Questa mattina a Roma si è avuta l’ennesima riprova sia delle tante “contraddizioni interne” delle industrie culturali italiane, sia dell’infinito deficit di conoscenza delle stesse.
Il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (Sncci), presieduto da Franco Montini (firma de “La Repubblica”, specializzata sulla politica cinematografica), ha promosso un dibattito veramente stimolante, tenutosi presso la sede dell’Agis in via di Villa Patrizi, insieme alla Federazione Italiana Cinema d’Essai (Fice), scherzosamente intitolato “Dica 33. Consulto sul cinema italiano”, con l’intento di proporre una anamnesi e diagnosi della nostra cinematografia. Nessuna particolare pretesa di prognosi e terapia…
Quattro i relatori coinvolti: Riccardo Tozzi (fondatore di Cattleya e fino a qualche mese fa Presidente dell’Anica, carica poi assunta da Francesco Rutelli), Domenico Dinoia (esercente cinematografico lucano ma milanese di adozione, e Presidente della Fice), Fabio Ferzetti (critico cinematografico de “il Messaggero”), Daniele Vicari (regista, sceneggiatore – da “Velocità Massima” a “Diaz – Don’t Clean Up This Blood” – ed attivista).
Particolarmente apprezzabile la franchezza (estrema) manifestata dai primi due relatori, che si sono ovviamente concentrati sugli aspetti più strutturali, tecnico-economici.
Il quadro emerso ha evidenziato una situazione disastrosa: una lettura dei fenomeni in atto che sembra lontana anni-luce rispetto all’ottimismo cui ci ha abituato il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini, che giustappunto un mese fa ha presentato un breve bilancio dei primi tre anni di Governo, che si apriva con uno stentoreo “L’Italia è una superpotenza culturale” (verrebbe da commentare – con il simpatico ritornello di un vecchio “Carosello” – “cala, cala, cala, Trinchetto…”), e rimarcava nel dossier come la nuova legge cinema, approvata a fine 2016, determini un incremento del 60% nei finanziamenti pubblici destinati al settore, con la stabilizzazione di risorse certe nell’ordine di almeno 400 milioni di euro l’anno. Il 1° dicembre 2016 il Ministro Franceschini aveva annunciato un ulteriore potenziamento del tanto decantato “tax credit” a 200 milioni di euro.
Infatti, al di là del fenomeno di Checco Zalone (che tende a “falsificare” le statistiche, attribuendo al cinema italiano un successo maggiore di quel che può apparire a prima vista), la “quota di mercato” del cinema italiano è in forte decrescita, se non addirittura… in caduta verticale. Insomma, gli italiani vedono in sala assai poco cinema “made in Italy”.
Riccardo Tozzi teme che lo “share” del cinema italiano possa addirittura scendere al 10%, come consuntivo di fine anno. Nei primi tre mesi del 2017, siamo intorno al 20%, allorquando il consuntivo dell’anno 2016 aveva registrato un 29%, a fronte del 21% dell’anno 2015 (sempre al lordo dell’effetto-Zalone).
Il Past President dell’Anica (che pure ricordiamo celebrare i fasti dell’industria cinematografica italiana, pochi anni fa) ha voluto usare il grandangolo per contestualizzare la crisi del cinema italiano in sala all’interno di uno scenario mediale radicalmente cambiato, nel quale il laboratorio semantico ed economico dell’immaginario è ormai rappresentato soprattutto dalla serialità televisiva. A livello mondiale, si producono ormai oltre 500 serie televisive all’anno, e spesso sono questi prodotti audiovisivi a rappresentare il territorio di ricerca di nuovi linguaggi (assumendo paradossalmente la funzione che un tempo era assolta dal cinema d’avanguardia…).
Le serie televisive consentono peraltro ai produttori, secondo Tozzi, una maggiore libertà rispetto al cinema, perché si tratta di opere che non sono costrette a confrontarsi con la quantificazione immediata del pubblico, con un “box office” subitaneo: il vero successo di una serie televisiva si misura infatti nel medio-lungo periodo, attraverso l’accumulazione delle visioni, tra repliche nel tradizionale palinsesto e fruizioni individuali “on demand”.
Paradossalmente – secondo Tozzi – l’economia della televisione a pagamento affranca il produttore della serie televisiva dalla schiavitù dell’audience, ma non – osserviamo noi – dalla schiavitù del “decision maker”, ovvero il “broadcaster” (o finanche ormai la “piattaforma”) che decide di co-produrre o acquistare la serie: un bel problema la selettività autocratica del “gate-keeper”, no?! Meglio questo “selettore” che il pubblico?! Siamo sicuri?!
Tozzi, che può essere senza dubbio considerato il più potente e ricco produttore cinematografico-televisivo d’Italia (si pensi alla ormai mitica “Gomorra”: vedi “Key4biz” del 9 maggio 2016, “Sky presenta ‘Gomorra 2’, eccellente fiction Made in Italy”), ha confessato di sentirsi ormai più intrigato dall’idea di produrre una “serie tv” che un “film cinematografico”, al punto tale che la sua stessa società da quest’anno produrrà forse 2 ma più verosimilmente soltanto 1 film “theatrical” (a fronte dei 4 o 5 degli anni precedenti), concentrandosi piuttosto sulla produzione di serie televisive. Si ricordi peraltro che Tozzi è uno dei soci della “start-up” promossa da Sky Italia, quella Vision Distribution, neo braccio operativo della “pay tv” nel settore cinematografico (affidata alla guida di Nicola Maccanico, già a capo della Warner Bros Italia): società (cui partecipano, oltre a Cattleya, altre 4 tra le maggiori società italiane di produzione indipendente, ovvero Indiana, Lucisano Media Group, Palomar, Wildside), che dovrebbe presto porsi all’attenzione del mercato anche per innovative modalità promozionali nel business “theatrical”.
Una volta prodotto un film, ci si scontra in Italia con un mercato della distribuzione… arcaico, dato che utilizza le stesse tecniche promozionali dell’era pre-internet: anche film eccellenti sono quindi costretti a subire le conseguenze di un mercato strutturalmente obsoleto, senza dimenticare il dramma di una “stagione” che – nella sua limitatezza – è unica al mondo (in Italia, d’estate il cinema in sala è già bello che morto)…
Non c’è legge che, per quanto efficace, possa migliorare la situazione – secondo Tozzi – se non si attiva un “mutamento di paradigma culturale”, sia nella sfera artistica sia nella sfera economica, che prenda atto dei mutati scenari.
Il Presidente della Fice Domenico Dinoia ha di fatto confermato lo scenario disastrato tratteggiato da Tozzi: cifre alla mano, ha segnalato come, degli oltre 200 film cinematografici (lungometraggi destinati, almeno sulla carta, alla sala) che risultano prodotti ogni anno in Italia, circa due terzi vengono distribuiti in un numero di copie inferiore a 10, il che li rende automaticamente… “invisibili”. Questa “inflazione produttiva” è determinata prevalentemente dai flussi di finanziamento pubblico (che nel 2017 saranno intensificati, grazie alla nuova legge), ma non stimola in verità l’estensione del pluralismo artistico-culturale, perché queste opere finiscono per non essere viste da nessuno (se arrivano a vedere il buio della sala è un miracolo, e vengono disprezzate anche dalle emittenti televisive, finendo per circolare in circuiti di improbabili festival, quasi a circolazione… familiare!). è stata ricitata una amara battuta di Ettore Scola: “fagli dirigere pure un film, tanto sarà la sua opera prima e… ultima!”. Insomma – come dire?! – un film d’esordio non lo si nega a nessuno, grazie allo “Stato Pantalone”.
Il critico de “il Messaggero” Fabio Ferzetti, che ha affrontato le criticità del sistema in un’ottica ovviamente più estetologica (“si può parlare oggi, ancora, di cinema italiano?”, o assistiamo piuttosto ad una “esplosione di frammenti” ben lontani dall’idea di cinema che abbiamo avuto per decenni?!), non ha usato mezzi termini: abbiamo a che fare con una produzione spesso “parassitaria”, con pseudo-produttori che nulla rischiano, anzi sono soddisfatti se riescono a produrre un film perché ciò garantisce loro comunque un margine di lucro (ed anche l’aspirante “autore” è contento, ovviamente). Di fatto, approfittano della generosità di uno Stato che non controlla in alcun modo l’efficacia dell’intervento della mano pubblica…
Il regista Daniele Vicari ha messo il dito su una delle più gravi criticità del settore, ovvero l’assenza di una capacità di “politica cinematografica e audiovisiva” realmente unitaria ed organica: “Uno dei problemi principali è la mancanza di solidarietà tra le parti della filiera. Autori, esercenti, distributori, produttori: invece di restare sulle nostre posizioni dovremmo fare sistema. Restare fermi non fa altro che indebolirci nei confronti delle cinematografie straniere”. È una tesi coraggiosa e controcorrente, che dovrebbe stimolare una riflessione accurata sull’eccesso di policentrismo e di esasperazione tra piccole e grandi “lobby”: ricordiamo peraltro che l’anima “autoriale-artistica-tecnica” del cinema italiano non è stata coinvolta nella fase di consultazione antecedente alla stesura della proposta di legge governativa (che ha visto invece coinvolti i “player” economici: da Anica ad Apt per arrivare a Rai e Mediaset e Sky), ma è stata ascoltata soltanto (e nemmeno tanto) durante l’iter parlamentare. Qualcuno ha addirittura ritenuto che la creazione del Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo abbia rappresentato una sorta di “compensazione” voluta da Franceschini per sanare un errore (deficit di ascolto e di coinvolgimento) di un Ministro culturalmente a sinistra.
Se la diagnosi è preoccupante, quel che stupisce è che nessuno dei relatori abbia posto l’accento sull’esigenza di studi di scenario ed analisi di mercato che possano consentire allo Stato di correggere le storture del sistema, e di evitare quella che sembrerebbe essere una “cronaca di una morte annunciata”.
Se le cose stessero come hanno sostenuto oggi Tozzi e Dinoia, il cinema italiano sarebbe veramente finito, al di là delle autocelebrazioni dei “Nastri d’Argento” (ieri sera, bella kermesse all’Auditorium, per celebrare i 70 anni del premio, promossa dal Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici – Sngci) o dei “David di Donatello” (lunedì prossimo, organizzata dall’Accademia del Cinema Italiano, con Sky Italia subentrata a Rai).
Diverte osservare che i dati impietosi rivelati da Dinoia (frutto di un suo studio personale) non sono mai stati oggetto di attenzione nella “documentazione” statistico-analitica, di fonte istituzionale ed ufficiale: non se ne ha notizia nella “Relazione annuale” sul Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) che il Ministero trasmette al Parlamento (l’ultima, relativa al 2015, soltanto a dicembre 2016), né nei report prodotti dalla Direzione Cinema del Mibact, né nell’annuale dossier pomposamente intitolato “Tutti i numeri del cinema italiano” co-realizzato da Dg Cinema Mibact e Anica (l’ultima edizione è stata presentata il 13 luglio 2016), né infine nel rapporto “Il mercato e l’industria del cinema in Italia” realizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo (Cei) e generosamente finanziato dal Ministero (un’anticipazione dell’edizione annuale è stata presentata il 14 luglio 2016, ma si resta in attesa della versione definitiva)…
Di questo deficit di conoscenze, tante volte abbiamo scritto su queste colonne, lamentando i frequenti “numeri in libertà”, ovvero dati parziali e controversi (vedi “Key4biz” del 15 luglio 2016: “Come sta il cinema in Italia?! Diagnosi dubbia, terapia incerta”). Numeri in libertà che hanno fatto titolare (in occasione della presentazione del report Anica) una testata che pure dovrebbe essere attenta all’economia, qual è il confindustriale “Il Sole 24 Ore”: “Film italiani, al 46% la quota di mercato”, con un richiamo in prima pagina che recitava “Il cinema italiano a gonfie vele”, a firma di Andrea Biondi, che, nell’incipit dell’articolo evocava addirittura una “ricetta della felicità”!
Come mai queste nude ed amare verità emergono soltanto in congressi specialistici come quello odierno, ben qualificato, e non nei documenti ufficiali che dovrebbero ispirare l’azione di governo?! Come mai queste crudeli descrizioni dello “stato delle cose” non sono state registrate nel corso dell’iter della legge cinema ed audiovisivo?!
È questo il risultato delle lunghe consultazioni che Dario Franceschini ed Antonello Giacomelli hanno promosso per addivenire alla tanto attesa nuova legge cinema e audiovisivo, che garantisce un generoso profluvio di danari pubblici senza che nessuno abbia mai effettuato un minimo di studi per valutare gli effetti sul mercato di questo intensificato intervento dello Stato?!
E come diavolo è possibile che questa mattina in Agis nessuno abbia nemmeno citato il ruolo che la Rai ha, e meglio potrebbe avere, per sanare almeno alcune patologie del sistema cinematografico italiano, in primis l’assenza di una adeguata promozione televisiva del “made in Italy” audiovisivo?
Ci si dimentica che è in gestazione la convenzione / concessione / contratto di servizio: strumenti che potrebbero apportare un contributo determinante per una sana ecologia mediale del nostro Paese. Ma, per far questo, serve una strumentazione tecnica adeguata: che non c’è. Il deficit della “cassetta degli attrezzi” continua ad essere inquietante. Nel mentre… numeri-in-libertà… parole-parole-parole… tesi di parte e partigiane… tirando ognuno l’acqua al proprio mulino sopravvivenziale. Nel mentre, il “paziente” (l’anima creativa dell’immaginario italiano, tra cinema, tv e web) peggiora.
Ad essere maligni, si potrebbe ipotizzare che certamente Anica, ma forse anche Fice e Sncci, non usano i megafoni per rivelare queste verità, ma le sussurrano dialetticamente in consessi riservati (meno di trenta i partecipanti all’incontro odierno, nessuna divulgazione via web, nemmeno un dispaccio di agenzia stampa), perché anch’essi beneficiari – in diversa misura ovviamente – delle vecchie e nuove leggi…
Nessuno sembra aver posto l’attenzione su un’altra degenerazione del sistema: l’incremento delle risorse pubbliche destinate al “tax credit”, che spostano paradossalmente il processo selettivo del sostegno statale dalla mano pubblica al libero mercato…
Ed oggi stesso, mentre si svolgeva il dotto convegno in Agis, sette associazioni del cinema italiano (tra le quali anche lo stesso Sncci co-organizzatore dell’incontro) diramavano un comunicato stampa segnalando di aver inviato una lettera a Stefano Rulli, Presidente del Consiglio Superiore del Cinema e Audiovisivo (Csca), per richiedere un primo incontro con l’organo consultivo del Ministero, insediatosi ieri mercoledì 22 marzo (sul Csca, vedi “Key4biz” del 7 marzo 2017, “Nominato il Consiglio Superiore del Cinema e Audiovisivo). L’obiettivo è di consegnare la “proposta unitaria” relativa alle norme di attuazione della nuova “legge cinema”, condivisa da autori, produttori, critici, direttori di festival e industria tecnica. I co-firmatari della lettera sono: Anac (Associazione Nazionale Autori Cinematografici), Wgi (Writers Guild Italia), Agpci (Associazione Giovani Produttori Cinematografici Indipendenti), Sncci (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani), Afic (Associazione Festival Italiani di Cinema), Pmi/Cna (Piccole Medie Imprese Cinema e Audiovisivo).
Sarà proprio il Consiglio Superiore, infatti, a dettare le linee-guida per la scrittura dei tanti “decreti” indispensabili per dare attuazione alla nuova legge. Fondamentale, per i firmatari del documento, è il rispetto delle norme europee pensate per sostenere la produzione e la distribuzione indipendente: in particolare, si ritiene che i decreti dovranno contenere regole ferree per escludere dal beneficio del “credito d’imposta” i broadcaster e le società ad essi collegate (sulla base di quanto è stabilito da Bruxelles). Secondo le sette associazioni, “la definizione dei decreti può, infatti, cambiare radicalmente lo spirito delle norme primarie. È il caso, ad esempio, del dispositivo che concede un credito d’imposta del 40% ai produttori che distribuiscono i propri film. Tale dispositivo, pensato per aiutare gli indipendenti, se fosse esteso alla distribuzione dei ‘film di Natale’, andrebbe nella direzione diametralmente opposta alle intenzioni del legislatore”.
La situazione appare veramente complessa e confusa, e temiamo che il Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo possa finire per divenire una sorta di “difensore d’ufficio” delle decisioni del Ministro, una “schermatura” tecnica di decisioni ideologiche, a fronte di una legge che – va denunciato a chiare lettere, senza temere il delitto di lesa maestà – non è certo stata granché basata su criteri di “evidence-based policymaking”.
In contemporanea all’incontro in Agis, sala invece affollatissima al Palazzo delle Esposizioni, dove veniva presentata con toni entusiasti la riapertura di Cinecittà World, il parco a tema che da alcuni anni è stato creato a Castel Romano, sulla via Pontina, ad una decina di minuti dal Grande Raccordo Anulare (Gra) di Roma: da sabato 25 marzo, i visitatori potranno scoprire un nuovo parco, arricchito con sei aree a tema, dieci nuove attrazioni, sette spettacoli al giorno… Gran parte delle nuove attrazioni sono centrate su evocazioni spettacolari della mitologia cinematografica, da “Il Gladiatore” a “La Dolce Vita”.
Annunciata una riduzione dei prezzi, che conferma evidentemente una qualche criticità nel “business-plan” di questo controverso parco a tema, che, secondo alcuni, non è peraltro mai riuscito a realmente decollare, nonostante dia lavoro a circa 300 persone (il quotidiano “La Notizia”, un anno fa, titolava “Abete, Della Valle, De Laurentiis. E quel flop del parco divertimenti di Cinecittà World che strangola le imprese”). Presentazioni efficaci, ambizioni grandiose, annunci ottimisti: “stiamo lavorando a un modello di ‘experience park’, dove l’ospite può toccare con mano quello che normalmente vede al cinema o in televisione”, ha commentato Stefano Cigarini, amministratore delegato di Cinecittà World.
Assistendo a questa presentazione, con i suoi prevedibili fuochi d’artificio, un senso di sconforto ci ha preso: a poche centinaia di metri dalle due “location”, in una si celebrava una sorta di requiem del cinema italiano, nell’altra una retorica illusionistica dello stesso in chiave ludica… Ci piacerebbe sapere cosa ne pensano il Ministro Dario Franceschini ed il Direttore Generale del Cinema Nicola Borrelli.