Si è tenuta ieri presso la Camera dei Deputati, nella sala intitolata ad Aldo Moro, la presentazione romana del pamphlet di Massimo Scaglioni “Il servizio pubblico televisivo. Morte o rinascita della Rai?”, edito per i tipi di Vita & Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica di Milano: un’interessante occasione di dibattito sul futuro del servizio pubblico radiotelevisivo italiano.
Annunciato ma purtroppo assente ingiustificato il relatore forse più atteso, il Direttore Generale di Viale Mazzini Antonio Campo Dall’Orto.
La presentazione è stata introdotta da Ernesto Preziosi, deputato del Partito Democratico, ed è stata moderata da Massimiliano Panarari, editorialista de “La Stampa” (nonché autore di un indimenticato pamphlet, “L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip”, pubblicato nel 2010 da Einaudi).
L’occasione è stata comunque ghiotta, anche perché ha consentito di acquisire una versione aggiornata del pensiero governativo in materia: “rectius”, del pensiero di una delle anime governative ovvero il Sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli.
Giacomelli non ha annunciato alcuna previsione sulla tempistica della ormai quasi “mitica” concessione/convenzione: e già questo la dice lunga. In compenso, ha manifestato – ci sembra per la prima volta – una sensazione di complessiva insoddisfazione rispetto all’elaborazione strategica sui futuri possibili della Rai che l’esecutivo si attendeva… dal Paese. Ha rinnovato per l’ennesima volta l’orgoglio per la quantità di cittadini che hanno risposto alla consultazione “CambieRai” promossa dal Governo (9.156 “risposte”), ribadendo che si è trattato di una quantità “superiore” a quella registrata in Regno Unito a proposito della Bbc (7.666 “risposte”), ma, ancora una volta, ignorando – certamente in buona fede – che in Uk ai rispondenti al “questionario online” si è affiancata una massa di 20 volte tanto di cittadini che hanno risposto per email, e finanche per posta ordinaria, alla sollecitazione del governo: alla consultazione britannica hanno infatti complessivamente partecipato ben 192.000 cittadini (ne abbiamo scritto in dettaglio su “Key4biz” del 4 gennaio scorso: “Fra proroghe e rinvii, la Rai naviga a vista”).
Quella britannica è stata sì una consultazione popolare, non quella italiana. Rispetto a queste numerologie, il collega Michele Mezza ha peraltro ironicamente segnalato – su queste stesse colonne – come la quantità dei “rispondenti” italici (circa 9mila) sia comunque stata inferiore al numero stesso dei dipendenti Rai (circa 13mila): e ciò la dice lunga, in termini di “appeal” della procedura di consultazione promossa dal Governo.
Forse Giacomelli deve porsi qualche quesito sulla impostazione dell’iniziativa, se a distanza di sei mesi dalla conclusione della tanto decantata consultazione (i risultati sono stati presentati presso la Camera dei Deputati a fine luglio 2016), ritiene – da cittadino e da politico di professione – che il “Paese” non abbia risposto adeguatamente: si riferisce forse all’accademia? forse ai professionisti del sistema mediale? forse alle associazioni di settore?! forse alla società civile?!
Eppure – di grazia – occasioni di stimoli per il governo… ce ne sono state, eccome, se soltanto l’esecutivo avesse mostrato la sensibilità di coglierle, metabolizzarle, rilanciarle in pubblico dibattito: basti citare l’iniziativa promossa da “Key4biz” – dal 7 marzo 2016 – “La Rai che vorrei”, così come gli incontri della “Pallacorda” tenutisi all’Università di Roma “La Sapienza” promossi dal professor Mario Morcellini, le iniziative di riflessione promosse da “think tank” come Articolo21 piuttosto che da Eurovisioni.
Abbiamo osservato in verità un Sottosegretario dai toni veramente molto mesti, scettico – da cittadino – sulla chance che una qualsivoglia legge o convenzione possa effettivamente dare attuazione a quel che lui ritiene essere la funzione essenziale del servizio pubblico: “consentire al cittadino di divenire pienamente persona”. La definizione ci piace, e ci auguriamo che questo spirito si traduca comunque in qualche modo nel testo dall’infinita gestazione. Giacomelli ha inviato poi un segnale netto e chiaro al Direttore Generale: la legge che ha definito la nuova “governance” gli ha consentito e gli consente un potere ed una autonomia che nessun suo predecessore ha mai avuto… quindi, “faccia bene o faccia male”, non potrà mai addurre un deficit di potere. Ai tempi della Prima Repubblica, una simile affermazione sarebbe stata interpretata come un segnale di evidente sfiducia: a questo forse è stata dovuta l’assenza di Antonio Campo Dall’Orto nella kermesse di ieri?!
Giacomelli ha evocato addirittura l’Iri – Istituto per la Ricostruzione Industriale, per prospettare un possibile ruolo Rai come aggregatore e moltiplicatore delle potenzialità dell’industria culturale nazionale. Ha sostenuto l’indispensabilità di un canale in lingua inglese. Ha auspicato una “rilegittimazione della Rai che la liberi dalla schiavitù del duopolio”. Ha teorizzato un “public service broadcaster” che sia in grado di scardinare gli “archetipi sociali consolidati” (oh, perbacco!). Gran belle intenzioni, in buona parte condivisibili: ma le leggeremo concretizzate nella arcana bozza di convenzione/concessione???
Alcuni sostengono che, nella partita, sia in verità entrato prepotentemente anche il Ministro Carlo Calenda, che, un paio di settimane fa, ha evocato il fantasma della “privatizzazione” per la Rai, attraverso il cosiddetto “spacchettamento” del canone ovvero per altre vie: c’è chi dice che il Ministro abbia avocato a sé il “dossier Rai”, togliendolo dalle mani del Sottosegretario Antonello Giacomelli. Si ricordi che il 15 gennaio, alla domanda del conduttore Giovanni Minoli (durante “Faccia a faccia” su La7), se non fosse arrivato il momento di mettere “a gara” fra pubblico e privato almeno una piccola quota del servizio pubblico, il Ministro Calenda ha risposto: “è un ragionamento che va fatto”.
Va fatto… quando, Ministro, e come?! Ci sarebbe da aver quasi paura, se la questione dovesse rientrare nell’economia della misteriosa convenzione/concessione Rai, dato che il dibattito non ci sembra abbia goduto di grande approfondimento (pubblico) nel nostro Paese, essendo peraltro sempre latente il rischio di interventi improvvisati e velleitari, come avvenuto nel 2004 con la “legge Gasparri”, che, all’ultimo articolo (l’art. 21), prevedeva una improbabile procedura di “dismissione della partecipazione dello Stato” nella Rai, attraverso il lancio di una offerta pubblica di vendita che il Cipe avrebbe dovuto definire (si prospettava comunque un tetto di partecipazione massima dell’1% delle azioni di voto di Rai s.p.a., vanificando così l’appetibilità dell’iniziativa). La bolla di sapone s’è presto sciolta.
Ricordiamo che, secondo l’ultima leggina “ad hoc” (ovvero una specifica disposizione del cosiddetto “Milleproroghe”), il termine ultimo per la novella convenzione tra Stato e Rai è fissato al 30 aprile 2017 (dopo l’ennesimo spostamento dal termine ultimo del 31 gennaio 2017), ma ancora nessuna traccia sui radar del testo che deve essere approvato anzitutto dal Consiglio dei Ministri. E siamo già ad inizio febbraio, di grazia. Si ricordi che il termine originario era il 6 maggio 2016!
La presentazione del libro di Massimo Scaglioni, giovane accademico della scuola di Aldo Grasso alla Cattolica di Milano (è professore associato in Storia dei Media ed Economia e Marketing dei Media), è stata aperta dall’intervento di Marco Follini, già politico di lungo corso ed attualmente Presidente dell’Associazione Produttori Televisivi (Apt), che ha sostenuto – come prevedibile – che la ricchezza plurale della Rai deriva soprattutto dalla sua capacità di dialogare in modo equilibrato e paritario con il “mondo esterno”, in primis, quindi i produttori indipendenti.
Il giovane gesuita Padre Francesco Occhetta, appassionato studioso dei media e redattore de “La Civiltà Cattolica” (per la precisione, “membro del collegio degli scrittori”), ha sostenuto che si dovrebbe inserire il concetto di servizio pubblico televisivo addirittura nella Costituzione italiana, perché “non tutti i beni sono merci e non tutto è monetizzabile”, quindi la funzione della Rai come strumento di coscienza civile, di rispetto del pluralismo, di integrazione civile, di coesione sociale, deve essere riaffermata con vigore, indipendentemente dalle logiche del mercato.
Ha sostenuto la necessità di una Rai che sviluppi a pieno la funzione “educante”, (non pedagogica) ma facendo riferimento alla radice semantica del termine, e-ducere (ovvero “guidare fuori”, da “e” che sta per “fuori” e “duco”, che sta per “condurre”), quindi sapendo estrarre dalla coscienza individuale e collettiva un senso comune che sia sganciato dalle logiche del capitale.
Piace osservare come si confermi – ancora una volta – la posizione critica della Chiesa Cattolica rispetto ad alcuni paradigmi del sistema neo-capitalista, che invece i più, anche a sinistra, danno per scontati ed indiscutibili. Oggettivamente il pensiero di Papa Francesco (anch’egli, peraltro, ricordiamo sempre “Servus Jesus”) assume sempre più connotati rivoluzionari. Almeno sulla carta.
Si segnala il saggio, dedicato giustappunto alla Rai, che Padre Occhetta ha pubblicato nel novembre 2016 su “La Civiltà Cattolica”, intitolato “Quale Rai per il futuro del Paese?” (che può essere letto sul blog del gesuita). Da segnalare la curiosa ed irrituale citazione che Occhetta ha fatto del Direttore della Comunicazione, Relazioni Esterne, Istituzionali e Internazionali della Rai Giovanni Parapini, indicandolo come buon esempio manageriale da seguire (confermando un eterodosso “endorsement” già contenuto nell’intervista di Occhetta a Parapini, un paio di settimane prima dell’assunzione dell’incarico a Viale Mazzini, nel febbraio del 2016).
Assente l’annunciato Paolo Romani (impegnato ad Arcore con Berlusconi sulla legge elettorale, è stato precisato), capogruppo dei senatori di Forza Italia, sostituito da Antonio Palmieri, esperto di comunicazione e marketing politico del partito. Palmieri ha subito onestamente dichiarato la propria non competenza nella specifica materia Rai, ma ha sostenuto che il servizio radiotelevisivo pubblico potrebbe essere svolto utilizzando una nuova formula societaria introdotta recentemente nella normativa italiana, alla luce di una consolidata esperienza statunitense: la “benefit company” (detta anche “B Corp”), che è una società che statutariamente non ha obiettivi soltanto di utile economico, bensì anche di costruzione di benessere sociale, ovvero di impatto positivo per la società e l’ambiente. Sconosciuta ancora ai più, introdotta nel gennaio 2016 attraverso la Legge di Stabilità, l’Italia ha in effetti riconosciuto la forma giuridica della “società benefit”: insieme all’impegno di distribuire dividendi agli azionisti, un “founder” può aggiungere fra gli obiettivi sociali legalmente protetti la vocazione ad avere un impatto positivo sulla società (un “beneficio comune”, “public benefit” appunto).
L’autore del libro si è limitato a riassumere il senso della sua opera con toni di assoluta pacatezza evitando polemiche di sorta, rimarcando come, aldilà del quesito retorico nel titolo (“vita” o “morte”), sua intenzione era ribadire l’assoluta esigenza di un servizio pubblico televisivo vivo e vegeto, ben delineato, solido, robusto. Con delicatezza, ha sostenuto – volgendo lo sguardo al Sottosegretario Giacomelli – che forse il governo avrebbe potuto acquisire utili stimoli se avesse guardato alle migliori esperienze a livello internazionale. Il che, ahinoi, non è evidentemente avvenuto.
Si legge nel libro (non pesante, né come stile né come dimensioni, circa 120 pagine) come in Italia, ancor più chiaramente che altrove, la tv di servizio pubblico non goda di buona fama: non ha saputo salvaguardare la propria autonomia, non solo dalle pressioni economiche, ma anche, e soprattutto, da quelle politiche, diventando un prolungamento dei partiti in Parlamento.
Non è riuscita ad affermare la propria specifica differenza dalla televisione commerciale, finendo per assomigliarvi fin troppo.
Ha privilegiato rendite di posizione, perdendo progressivamente il contatto con parti crescenti della popolazione, quelle più giovani e dinamiche. Di qui, la domanda radicale di Scaglioni: “abbiamo ancora bisogno del servizio pubblico radiotelevisivo o si tratta piuttosto di un ferro vecchio da destinare al pensionamento?”.
Il volume mira a rispondere, almeno in due direzioni: da un lato, ricostruendo le radici profonde che sono alla base del progetto di servizio pubblico; dall’altro, provando a immaginare il futuro del servizio pubblico attorno a dieci snodi cruciali. Questi i principali:
- Cosa significa tv “di qualità”?
- Che identità deve darsi nel nuovo ecosistema digitale?
- Che ruolo può ricoprire un’impresa televisiva pubblica in uno scenario di competizione sempre più globale?
- Che valore hanno la memoria e l’archivio?
- Che funzione può svolgere la tv nella promozione dell’industria culturale nazionale?
Sono tutti ambiti sui quali il servizio pubblico può e deve avere un ruolo determinante: è però necessario ripensarne il progetto per il nuovo millennio.
Il Sottosegretario Giacomelli ha sostenuto che tra le indicazioni tracciate da Scaglioni e le linee-guida adottato a suo tempo dal Governo retto da Matteo Renzi per la riforma della Rai ci sono molti punti di contatto.
L’autore del libro, nello specifico, ha preferito (diplomaticamente?!) non pronunciarsi.
Il 24 novembre 2016 il libro era stato presentato a Milano, in un dibattito che aveva visto come protagonisti Carlo Freccero (Consigliere di Amministrazione Rai), Aldo Grasso (Direttore Scientifico del Certa – Centro di ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi dell’Università Cattolica), e Franco Iseppi (Presidente del Tci – Touring Club Italiano, nonché Direttore Generale Rai dal 1996 al 1998), e quell’occasione assunse un sapore per lo più “teorico”, mentre la presentazione romana – in un consesso che più culturale non si può – ha certamente fornito stimoli al “decision making” governativo e politico.
Auguriamoci che il Governo sappia farne tesoro.
Nessuna eco nelle parole dei relatori, ma nell’uditorio si commentava l’elezione – avvenuta in Senato poche ore prima (pur senza discussione parlamentare di sorta sui curricula dei diversi candidati) – di Mario Morcellini come nuovo componente del Consiglio dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, come elemento di potenziale e significativa novità.
In effetti, sebbene Rai sia purtroppo non centrale negli obiettivi istituzionali che la legge assegna all’Agcom, l’innesto finalmente nel Consiglio di un qualificato sociologo e mediologo potrebbe stimolare un’evoluzione verso un approccio istituzionale meno schiacciato sugli aspetti giuridici e economici, rivalutando gli aspetti “umanistici” (sociali e antropologici) della funzione dell’Autorità.
Agcom dovrebbe finalmente vedere i cittadini come “persone” – per parafrasare l’auspicio di Giacomelli – e non soltanto come “consumatori”, “fruitori”, “utenti”, comunque “attori del mercato”. Un approccio di questo tipo consentirebbe all’Autorità un salto di qualità importante, nella sua funzione di “regolatore” del sistema dei media (“sistema” appunto, non soltanto “mercato”). Peraltro l’attribuzione pur convenzionale “in quota Pd” della nomina di Morcellini determina sicuramente un riassetto degli equilibri politici interni, con due commissari su cinque “in quota” al partito di maggioranza in Parlamento.
Ed è quindi assai verosimile che nel futuro di breve periodo Agcom acquisisca un ruolo finalmente più proattivo nell’economia politica del sistema mediale italiano, magari destinando anche maggiore attenzione alle delicate strategiche controverse vicende della Rai.
- Clicca qui, per fruire della videoregistrazione su Radio Radicale della presentazione del libro di Massimo Scaglioni, “Il servizio pubblico radiotelevisivo. Morte o rinascita della Rai”, avvenuta il 1° febbraio 2017 presso la Camera dei Deputati.