Mentre gli operatori tlc cercano di far valere le loro ragioni in Tribunale contro i bandi di gara Infratel per la banda larga nelle aree a fallimento di mercato, il Governo sta pensando a come risolvere la spinosa questione dei distretti industriali tagliati fuori dalle connessioni ultraveloci.
Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha presentato nelle scorse settimane il piano industria 4.0 che, non a caso, sarà costruito su incentivi fiscali orizzontali e non a bando perché dalle esperienze pregresse si è capito che quest’ultimo è il modo di non spendere.
Data la litigiosità degli operatori italiani, infatti, difficilmente quest’anno si riusciranno a spendere le risorse stanziate con la delibera CIPE 65/15, con la quale sono state assegnate le risorse del FSC 2014-2020 (2,2 miliardi di euro – dei circa 4,9 miliardi che saranno mobilitati dal Governo, con una quota 2016 pari a 300 milioni di euro), rallentando l’esecuzione della strategia BUL (lanciata marzo 2015), che prevede investimenti pubblici per circa 7 miliardi di euro entro il 2020 con l’obiettivo di mobilitare ulteriori 6 miliardi di euro privati.
Il primo bando di gara Infratel – che comporta investimenti per 1,4 miliardi di euro – è stato pubblicato a giugno, il secondo ad agosto. Fastweb ha chiesto – ma non ottenuto – la sospensione del primo bando di gara, per il quale gli operatori dovranno presentare le loro offerte entro il 17 ottobre. Il Tar discuterà il merito del ricorso di Fastweb il 14 dicembre, ma il 19 ottobre c’è da dibattere anche il ricorso di Telecom Italia, che contesta in particolare la parte del provvedimento che regola la vendita wholesale indicando che i prezzi devono essere applicati a condizioni eque e non discriminatorie.
Secondo Reuters, il ricorso di Fastweb è più ‘politico’ che tecnico, volto cioè a segnalare il dissenso della società sul fatto che la gara penalizza gli operatori verticalmente integrati, come, appunto, Telecom e Fastweb. Entrambe mirerebbero comunque a una modifica dei punteggi che consenta loro di aggiudicarsi una fetta significativa dei lavori.
Eppure è stato lo stesso presidente Telecom Italia Giuseppe Recchi, ieri, ad avvisare circa l’inutilità di costruire una infrastruttura se nessuna la compra, affermando: “non si costruiscono cattedrali nel deserto”.
Potrebbe essere questo dunque il rischio di realizzare reti in aree scarsamente remunerative e totalmente con fondi pubblici?
Il pericolo c’è, perché una rete pubblica difficilmente genera addizionalità e si rischia che il privato finisca per non avere interesse a massimizzarne la diffusione, mentre dare la proprietà della rete agli operatori, anche con il 70% delle risorse a fondo perduto, impone al privato di investire una seppur minima parte di fondi propri e quindi a trovare il modo per recuperare queste risorse nel minor tempo possibile.
Mentre comunque l’infrastrutturazione delle aree bianche rischia di impantanarsi tra i ricorsi, emerge anche l’urgenza di intervenire in quelle grigie, nelle quali vive il 40% della popolazione – cittadini attivi e con una propensione di spesa medio-alta – ed è situato il 69% delle imprese italiane (contro il 23% situato nelle aree bianche el’8% in quelle nere).
Bisogna, insomma, incentivare gli investimenti privati nelle aree grigie e a poco servono i voucher per i privati che vogliono connettersi alla fibra ottica.
Proprio per questo motivo, in un’ottica di industria 4.0, il Governo sta pensando di pensando superare il superammortamento al 140% e di fare ricorso a un iperammortamento al 250% per i beni legati all’industria 4.0.
Il Piano Industria 4.0 prevede investimenti pubblici per 13 miliardi di euro nel periodo 2017-2020, che dovrebbero mobilitare 24 miliardi privati (10 miliardi in più di investimenti privati in innovazione nel 2017 – da 80 miliardi a 90 miliardi – +11,3 miliardi di spesa privata in più nel triennio per la ricerca e lo sviluppo e, sempre nello stesso periodo, un incremento di 2,6 miliardi dei finanziamenti privati, specie nella fase early stage).
I 13 miliardi di euro prenderanno la forma di incentivi fiscali su investimenti innovativi, incentivi alla ricerca, finanziamento a startup.
L’idea deve ricevere il via libera della Ue, ma ha già incassato il plauso dell’industria, in particolare per quel che riguarda la fine degli incentivi legati ai bandi.
Il piano, secondo il vice presidente di Confindustria Marco Gay, “…accelera la produttività del 50% e comprime i costi di produzione del 30% e con l’Internet delle cose comprime del 100% i costi di manutenzione e fermo macchine”.
Secondo Gay, l’iperammortamento va nella strada giusta per aziende che vogliono investire – “su un investimento di un milione porta un risparmio fiscale in di 360mila euro in 5 anni” – e permetterà di sfruttare le potenzialità del made in Italy “che se fosse un brand sarebbe il terzo marchio al mondo dopo Visa e Coca Cola “.