiscono in rete i contenuti prodotti dal settore stesso e il valore riconosciuto ai titolari dei diritti, divario che le stime quantificano in almeno 200 milioni di euro l’anno.
Si tratta, com’è palese, di problemi che non possono essere efficacemente affrontati e risolti se non a livello europeo. Per questo è stato salutato con grande favore e accompagnato da grandi speranze l’intento di promuovere, nell’ambito della Strategia europea per il Digital Single Market, la creazione di un mercato interno per i servizi e i contenuti digitali, se non unico, almeno fortemente armonizzato. La Commissione ha posto l’accento soprattutto sull’obiettivo di favorire un più ampio accesso online ai contenuti da parte degli utenti in tutta l’Unione. Obiettivo senz’altro condivisibile, ma che deve coniugarsi con l’esigenza – non meno rilevante e anzi pregiudiziale – di tutelare adeguatamente la posizione di coloro che quei contenuti creano e producono. Giunge quindi molto opportuna la forte sottolineatura di questa esigenza contenuta già nelle prime righe della Dichiarazione congiunta sottoscritta pochi giorni or sono dal nostro Governo e da quello francese.
Fatta questa premessa, ritengo che la proposta di Regolamento SAT-CAB debba essere valutata insieme con il complesso dei provvedimenti che compongono il “pacchetto copyright”, nonché con la proposta di Direttiva sui servizi di media audiovisivi (SMAV). E dico subito che, malgrado alcuni aspetti positivi, nel complesso i risultati appaiono, purtroppo, largamente inferiori alle attese.
La proposta di Direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale estende opportunamente agli editori le tutele recate dalla direttiva 2001/29. Per quanto riguarda più specificamente i temi di cui ci occupiamo oggi, rileva la disposizione secondo la quale i prestatori di servizi debbono adottare misure volte a impedire che siano messe a disposizione sulle loro piattaforme, senza il consenso dei titolari dei diritti, opere identificate da questi ultimi come protette da diritto d’autore. Si tratta però di una misura di per sé insufficiente e dall’efficacia limitata.
Sarebbe quindi auspicabile che la versione definitiva della Direttiva recasse nell’articolato – come proposto dai rappresentanti dell’Agcom nel Tavolo tecnico istituito presso il Dipartimento per le politiche europee – la previsione contenuta nel considerando 38, ossia l’imposizione, a carico dei prestatori che pongono in essere un atto di comunicazione al pubblico, di un obbligo di concludere previamente accordi di licenza con i titolari dei diritti.
A sua volta, la proposta di Direttiva SMAV ha il merito di far emergere, per la prima volta nel diritto dell’Unione, le piattaforme di video-sharing. Il testo presentato, tuttavia, incide molto parzialmente sulla denunciata asimmetria normativa, in quanto si limita a porre a carico delle piattaforme stesse solo alcuni obblighi in materia di tutela dei minori e di incitamento all’odio.
La stessa proposta di Direttiva SMAV ribadisce inoltre – e anzi rafforza – il principio del Paese d’origine. La proposta di Regolamento SAT-CAB si inscrive nello stesso solco, imponendo l’applicazione di tale principio per la trasmissione transfrontaliera dei servizi online accessori.
L’Agcom ha espresso al riguardo una posizione fortemente critica già nell’ambito della consultazione promossa dalla Commissione europea sulla proposta di Direttiva SMAV. Anche la Dichiarazione congiunta italo-francese manifesta, molto autorevolmente, una netta contrarietà all’estensione del principio del Paese d’origine.
Questo principio, in effetti, rischia di favorire una sorta di dumping normativo, in quanto incentiva i fornitori di servizi di media a stabilirsi nei Paesi con una regolamentazione più favorevole.
E se è vero che il principio del Paese di destinazione potrebbe costringere gli operatori ad adattare le loro produzioni a differenti regimi giuridici, è ancor più vero, all’opposto, che il principio del Paese d’origine crea inevitabilmente, nei singoli mercati nazionali, una concorrenza diseguale fra operatori che erogano i medesimi servizi.
L’alternativa Paese d’origine/Paese di destinazione dovrebbe richiamare alla mente, agli studiosi di storia del diritto, la contrapposizione fra i meno evoluti sistemi giuridici fondati sul principio della personalità della legge e quelli degli Stati moderni, fondati invece sul principio della territorialità. In effetti, portarsi dietro, nei singoli mercati nei quali si opera, il diritto del Paese nel quale si è stabiliti equivale in un certo senso a negare il carattere territoriale delle norme giuridiche, che connota, come ho appena detto, l’ordinamento dello Stato moderno.
Inoltre, l’applicazione del principio del Paese d’origine appare manifestamente incongrua nei confronti del settore dei servizi internet, relativamente ai quali lo stesso concetto di “stabilizzazione” altro non è, in realtà, che una mera finzione giuridica.
La riaffermazione del principio del Paese d’origine non tiene conto, tra l’altro, del fatto che proprio in materia di tutela del diritto d’autore online a tale principio si è espressamente – e opportunamente – derogato, a suo tempo, con la Direttiva e-commerce (2000/31).
A proposito di quest’ultima, ho già avuto occasione, più di una volta, di esprimere il mio rammarico per il fatto che nell’ambito della Strategia per il Digital Single Market non si sia inteso procedere a un aggiornamento del regime di responsabilità dei prestatori di servizi così come definito nella Direttiva stessa.
Nella Comunicazione sulle piattaforme online del 25 maggio 2016 la Commissione europea ha anzi affermato a chiare lettere di non voler intervenire sulla disciplina recata al riguardo dalla Direttiva e-commerce.
Questo orientamento conservatore non può che stupire, quando si considerino l’evoluzione della tecnologia e il conseguente mutamento delle abitudini degli utenti intervenuti nel periodo trascorso dall’emanazione della Direttiva. Oltre tre lustri, che è come dire un’era geologica in termini di sviluppo dell’industria digitale. Oggi le piattaforme incidono in maniera significativa, attraverso le funzioni di ricerca, sulle scelte dei consumatori: non ha più molto senso, quindi, considerarle in ogni caso esenti da ogni forma di responsabilità editoriale. Non meno che il diverso regime degli obblighi, questa ingiusta differenziazione in tema di responsabilità contribuisce così a determinare la persistente situazione di asimmetria che penalizza i fornitori di servizi di media a causa del ritardo con il quale i sistemi normativi si adeguano alla realtà del mercato.